La american way of life ha esportato un altro prodotto di successo: il neoconservatorismo. Non pare che in Italia goda oggi di buona salute. Tuttavia ancora se ne parla. È dunque opportuno discuterne. Si tratta di una corrente di pensiero che cerca di mettere insieme religione, fede e conduzione della vita pubblica e...
del 12 gennaio 2009
L’articolo commenta il significato di due sigle oggi molto usate in Italia nella terminologia culturale e politica. Ne spiega l’origine e il significato e discute la pretesa dei teocom di essere portatori privilegiati dei valori cristiani e cattolici. Quando gli studiosi e i politici di varia provenienza hanno costituito quel soggetto politico che sono i teocon, essi hanno fatto una scelta soltanto ed esclusivamente politica. Per la loro battaglia politica e culturale avevano bisogno di un alleato. E hanno guardato alla Chiesa come all’unico baluardo nel quale si potesse confidare per invertire il corso della deoccidentalizzazione. Essi hanno il diritto di trarre dal loro atteggiamento verso la religione l’orientamento politico che credono. Ma né essi, né chi la pensa all’opposto, possono pretendere di tirare Dio dalla loro parte.
 
La american way of life ha esportato un altro prodotto di successo: il neoconservatorismo. Non pare che in Italia goda oggi di buona salute. Tuttavia ancora se ne parla. È dunque opportuno discuterne. Si tratta di una corrente di pensiero che cerca di mettere insieme religione, fede e conduzione della vita pubblica e, pertanto, arrivata in Italia, ha tentato di orientare il dibattito politico verso il ridimensionamento della laicità dello Stato. Ne sono diventati sostenitori M. Pera, G. Ferrara, A. Mantovano. Favorevoli a una riformulazione del concetto di laicità, nel senso che la religione non sia pregiudizialmente confinata nella sfera privata ma possa dilatarsi fino a diventare parte della sfera pubblica, si sono dichiarati G. Amato, P. Fassino, R. Prodi.
 
I neocon
 
Definire sinteticamente cosa vuol dire essere conservatori non è così facile come definire l’essere progressisti. Secondo Gennaro Malgieri, il conservatorismo è, insieme, un sentimento spirituale e una vocazione culturale, la consapevolezza di vivere per lasciare dietro di sé un’eredità sapendo di essere eredi, un guardare alla vita con un’ottica che la trascende e contemporaneamente la rinnova.
Questo conservatorismo, per così dire, creativo è cosa ben diversa dal conservatorismo che è statica nostalgia del passato. In Italia, è prevalsa sempre l’idea negativa di conservatorismo, ossia dell’immobilismo sociale e classista, della salvaguardia di interessi e privilegi particolari. Perciò è mancato quasi sempre in Italia un partito conservatore che, pur ponendosi come «reazione», fosse capace di porsi anche come tradizione volta in avanti (1).
I neocon di oggi, che esercitano un loro peso sia negli Stati Uniti sia in Europa, non verificano in tutto la predetta formula del conservatore 2. Sostengono il cambiamento sociale da realizzare con gradualità, in vista di un più diffuso benessere che dev’essere affidato non all’iniziativa dello Stato con il sistema del welfare, ma alla responsabile iniziativa individuale. L’anticomunismo e l’antiliberismomsono i corollari necessari di questa impostazione. Gli strumenti obbligati del dinamismo sociale sono il capitalismo, le istituzioni democratiche e il pluralismo etico e culturale. E poiché il principio della sussidiarietà orizzontale, la meritocrazia e la libertà sono valori ampiamente condivisi in Occidente, i neocon si considerano i portatori di quel che è il comune sentire degli ordinamenti degli Stati Uniti e della maggior parte degli Stati che aderiscono all’Unione Europea. I neocon, insomma, si collocano, secondo alcuni osservatori, tra l’individualismo esasperato e lo statalismo soffocante ed essi stessi si presentano come i promotori dei corpi sociali intermedi: famiglia, scuola, impresa, associazioni.
Nella posizione dei neocon, gli italiani avvertiranno la memoria della vecchia disputa che oppose Benedetto Croce a Luigi Einaudi.
Il primo negava la coincidenza tra il liberismo come sistema economico e il liberalismo come concezione di valori ideali. Il secondo riteneva inscindibili quella concezione e quel sistema.
 
