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Noi monaci non siamo isole, viviamo di reciprocità

Padre Marino, eremo di Montegiove, si racconta alla vigilia dell'ordinazione sacerdotale. "Mentre mi sto preparando a ricevere il dono del ministero presbiterale per l'imposizione delle mani del Vescovo, avverto tutta la pienezza di significato che riveste questo tempo di attesa".


Noi monaci non siamo isole, viviamo di reciprocità

da Quaderni Cannibali

del 19 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

 

          Mentre mi sto preparando a ricevere il dono del ministero presbiterale per l’imposizione delle mani del Vescovo, avverto tutta la pienezza di significato che riveste questo tempo di attesa. Il carisma presbiterale m’inserisce in un’ottica rinnovata di servizio che intende riconfermare la vocazione battesimale, prima di tutto e, rilanciare, in seconda battuta, quella monastica. Tale ministero mi aiuta a sanare le mie ferite, a celebrare la storia della salvezza, ad accompagnare i momenti salienti della vita, camminando sotto la guida dell’unico Pastore e sotto il magistero dello Spirito.          C’è un episodio, nel vangelo di Giovanni, che nella prospettiva del servizio presbiterale, vorrei meditare con voi. È il brano della lavanda dei piedi. Per il quarto evangelista, sappiamo, la lavanda dei piedi rappresenta l’eucarestia, il vicendevole rendersi grazie. La lavanda dei piedi è la trasmissione di un pegno, di un modello di Chiesa che fa comunione, che fa corpo, che si ritrova, come popolo, unito, nelle differenze, dall’offerta del corpo e del sangue di Cristo. Quel gesto siamo noi, luogo e intreccio di vite oranti.          Nella sera della cena Gesù compie questo gesto decisivo e con esso traduce il fondamento della sua comunità dove l’uguaglianza e la libertà sono il frutto dell’amore vicendevole. Non le condizioni ma i frutti dell’amore. Certo, per amare è necessario essere liberi e uguali in dignità ma, in una prospettiva evangelica, il comandamento dell’amore viene prima e diventa statuto di libertà e di uguaglianza. Se amo divento libero e percepisco la comunione, l’uguaglianza fraterna.          Così, realizzarsi, significa, per Gesù, avere amore, avere l’amore di Dio. In una logica umana, il gesto che Gesù compie è un atto di umiltà, si abbassa, lava i piedi. Ma siamo ancora ad un primo livello di comprensione. In realtà, l’insegnamento è più profondo. Gesù si abbassa, certo, ma in tale abbassamento egli ci eleva a figli e fratelli; in questo suo chinarsi si compie il nostro innalzamento alla realtà divina, del Padre che nel Figlio ci fa figli e, sempre nel Figlio, ci rende fratelli. Questo bene, questo dono, fonda la nostra dignità di uomini e donne e la nostra uguaglianza. Nel suo farsi servo, Gesù fa decadere ogni servitù in nome di un amore ecumenico, in nome di un amore che si effonde anticipando qualsiasi richiesta. Nel suo farsi servo, Gesù inaugura un circolo virtuoso che si alimenta nel bene vicendevole, sempre, soprattutto nel tempo della crisi. Crisi personale, economica, politica, mondiale. Più si entra nella crisi e più diventa difficile gestire le nostre vite, i nostri rapporti;  più diviene difficile amare.          Non deve essere stato semplice, anche per Gesù, mi suggeriva tempo fa un amico teologo, lavare i piedi ai discepoli, a chi si preparava a tradirlo, a chi lo avrebbe fatto più tardi. All’inizio, tutti gli amori sono facili. Gesù ci ama nella progressiva conoscenza, perché sa quanto abbiamo bisogno del suo amore, sino alla fine (eis télos) e più che mai.          Lavare i piedi significa allora non accontentarsi degli amori iniziati ma perseverare nell’amore paziente che resiste a tutte le delusioni, a tutte le crisi e, alla fine, è più grande dell’inizio. Si sale verso Dio scendendo verso gli uomini. Per salire al Padre Gesù si inginocchia. Ma qualcuno vorrebbe opporsi a tale logica; la resistenza di Pietro rappresenta il desiderio di voler conservare la propria integrità, la difficoltà a lasciarsi amare da una persona, il fare del Cristianesimo il proprio amore, pura ideologia. Lavarsi i piedi gli uni gli altri esprime invece la grazia della reciprocità nella vita cristiana, perché il servizio non diventi dominio, perché il nostro amore non sia freccia a senso unico, non renda l’altro asservito e, in definitiva, limitato nella sua libertà.          La grazia della vita monastica ci insegna soprattutto questo; non siamo isole, viviamo di reciprocità, siamo comunità. E siamo laboratori. Anche i nostri eremi, i nostri monasteri tendono a essere luoghi di speranza, secondo una felice espressione di G. Lafont, laboratori di speranza. Luoghi che nel tempo della crisi, potrebbero a lungo termine dare vita a reti di riflessione e di azione, e non soltanto delineare ma forse anche avviare un nuovo stile di vita, senza cadere nell’illusione d’aver trovato una panacea universale.          All’inizio del terzo millennio, abbiamo ereditato una storia, una cultura, che va via via ampliandosi sotto la spinta della ricerca e dell’evoluzione tecnologica. Tutto questo ha permesso di affinare la conoscenza dell’uomo e di approfondire la ricerca teologica. Siamo ricchi di riflessione ma conosciamo anche la crisi della civilizzazione. Un certo modo di concepire il progresso ci ha fatto smarrire il senso nella vita collettiva, il valore delle cose importanti, dell’ambiente, della natura, della politica, dei rapporti e cadere spesso nel non senso anche a livello personale. Talvolta abbiamo smarrito anche il senso di Chiesa, un senso a partire dal quale concepire un percorso di conversione, di evangelizzazione, di missione. Occorre guardare al futuro ecclesiale con molta umiltà e discrezione ma, decisamente, con speranza. Forse la realtà monastica, attraverso una scuola di vigilanza escatologica e di presenza nel tempo, può portare il suo contributo; come in un laboratorio, dove si sperimenta, si verifica, come in uno spazio dove si tende a vivere nell’attesa di Cristo continuando ugualmente a far crescere l’umano. Il monaco è un vigilante a cui, senza presunzione, può essere svelato il senso delle cose; egli organizza tutta la sua vita in funzione di questa vigilanza. In un mondo che ha perduto la risposta alla domanda di senso, ma che è per ciò stesso in attesa di rinascita, i monasteri potrebbero sperare di tornare ad essere luoghi di mistica e di umanesimo, luoghi di dialogo aperto, non ideologico a priori, dove la liturgia anima la vita orante, trasfigura il tempo e le nostre persone, dove si medita nel silenzio degli spazi, dove il lavoro segue i ritmi del corpo, dove l’accoglienza si fa motivo di ospitalità reciproca. Si faccia avanti chi sa fare il pane. Si faccia avanti chi sa crescere il grano. Cominciamo da qui. Sono le parole di Mariangela Gualtieri, poetessa cesenate, che ho trascritto sul biglietto di invito alla mia ordinazione. Parole che sintetizzano i miei sentimenti, le mie speranze…          Chiedo a tutta la comunità fanese di pregare per questo nostro tempo, per il lavoro operoso che si svolge nelle nostre comunità, nella nostra diocesi, perchè possa sempre crescere e migliorare la coesione interna e l’apertura all’altro. Vi chiedo anche di pregare per me, perché ogni giorno possa ricordare i doni di grazia del Signore e saperli investire come talenti.

Padre Marino Mazzola

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