Nodi problematici e sfide dell'animazione

La concezione della persona come essere progettuale poggia sul riconoscimento della relazionalità come processo su cui si fonda la sua autocostruzione. Infatti è attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelligibile, il mondo che abita.

Nodi problematici e sfide dell'animazione

da Teologo Borèl

del 25 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

         Tradizionalmente nell’animazione si opera all’interno di un modello che prevede gruppi di appartenenza sufficientemente stabili con una identità abbastanza forte, mentre oggi chi opera nell’animazione si trova di fronte a gruppi dove i ragazzi entrano ed escono continuamente e che hanno, quindi, una composizione e una appartenenza variabili. 
Si tratta di gruppi con i quali è possibile operare solo con interventi a bassa soglia – per usare un termine di moda introdotto nel linguaggio comune dalle politiche e dalle pratiche della «riduzione del danno». 
Politiche che sono nate dalla constatazione dell’impossibilità di affrontare la totalità del fenomeno della tossicodipendenza solo con i percorsi, comunitari o non, di recupero e di ri-socializzazione. 


          Per questo motivo si sono individuati gli interventi di bassa soglia che si rivolgono ai giovani che non vogliono o che non ce la fanno ad uscire dalla tossicodipendenza al fine di ridurre i danni che con alcuni loro comportamenti possono recare a sé e agli altri, sia in termini di salute che di convivenza sociale. 
Ciò vuol dire in altre parole che gli interventi di bassa soglia non mirano a far uscire il giovane dalla dipendenza delle droghe, ma solo a fargli ottenere un maggior livello di salute biopsichica ed evitare per quanto possibile che commetta dei reati. Il tema dei gruppi temporanei a bassa soglia di appartenenza consente di introdurre al fenomeno della «scomparsa dei luoghi». 
Occorre infatti tenere conto che l’impatto dei media elettronici con la complessità ha prodotto nelle società più sviluppate la scomparsa dei luoghi particolari al cui interno si declinava la vita delle persone e, di fatto, la formazione di un luogo unico. 
Oltre a questo, i media elettronici hanno portato alle estreme conseguenze la crisi del tempo noetico sia sul versante della relazione intergenerazionale, sia su quello dell’itinerario evolutivo della formazione della persona umana.

La scomparsa dei luoghi e la nascita dei nonluoghi

          La parola «luogo» indica quella costruzione concreta e simbolica dello spazio che assolve alla funzione identitaria, a quella relazionale e a quella storica. Esso offre a chi lo abita un principio di senso e a chi lo osserva l’intelligibilità. 
Questo vuol dire che il luogo non è semplicemente uno spazio, ma è uno spazio umanizzato e abitato. Uno spazio che non solo è interpretato ma che fornisce a chi è al suo interno le chiavi di interpretazione e di attribuzione di senso della realtà. E questo avviene perché il luogo inserisce le persone all’interno di una storia, di una memoria e di un progetto di futuro, e perché esso offre le informazioni e le norme che fanno sì che le persone che lo abitano assumano particolari comportamenti e vivano le relazioni primarie e secondarie in un modo affatto particolare. 
La scuola, ad esempio, quando ancora era un luogo, faceva sì che i ragazzi, entrando in essa, assumessero stili, comportamenti e atteggiamenti diversi da quelli che avevano per strada: perché c’era una sorta di sacralità del luogo che li condizionava e che li spingeva nella direzione di quegli stili, comportamenti ed atteggiamenti.

          
Oggi molti studiosi affermano che il luogo non esiste più perché i media elettronici, e la televisione in particolare, hanno rotto il legame che univa determinati comportamenti, atteggiamenti e stili di vita a determinati spazi fisici e simbolici. Questo legame era costituito, da un lato, dalle convenzioni situazionali che fissavano per i vari luoghi i comportamenti appropriati e, dall’altro lato, dal fatto che chi stava in un medesimo luogo condivideva delle particolari informazioni e valori che potevano essere conosciute solo all’interno di quel particolare luogo e non altrove. 
La televisione, rompendo questo legame tra collocazione fisica e situazione sociale, ha confuso le identità di gruppo che un tempo erano separate. Questo è avvenuto perché gli individui attraverso il media televisivo hanno potuto sfuggire dal punto di vista informativo ai gruppi ancorati in un luogo definito, e hanno potuto invadere molti luoghi a cui erano estranei senza neppure entrarci. 
L’identità di gruppo, come è noto, si fonda sulla condivisione di sistemi simbolici condivisi ma particolari, e quindi sia la diffusione agli «estranei» dei contenuti del sistema simbolico legato ad un luogo particolare, sia il venire a conoscenza per gli abitanti di un luogo dei sistemi simbolici presenti in altri luoghi hanno di fatto prodotto una omogeneizzazione dei luoghi che è il primo passo verso il luogo unico. Accanto alla omogeneizzazione dei luoghi è in corso poi una rapida e per ora irreversibile espansione dei nonluoghi.