 
I teocon
 
Anche i teocon sono di esportazione americana. Pur avendo altra matrice culturale, potrebbero essere accostati ai vecchi cattolici liberali. Come questi provenivano dal ceppo del liberalismo dogmatico, così i teocon vengono da una diaspora della sinistra moderata americana più di loro radicalmente progressista. Possono essere descritti come l’espressione politico-religiosa del cattolicesimo sociale e del liberalismo. I loro uomini più rappresentativi, che si autodefiniscono cattolici-wigh, sono Michael Novak, Richard John Neuhaus e George Weigel. I teocon sono intellettuali sia cattolici sia laici. I laici sono disposti a riconoscere il ruolo sociale e politico del cristianesimo all’interno della sfera pubblica.
Il fondamento del pensiero teocon è la promozione della dignità umana secondo il diritto naturale cristianamente inteso e, in essa, la libertà di coscienza come diritto inalienabile dell’uomo che, sola, può generare azioni veramente morali. In pratica, i teocon sono impegnati per il rispetto dei diritti civili, per lo sviluppo della libera iniziativa economica, nella battaglia sui problemi bioetici, sebbene la loro opposizione all’aborto, all’eutanasia, alla  sperimentazione sulle cellule staminali embrionali non sia condivisa dalla loro componente non cattolica. In generale, sono lontani tanto dalle forme estreme del cattolicesimo tradizionalista quanto da quelle del cattolicesimo progressista.
In Italia, i teocon sono chiamati atei devoti. La formula allude ai loro convincimenti sul piano religioso e alla scelta puramente tattica della loro «devozione». Secondo parecchi osservatori, ciò che li tiene insieme è la paura. Sarebbe stato l’11 settembre a far riscoprire loro i valori della civiltà occidentale e la vocazione a difenderli senza compromessi. Da qui vengono la lotta contro il relativismo,e l’islamismo, l’inquietudine per la penetrazione islamica in Europa, l’affermazione dell’identità cattolico-cristiana del Continente, la difesa della vita e della famiglia tradizionale, l’ostilità per il cattolicesimo progressista, il liberismo economico. Paura, dicevamo. Uno stato d’animo che nei teocon si è rafforzato dinanzi a fenomeni come il pacifismo assoluto, il rigetto dello scontro di civiltà, il gay pride, l’immigrazione che da bisogno del capitalismo si è evoluta in multiculturalità, la religione combattuta dal consumismo, la libertà dal politically correct, la tolleranza che può nascondere l’indifferenza ai valori. André Comte-Sponville, che è un noto filosofo francese, potrebbe essere citato come esempio di pensiero teocon: «Come ateo, io non sono contro il cristianesimo, ma contro il fanatismo da una parte e il nichilismo dall’altra. Anzi, sono convinto che dovremmo combattere insieme contro l’uno e l’altro. Sono ateo perché non credo in Dio; sono fedele perché resto attaccato ai valori morali nati nella tradizione giudeo-cristiana e specialmente nei Vangeli. È evidente la differenza tra fede e fedeltà: la prima significa credere, e io non credo. La seconda è una coerenza con dei valori morali che dipende da noi. Teologicamente, la fede dipende dalla grazia, la fedeltà dalla volontà»(3).
 
 
La Chiesa e i teocon
 
Come si collocano i teocon dinanzi alla Chiesa? Almeno in Italia, questa è una questione ancora dibattuta. Gianni Baget Bozzo prende le mosse da lontano. Poiché la storia del costituirsi dell’identità cristiana dell’Europa, specialmente alcune sue tappe (la fine dell’impero romano, l’evangelizzazione dei popoli germanici e slavi, la lotta contro l’islàm, l’umanesimo realizzato in contesto cristiano ecc.), è letta da alcuni come la storia della compromissione della Chiesa con il potere politico, succede che oggi qualsiasi cattolico che voglia riconoscere e riproporre come gloria della Chiesa i valori cristiani corre il rischio di vedersi emarginato come tradizionalista dal mondo cattolico. Perciò la difesa di quei valori è diventata monopolio dei teocon. «Il fascino degli atei devoti consiste nel fatto che dichiarano di essere non credenti e perderebbero l’autorevolezza che hanno nel mondo cattolico come testimoni esterni se si convertissero» (4). Sembra quasi che gli atei devoti non si convertano per favorire, con l’incognito di «credenti impliciti», la missione della Chiesa. Quasi martiri di un’idea.
Parallela o simile è l’interpretazione che viene dalla sponda opposta. Scrive Gad Lerner: «La gerarchia cattolica attribuisce una funzione cruciale, strategica, a personalità non credenti che propugnano i valori normativi della dottrina religiosa su un piano di mera convenienza razionale. Agli “atei devoti” la Chiesa non propone un cammino di conversione. Chiede loro di testimoniare che è possibile uniformarsi alle regole di convivenza da essa prescritte anche senza bisogno di credere». La Chiesa «gradisce il soccorso degli “atei devoti” e la disponibilità intermittente di politici pronti a figurare clericali senza neanche bisogno d’essere cristiani. Che importa se agiscono per vocazione o per convenienza? È con il loro sostegno che la Chiesa s’illude di rifondare l’identità nazionale e occidentale perduta. Ecco perché è meglio se gli “atei devoti” non si convertono. Il tempo in cui il cristianesimo andava testimoniato innanzitutto nella condotta di vita è sopravanzato dall’imperativo della nuova alleanza mondana». C’è oggi «una Chiesa italiana talmente debole nella sua ispirazione evangelica da mettersi al traino di un pensiero settario, rinunciando al dialogo fiducioso con l’insieme del mondo laico» (5).
 
