Interviste a Maria Falcone e Alfredo Morvillo. Quel pomeriggio del 23 maggio del '92, i palermitani capirono subito che era successo qualcosa di grave. Tante, troppe le auto delle forze dell'ordine che sfrecciavano all'impazzata verso l'aeroporto...
del 23 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
“La mafia e le altre espressioni della criminalità organizzata rimangono un problema grave della società italiana e dunque della democrazia italiana”. È una delle affermazioni del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, oggi a Palermo per partecipare alle celebrazioni per il 20.mo anniversario della strage di Capaci, nella quale persero la vita i giudici Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
 
Quel pomeriggio del 23 maggio del ’92, i palermitani capirono subito che era successo qualcosa di grave. Tante, troppe le auto delle forze dell’ordine che sfrecciavano all’impazzata verso l’aeroporto. L’eco delle sirene – che spezzava la quiete di un caldo quasi afoso quel sabato – non era quella alla quale erano abituati delle auto di scorta, delle quali qualcuno si era pure lamentato perché disturbavano la siesta del primo pomeriggio. Anche i numerosi elicotteri che si erano alzati diretti a nord della città, verso Punta Raisi – che successivamente alle stragi, prenderà il nome di aeroporto “Falcone e Borsellino” – anticiparono il triste presentimento, poi confermato dai telegiornali. Alle 17,58, all’altezza di Capaci, 500 chili di tritolo di Cosa nostra avevano fatto esplodere l’orrore, sventrando l’autostrada e uccidendo i giudici Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani che, in una lotta disperata contro il tempo e la morte, vengono trasportati negli ospedali della città, proprio su quegli elicotteri. A Palermo la notizia della strage accende la resistenza civile della gente che, indignata, scende in piazza e stende sui balconi i lenzuoli bianchi sui quali si leggono le parole di Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. 
 
Venti anni dopo, oltre 2.600 ragazzi provenienti da tutta Italia, che all’epoca della strage non erano neanche nati, sotto una pioggia battente, accolti da circa 20 mila studenti delle scuole siciliane e dall’inno nazionale eseguito dalla fanfara dei Carabinieri, sono sbarcati a Palermo dalle navi sulle quali erano affisse le gigantografie di Falcone e Paolo Borsellino con il loro carico di entusiasmo, i cartelloni variopinti ma, soprattutto, con la voglia di ribadire il loro “No alla mafia”. Hanno viaggiato un pomeriggio e una notte sulle navi della legalità, ricordando i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, con particolare emozione, Melissa, la studentessa uccisa nell’attentato a Brindisi. “Non abbiamo paura”, ripetono i giovani, tra i quali anche le compagne di classe di Melissa. Una di loro, Aurora, spiega: “Siamo venute qui per ricordare Melissa e per rappresentarla. Ma anche per dire a tutti che la nostra scuola non deve essere un luogo dove andare a curiosare, ma un posto che ricordi quello che è accaduto perché non si ripeta mai più”. Con loro, a bordo, Maria Falcone, sorella del giudice, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il procuratore nazionale Antimafia, Pietro Grasso, e il presidente di Libera, don Luigi Ciotti che, assieme alle scolaresche, si sono riuniti nell’aula bunker del carcere Ucciardone dove si tenne il maxiprocesso a “Cosa nostra”, per assistere alle celebrazioni istituzionali cui hanno partecipato, tra gli altri, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio, Mario Monti, il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, e della Giustizia, Paola Severino, oltre al cardinale arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo.
 
All’aula Bunker, anche una rappresentanza dell’Fbi americana che sul proprio sito Internet ricorda Falcone. “La mafia e le altre espressioni della criminalità organizzata rimangono un problema grave della società italiana e dunque della democrazia italiana. Dobbiamo perciò noi tutti proseguire con tenacia e determinazione sulla strada segnata con il loro sacrificio da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, ha detto il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel suo intervento nell’aula bunker dell’Ucciardone. Il presidente ha incontrato i parenti delle vittime della mafia, ha ricordato Melissa Bassi e ha aggiunto: “Una cosa è certa: questi nemici del consorzio civile e di ogni regola di semplice umanità avranno la risposta che si meritano. Se hanno osato stroncare la vita di Melissa e minacciare la vita di altre sedicenni, aperte alla speranza e al futuro – ha detto il Presidente Napolitano – se lo hanno poi fatto a Brindisi, in quella scuola, per offendere la memoria di una donna coraggiosa, di una martire, come Francesca Morvillo-Falcone, la pagheranno, saranno assicurati alla giustizia”. “E se hanno pensato di sfidare questa stessa commemorazione – ha affermato ancora – stanno già avendo la vibrante prova di aver miseramente fallito”. Attenzione, ha poi precisato: “Siamo preoccupati per la persistente gravità della pressione e della minaccia mafiosa, non la sottovalutiamo ma ci sentiamo ben più forti che in quei tragici momenti del 1992. Ben più forti per la crescente mobilitazione di coscienze e di energie che si è venuta realizzando nel nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che cosa è stato il dilagare nelle scuole di tutta Italia dell’educazione al valore della legge, al rispetto della legge e della Costituzione come garanzia di libertà e di pacifica convivenza civile e di ordinato progresso sociale e, come nello stesso tempo, si è venuto affermando nello stesso mondo imprenditoriale siciliano la cultura delle regole”. “Non bisogna mai stancarsi di cercare la verità sulle morti di Falcone e Borsellino – ha dichiarato il presidente del Consiglio, Mario Monti – non esistono ragioni di Stato che possano giustificare ritardi nella ricerca della verità”. “La memoria non ci deve abbandonare – ha detto il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso - Su quella dobbiamo costruire il futuro. Per fare piena luce sulle stragi del ’92 serve la collaborazione di chi sa, di quelli che ancora non hanno detto tutto”. 
 