          
I nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni, quanto i mezzi di trasporto stessi, o i grandi centri commerciali o i campi profughi in cui sono parcheggiati i rifugiati del pianeta. 
I nonluoghi sono tali perché sono spazi che non forniscono alcuna identità alle persone che li abitano, non li inseriscono in alcuna storia e si limitano, semplicemente, a svolgere una funzione. 
La vita delle persone nelle aree urbane si svolge in una sorta di pendolarismo tra il luogo unico e i nonluoghi. 
Questo significa un ulteriore indebolimento dell’identità personale e storico-culturale degli individui, un loro inserimento in sistemi relazionali anonimi e massificati, in cui i sistemi simbolici non offrono più chiavi significative e particolari di interpretazione della realtà. 
Nel passato il luogo richiedeva, quindi, ai suoi abitanti un certo tipo di comportamento che differiva da luogo a luogo. Questo faceva sì che il luogo diventasse un «contenitore» e che contribuisse perciò alla funzione educativa, che, come è noto, è sempre fondata sulla dialettica molto difficile e precaria tra l’espressione e il contenimento. 
Il luogo di fatto era il contenitore naturale che creava un limite all’espressione del desiderio. Anche il gruppo giovanile era un luogo.

          Oggi i luoghi non esistono, ed esiste invece la dispersione dei giovani all’interno dello spazio errabondo che non riesce a trovare la risposta alla sua nostalgia del luogo. 
E questo fa sì che i giovani non trovino più a loro disposizione quel contenitore naturale che dava forma e senso al loro desiderio di espressione. 
Non per nulla la pratica di animazione è stata incentrata in questi anni a favorire l’espressione, perché partiva dal presupposto che di luoghi contenenti ce ne fossero sin troppi ma che, al contrario, mancasse una adeguata possibilità di espressione. 
Si diceva, infatti, che la civiltà industriale nei suoi luoghi di produzione, nelle fabbriche e nelle scuole, impedivano alla gente di esprimersi ed era perciò necessario aiutarla a liberare la propria creatività ed espressività. 
L’animazione teatrale, ad esempio, è nata all’interno di questa analisi sociale che affermava l’esistenza di un tipo di società che conteneva fortemente le persone e che impediva loro lo sviluppo della creatività e della libertà espressiva. 
Da questa analisi sono nati, oltre all’animazione teatrale, vari filoni di animazione di carattere espressivo ed artistico. 
Ora, invece, questo contenimento non c’è più perché non solo, come si è visto, si ha un luogo unico, ma perché sono comparsi i «nonluoghi» che non contengono, anche perché al loro interno la persona è secondaria rispetto alla funzione che esso deve assolvere e nei confronti della quale deve porsi in modo assolutamente neutrale, rispetto alle varie culture, sistemi di valori e stili di vita che caratterizzano il mondo attuale. 
La discoteca è un nonluogo finalizzato alla funzione dell’espressione in cui il giovane è spinto a cercare una espressione radicale, e perciò primitiva di sé. E se non gli bastano per fare questo la musica e l’atmosfera della sala, ha a disposizione le droghe e l’alcool in modo che la sua espressione possa manifestarsi al massimo livello. 
Da questa sommaria analisi emerge la prima grossa sfida per l’animazione oggi: l’esistenza dei gruppi a bassa soglia che sono l’espressione tipica di una società che ha perso i luoghi.