Questo testo dev’esser compreso all’interno della concezione di Chiesa che ha l’autore. Parla di Chiesa, ma ne ignora il significato proprio. Parla di gerarchia cattolica ma intende soltanto qualche influente personaggio. Soprattutto è certo che la Chiesa è minoranza e, come tale, per la sua stessa sopravvivenza e per i suoi fini, trova comodo e utile farsi affiancare da una «nuova frazione laica» rinunciando al confronto con sensibilità laiche diverse.
Chiesa e teocon converrebbero, furbescamente e ipocritamente da ambo le parti, nel «miraggio di una nuova leadership cristiana». Lerner ripete, consapevolmente o non, la vecchia tesi del Croce che diceva che la Chiesa «politicamente si vale di tutto», e voleva dire di ogni movimento e sistema politico, perché «non è legata a singoli interessi mondani, perché l’unico suo interesse è quello della sua propria esistenza e l’unica sua conservazione è quella della religione rivelata e dogmatica» (6). A noi non pare ci sia, in questo, motivo fondato di scandalo, come se la Chiesa avesse accantonato la sua «ispirazione evangelica». Nessuno vorrà accusare l’apostolo Paolo di non essere evangelicamente ispirato. Ed egli ha scritto: «Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, con spirito di rivalità, con intenzioni non pure. Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro» (Fil 15,18). Ora predicare Cristo non è cosa diversa dal predicare, come primo autentico valore, il suo insegnamento. Gli atei devoti lo fanno? La nostra risposta è negativa.
Il testo apostolico ci insegna che talvolta il Vangelo può essere annunciato anche da persone che non brillano soggettivamente per vita cristiana, che non sono modelli della dottrina che annunciano.
E il Vangelo ha in sé una forza che non dipende dalla conversione e dalla santità personale dei suoi predicatori. Ma è evidente (e in ciò condividiamo l’opinione di Tommaso Vesentini) che, quando gli studiosi e i politici di varia provenienza hanno costituito quel soggetto politico che sono i teocon, essi hanno fatto una scelta soltanto ed esclusivamente politica. Per la loro battaglia politica e culturale avevano bisogno di un alleato. E hanno guardato alla Chiesa, al suo prestigio in Italia e nel mondo, al numero dei suoi fedeli, alla sua organizzazione capillare, come all’unico baluardo nel quale si potesse confidare per invertire il corso della deoccidentalizzazione. «Noi abbiamo bisogno, come atei devoti, della Chiesa e della sua influenza pubblica» ha detto una volta Giuliano Ferrara.
La scelta di dichiararsi alleati della Chiesa è stata, dunque, per i teocon una scelta politica strumentale. È fuori luogo discettare di conversione e di scelte interiori. Il che non toglie che alcuni elementi del loro programma siano in se stessi schiettamente cristiani e pertanto in grado di disorientare qualche cattolico meno avveduto. «La stessa autodefinizione di “atei devoti” non è la migliore premessa per occuparsi di cose di fede. I “teocon”, come chiunque altro, hanno tutto il diritto di trarre dal loro atteggiamento verso la religione l’orientamento politico che credono e di operare politicamente secondo i loro princìpi e interessi. Ma né essi — né chi la pensa all’opposto — possono pretendere di tirare Dio dalla loro parte» (7).
 
 
 
1 Cfr G. MALGIERI, Conservatori: da Edmund Burke a Russell Kirk, Roma, Il Minotauro, 2006.
2 Cfr F. FELICE, Neocon e Teocon, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2006. Si veda anche la recensione di T. L. Rizzo a questo volume in Nuova Antologia 141 (2006) 371 s.
3 Cfr P. Springhetti, «La Pentecoste dei laici», in Avvenire, 22 gennaio 2008, 27.
4 G. Baget Bozzo, «La libertà degli atei devoti», in Il Foglio, 24 novembre 2006, 1.
5 G. Lerner, «La Chiesa e gli atei devoti», in la Repubblica, 8 gennaio 2008, 1 e 23.
6 B. CROCE, «Filosofia e religione», in ID., Filosofia e storiografia. Saggi, Bari, Laterza, 1969, 49 e 52.
7 C. MAGRIS, «Dio, fede e confusione», in Corriere della Sera, 26 ottobre 2006, 1.
 
 
 
 
 
Giandomenico Mucci S.I.
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