Secondo Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta, che ha riaperto le indagini sulle stragi del ’92, “le novità nelle indagini sulla strage di Capaci non metteranno in discussione le verità già acquisite, ma ci consentiranno di individuare responsabilità finora non individuate perché nell’inchiesta restano molti buchi neri. Resta il fondato sospetto, però – ha ribadito – che ci furono talpe nelle istituzioni che diedero informazioni sugli spostamenti di Falcone”. “La società civile nella consapevolezza della legalità è più avanti della politica che non ha ancora fatto piazza pulita”, ha detto Maria Falcone, sorella del giudice antimafia. “Oggi – ha soggiunto – dopo la stagione delle stragi c’è una nuova stagione perché tutto è cambiato”. E ai ragazzi ha inviato questo messaggio. “Non dobbiamo permettere alla violenza di uccidere i vostri e i nostri sogni”. “Più scuola, meno mafia”, è stata l’esortazione del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per il quale quella di oggi a Palermo “è una giornata importante ma sicuramente solo uno di quei 365 giorni l’anno in cui la scuola porta il suo contributo alla legalità”. Nell’aula bunker hanno parlato anche due compagne di classe della studentessa uccisa a Brindisi: “Vivremo per te Melissa – hanno detto Aurora e Chiara – non lasceremo che la tua voce sia stroncata dal niente”.
 
Presente all’aula bunker anche il cardinale di Palermo, Paolo Romeo, secondo il quale “ancora oggi vale il monito del cardinale Pappalardo che nel ’92 chiedeva di fare pienamente luce su quanto è accaduto dopo le stragi. Ancora oggi – ha insistito –è ancora valido quel monito: fare pienamente chiarezza sulle ombre di quella terribile stagione”. Il presule si è poi rivolto ai giovani: “Continuate a essere luce, non accettate di cadere nel fango ma fate rinascere la vostra terra”. Per don Luigi Ciotti, presidente di Libera, giunto a Palermo con una delle navi della legalità, “la lotta alla mafia si fa nei vari territori, ma va fatta soprattutto a Roma, con le leggi giuste, attente e puntuali e non mettendosi i bastoni tra le ruote”. 
 
Tante le iniziative in città per ricordare le vittime della strage di Capaci. Alle 9.30, il Memorial dedicato a tutte le vittime della mafia siciliana promosso dall’Unione nazionale cronisti, nel Giardino della memoria a Ciaculli, in un terreno confiscato al boss Michele Greco, alla presenza del premier Monti, del ministro degli Interni Cancellieri e del capo della polizia, Antonio Manganelli. Il presidente Napolitano si è recato in Via D'Amelio per rendere omaggio al giudice Paolo Borsellino e alla caserma della Polizia di Stato, Lungaro, per deporre una corona di fiori alla lapide del reparto scorte. Alle 17.00, la mostra fotografica dal titolo “Falcone e Borsellino vent’anni dopo. Non li avete uccisi, le loro idee cammineranno con le nostre gambe”, realizzata dall’agenzia Ansa a Palazzo Branciforte, restaurato da Gae Aulenti. Nel pomeriggio, inoltre, partiranno due cortei: uno dall’aula bunker e l’altro da via D’Amelio, in cui 57 giorni dopo morirono Borsellino e gli agenti di scorta, per ricongiungersi sotto l’albero “Falcone” dove, alle 17.58, ora della strage, verrà suonato il “Silenzio” dal trombettiere della Polizia di Stato. Alle 21, infine, la “Partita del cuore” tra la nazionale magistrati e quella dei cantanti.
 