La morte del desiderio

          Una seconda sfida è costituita da quella che può essere definita come la morte del desiderio. Dove non è chiaro se si tratta di una vera e propria morte del desiderio o se si tratta dello slittamento del desiderio verso il bisogno. 
Questo perché l’attuale cultura sociale ha collocato il bisogno al centro della vita. L’orientamento esistenziale delle persone, infatti, sembra essere orientato alla risposta ai loro bisogni primari, secondari e acquisiti. Non è un caso che nel linguaggio quotidiano siano frequenti espressioni come: io ho bisogno di esprimermi, io ho bisogno di appagamento, io ho bisogno di felicità. 
Le persone dicono quasi sempre «io ho bisogno» e assai raramente «io desidero». Ad esempio non dicono: «io desidero aprirmi e comunicare con gli altri», ma dicono: «io ho bisogno di comunicare con gli altri». C’è stato uno spostamento, che non è solo semantico, dal desiderio al bisogno. Questo significa che l’uomo viene visto come un insieme di bisogni a cui dare risposta. 
Il desiderio, diversamente dal bisogno, è progettuale perché è sete di vita, è il tentativo di spingere la vita verso i suoi limiti, verso i suoi confini. 
In una trasmissione televisiva dell’anno scorso il leader degli studenti del Mamiani, parlava dell’occupazione della scuola come di una occasione per gli studenti di socializzare più profondamente: «Perché a scuola normalmente abbiamo solo l’intervallo per socializzare».

          
Socializzazione e introspezione erano le due parole chiave che orientavano l’esperienza di autogestione di quella scuola durante l’occupazione. Socializzazione e introspezione come risposta al bisogno di scendere in sé, di autocomprendersi e di vivere le proprie emozioni. 
Questo fatto indica come per questi giovani la realizzazione di sé passi attraverso la dimensione soggettiva, emotiva e affettiva del bisogno, e non più attraverso la dimensione culturale del desiderio. 
Proprio perché diventa bisogno e non più desiderio, l’autorealizzazione tende ad essere prigioniera della soggettività delle persone. 
D’altronde è in nome del bisogno che lo psicoterapeutico tenta di soppiantare l’educazione. 
Non è un caso che gli psicologi stiano cercando di spingere via i pedagogisti e gli educatori dal territorio dell’educazione e di sostituirli utilizzando modelli educativi che partono dai bisogni e dai problemi tipici dell’esperienza psicoterapeutica. 
I formatori psicologi ormai tendono ad aumentare ogni giorno di più dimenticando che la pedagogia ha un fondamento filosofico, e che quindi utilizza le scienze umane all’interno di un progetto che è di tipo esistenziale, ovvero filosofico, teologico, estetico e antropologico. 
La scommessa educativa sull’uomo non nasce dall’analisi dei suoi meccanismi psichici e delle sue patologie, ma da un progetto esistenziale ancorato a qualcosa che trascende l’orizzonte del bisogno, del benessere e dell’utilità. 
Occorre perciò ricordare che il terapeutico dà risposta al bisogno, mentre l’educativo dà risposta al desiderio.

La crisi della memoria

          Un terza sfida che emerge è quella della crisi della memoria. Memoria che, oltretutto, non diventa storia, mentre questa non diventa memoria. 
La memoria sta diventando soggettiva, essendo legata esclusivamente al flusso di coscienza. 
Dentro la crisi della memoria e della storia anche le parole diventano vuote, private della capacità di rinviare alla realtà. 
Questo ha comportato lo sradicamento parziale degli abitanti delle società complesse dall’alveo vitale dell’identità storico-culturale all’interno della destrutturazione della loro temporalità. 
Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità, che è in attualmente in corso nella cultura sociale, sul percorso di crescita umana e personale dei giovani è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale, dal come vivano debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionali con gli adulti, dalla sperimentazione molto diffusa dell’assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale, e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale. 
Questa trasformazione della temporalità è prodotta dall’indebolimento dell’asse storico verticale del tempo e dal contemporaneo straordinario rafforzamento dell’asse orizzontale dello stesso tempo. 
Quest’ultimo asse, detto anche del tempo sociale, è quello su cui si declina il coordinamento nel presente dell’agire sociale degli individui e si esprime per mezzo delle relazioni comunicative che connettono gli individui e che formano quelle che, solitamente, vengono definite come le reti sociali.

          
Le moderne tecnologie della comunicazione e della telematica (computer, tv satellitare, fax, modem, telefoni cellulari, ecc.) stanno creando delle reti di comunicazione che in tempi sempre più ravvicinati consentono agli individui di entrare in relazione tra di loro anche se sono fisicamente dislocati in luoghi molto lontani tra di loro. Internet e la posta elettronica sono un buon esempio di questa rete. 
Allo stesso modo la tv via satellite, e prossimamente via cavo, consente alle persone di partecipare come spettatori in tempo reale ad avvenimenti che accadono in luoghi remoti. 
Mentre questa rivoluzione tecnologica e culturale interrela sempre di più le persone all’interno di uno spazio sociale sempre più grande, accade che le stesse persone tendano a perdere, o perlomeno a indebolire, le loro relazioni comunicative con gli esseri umani che hanno abitato prima e che abiteranno dopo di loro lo spazio e il tempo. 
In altre parole, le persone tendono a perdere «memoria», intesa anche come la capacità di percepire la loro vita quale figlia e madre di una storia, ovvero il legame di responsabilità che le lega alle generazioni precedenti e a quelle future. 
Ma non solo. In questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi all’interno del loro segmento temporale indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel presente. La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione. 
Trasformazione che oltre a investire i rapporti temporali delle persone con quelle delle altre generazioni che le hanno precedute e che le seguiranno, riguarda anche il loro attuale tempo di vita e si manifesta nell’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso. 
Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato. 
L’identità debole e frammentata, l’impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur aperto, l’incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell’opportunismo, l’angoscia vestita di depressione o di fuga nell’evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi del tempo della storia detto, dagli studiosi della temporalità umana, «tempo noetico». 
Secondo alcuni autori questo fenomeno è prodotto dalla «spazializzazione del tempo» che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante. 
Immersi in questo tempo spazializzato, gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia, e divengono delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro. Questo fa sì che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale. Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale. 
All’origine di questa trasformazione della temporalità vi sono fenomeni sociali complessi come l’urbanizzazione, l’espansione della tecnologia e della presenza dei fondamenti tecnico-scientifici di tipo universalistico nelle culture locali, il predominio del senso ottico, ovvero il predominio delle immagini rispetto alla parola parlata e scritta e, infine, l’influenza dell’industria culturale che, per evitare che l’effetto del rapidissimo succedersi delle sue proposte abbia effetti distruttivi sulla sua stessa produzione, deve appiattire l’esperienza del tempo a favore della simultaneità.

La crisi della parola

          La crisi della memoria si connette con la crisi della parola, della sua capacità di rinviare alla realtà. 
A questo proposito occorre ricordare che un segno linguistico deriva il suo significato tanto dal suo opporsi e distinguersi dagli altri segni del sistema linguistico, quanto dalla sua relazione con l’oggetto mentale e/o fisico a cui rimanda. 
Nella cultura della società complessa surmoderna il segno è andato sempre più autonomizzandosi dall’oggetto per manifestare il suo significato quasi esclusivo in relazione con gli altri segni. 
Questa trasformazione profonda della lingua ha portato le persone a sganciarsi sempre più dalla realtà per collocarsi all’interno di un mondo immaginario. 
La parola si è fatta astratta perdendo la sua «cosalità». 
La parola greca «logos» ha prevalso sulla parola ebraica «dabar». 
Come è noto, infatti, in ebraico dabar oltre che parola significa anche cosa, mentre in greco logos oltre che parola significa anche concetto, idea astratta. 
Tale differente modo di intendere e di usare la parola si manifesta nei differenti modelli culturali del mondo greco e di quello ebraico. Infatti mentre nella tradizione ebraica la parola è lo strumento che l’uomo ha a disposizione per dominare la realtà del mondo storico che abita, e la verità è la fedeltà nella vita quotidiana all’alleanza, nel mondo greco, invece, la parola rimanda all’essenza della realtà, ai concetti astratti o ideali che la realtà nasconde o maschera, e la verità, conseguentemente, consiste nel portare alla luce, nello svelare queste essenze nascoste. 
Questo spostamento della parola verso l’astratto e il suo mondo, l’immaginario, tradisce quell’equilibrio tra «dabar» e «logos» che ha caratterizzato dopo l’avvento del cristianesimo la cultura dell’occidente. 
Questo tradimento è stato prodotto tra l’altro dalla perdita di memoria che, come si è visto, è tipica dell’attuale vita sociale, e che si è manifestata anche, se non soprattutto, nel mancato deposito della memoria nel significato delle parole che è frutto di diversi strati temporali al pari della crosta terrestre. 
Il mancato deposito della memoria nel significato delle parole è una delle cause più rilevanti della perdita della capacità delle parole di avere un significato stabile e di essere fedeli alla storia in cui sono dette. Invece esso è oltremodo funzionale alla creazione di un linguaggio che serve per fuggire dal mondo e dissolvere il reale nel virtuale. 
Una seconda trasformazione rilevante riguarda la dimensione sintattica del linguaggio. Esso, infatti, sta perdendo la sua struttura logica lineare consequenziale per assumere quella di una struttura d’insieme. 
La logica della comunicazione visiva si è sostituita a quella della comunicazione orale con risultati devastanti, soprattutto sull’uso della lingua parlata, anche se manifesta alcune conseguenze pure al livello della lingua scritta. 
Come è noto, per motivi legati alla fisiologia degli organi del senso uditivo umani, la lingua parlata per essere correttamente decodificata deve essere strutturata in sequenze logiche lineari, ovvero i vari suoni che si susseguono nel tempo devono essere legati da una trama logica. Al contrario, la percezione dell’immagine è simultanea, in quanto i vari elementi che la formano si presentano insieme nello stesso istante e, quindi, la logica che la struttura è quella di una relazione tra le parti. 
Questa trasformazione della struttura logica della lingua, oltre che effetti sulla sua efficacia comunicativa, ha pure quello di ridurre la capacità delle persone di strutturare gli eventi in una logica temporale di tipo storico e, quindi, di attribuire ad essi un significato che trascenda quello contingente. 
Questo elemento si lega strettamente alla crisi della progettualità prima descritta e alla incapacità di percepire il senso della storia.

L’emergere dell’identità debole e della pluridentità

          Nel labirinto della complessità sociale il non avere una identità stabile, coerente e unitaria è ritenuto normale. Il modello di identità della società complessa, infatti, è quello di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai compiutamente raggiunta. Questo tipo di identità è teorizzato sia a livello filosofico che sociologico. 
Nel rapporto con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con il concetto di identità debole, l’impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L’unico modo possibile per l’abitante delle società complesse di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace, e se formula una domanda non pretende risposta. 
L’identità debole è legata alla perdita del centro sociale che frantuma l’esperienza dell’appartenenza sociale delle persone, facendo sì che i loro vissuti siano divisi in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria. 
In conseguenza di questo ogni esperienza che la persona vive ha un significato relativo che si esaurisce all’interno dell’esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi a un senso più generale. 
Questo comporta, tra l’altro, una forte difficoltà da parte della persona a dare coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l’asse del suo tempo quotidiano.

La fine della secolarizzazione?

          Per prima cosa occorre domandarsi che cosa la secolarizzazione ha realmente introdotto nella cultura sociale, e se per un cristiano essa è solo un qualcosa di negativo. L’abolizione della differenza tra lo spazio sacro e lo spazio profano, fra il tempo sacro e il tempo profano, è così estranea al cristianesimo? O è il compimento di una concezione cristiana? 
Questa domanda nasce dalla constatazione che il cristianesimo non ha mai proposto all’uomo la salvezza nel tempo sacro e la conseguente ricerca dell’uscita dal tempo profano per indurlo a rifugiarsi in tempi e spazi sacralizzati, perché ha proposto la storia e il suo tempo come il luogo in cui la salvezza si manifesta e si costruisce. Questo significa che tutto il tempo è santo, non solo il tempo sacro; e che tutto lo spazio è santificabile. 
Nonostante questo la nostalgia del sacro è rimasta. In molte persone la perdita del sacro ha prodotto una profonda crisi, oppure le ha spinte verso una fede religiosa dove esiste la possibilità di abitare un luogo sacro in cui sono presenti potenze arcane e misteriose. 
Per alcune di queste persone è rimasta viva la nostalgia dell’orrida regione e dei luoghi nascosti all’interno di forme di ricerca di sacro che esprimono il rimpianto di una religione che non è quella tipicamente cristiana. 
In questo caso si può allora parlare di fine della secolarizzazione, o invece occorre parlare della nostalgia di qualcosa d’altro? Oppure ancora – e questo lo si vede in fenomeni come quello della New Age – non si tratta di fare di Dio semplicemente la fonte del proprio benessere personale? Non è il tentativo di ridurre Dio a una pratica dello star bene? A una sorta di raggiungimento di pienezza, di equilibrio, che fa star bene le persone e che fa sopportare loro i problemi, i conflitti, le sofferenze del mondo che abitano? E dove Dio è ridotto a un qualcosa di intrapsichico, a un principio di armonia della persona con se stessa, con il mondo e con la natura? 
È questa indubbiamente un’esperienza religiosa in cui non c’è il tremore dell’attesa dell’incontro con il tremendo che apre all’affascinamento del divino. Dove non c’è nulla della ricerca di Dio che passa attraverso l’esperienza del terribile, della paura, dell’angoscia profonda, della solitudine per poi sfociare nell’esperienza gioiosa e sconvolgente del fascino del divino. 
In queste esperienze poi non c’è traccia dell’incontro con la sofferenza che è ineliminabile nell’impegno per rendere operante nella storia la salvezza offerta dal sacrificio di Gesù. 


Mario Pollo

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