Quello di oggi è dunque un anniversario particolarmente sentito e partecipato non solo dalla Sicilia, ma da tutta l’Italia. Francesca Sabatinelli ha chiesto in che modo lo stia vivendo ad Alfredo Morvillo, procuratore di Termini Imerese e fratello della moglie di Giovanni Falcone, Francesca, morta con lui nella strage di Capaci:
 
R. – Non lo vivo in maniera diversa rispetto agli altri, ma devo dire che lo vivo con una certa consapevolezza perché in effetti, dopo 20 anni, c’è ancora tanto da fare perché si possa avviare verso il completamento il lavoro iniziato da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e da tutte quelle persone che hanno perso la vita per il loro impegno nella lotta alla mafia. Partecipare a queste celebrazioni e a questi ricordi ha indubbiamente un valore. Però, se ci fermiamo a questi meri rituali, non rendiamo realmente onore alle persone che hanno sacrificato la loro vita. Bisogna andare molto oltre: bisogna seriamente chiedersi se tutti hanno dato quel piccolo o grande contributo che serve per completare il lavoro iniziato da loro.
 
D. – Noi sappiamo quello che, in questi 20 anni, è stato il cammino della lotta alla mafia proprio grazie a Giovanni Falcone ed a Paolo Borsellino. Ma oggi che cosa si può dire del contrasto alle cosche in Italia?
 
R. – L’ambito di operatività proprio dei giudici Falcone e Borsellino – cioè il momento del contrasto giudiziario, il cosiddetto “momento repressivo della lotta alla mafia” – è stato brillantemente proseguito dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma la lotta alla mafia non si esaurisce con il contrasto giudiziario. La lotta alla mafia richiede dell’altro, un coinvolgimento di tutti per superare una certa arretratezza culturale e morale. Borsellino diceva che la lotta alla mafia non è soltanto un problema di repressione, ma è un problema di rivoluzione culturale e morale. Tutto questo ancora non c’è. Possiamo sicuramente registrare dei grandi passi avanti fatti da una parte della società civile, però non riusciamo ancora a fare il grande passo, che è quello di incidere seriamente sulle relazioni esterne della mafia: quella, per così dire, “borghesia mafiosa”, l’area “grigia” o come vogliamo definirla. Questo è un ostacolo che, in questo momento, non viene affrontato nella maniera più adeguata. Ed è un ostacolo che consente a Cosa Nostra di continuare a svolgere tutta la sua attività, di infiltrarsi nelle istituzioni, nell’economia, in ambienti degli affari e della politica. Senza queste relazioni esterne, la mafia ben difficilmente potrebbe inserirsi e inquinare la vita di questa terra e, ben al di là della Sicilia, di tutto il Paese e, molto spesso, anche al di fuori di esso. Ecco perché, in qualche occasione, ho auspicato degli interventi legislativi che impediscano alle persone che non sono al di sopra di ogni sospetto di accedere a certe cariche istituzionali, cariche rappresentative del popolo. La società civile dovrebbe quantomeno reagire emarginando queste persone. E invece, qui queste persone vengono “coccolate”, corteggiate… La gente è affascinata da loro perché, spesso, appartengono al mondo del potere, sono persone in vista e così via. La società civile, quindi, non riesce a superare questo problema e la politica nemmeno. Non trova la forza di fare pulizia al suo interno. Si trincera dietro le assoluzioni, alle archiviazioni o alle sentenze di giudici che non sono attendibili. Ecco perché, ormai, non possiamo sperare in altro che in un intervento legislativo, una forza cogente di una norma che impedisca, a certa gente di assumere certe cariche.
 
D. – Suo cognato Giovanni, per molto tempo, è stato al centro di forti polemiche e oggetto di veleni. Molti dei suoi detrattori erano proprio all’interno al Palazzo di giustizia di Palermo. Che reazione ha oggi lei nei loro confronti? Sono colleghi che lei incontra regolarmente…
 
R. – Questa che lei fa è una considerazione esatta. Io ho vissuto l’epoca in cui questi colleghi, definiti detrattori, di Giovanni non esitavano a manifestare certe loro opinioni sul conto del dottor Falcone, anche in mia presenza. Si figuri dopo il 23 maggio del 1992 che cosa ho provato. Nel tempo, naturalmente, certe forti emozioni del momento iniziano ad affievolirsi. Però, ovviamente, non si dimentica nulla: non è soltanto un problema di detrattori, ma un problema di gente che proprio si è adoperata per mettere, a volte, i bastoni tra le ruote a delle legittime aspirazioni del dottor Falcone. Tutte queste persone sono colleghi che, nel tempo, hanno dato dimostrazione della loro professionalità, ma è tutta gente che non ha mai avuto il coraggio e lo spessore umano, dopo tanti anni, di prendere la parola per dire: ‘Oggi, dopo 20 anni, mi rendo effettivamente conto che abbiamo sbagliato perché il dottor Falcone non avrebbe meritato questi ostacoli ma avrebbe invece meritato il nostro appoggio’. Questo non accade ed è qualcosa di molto triste, perché significa che ci possono essere delle grandi professionalità ma, per essere uomo, serve anche dell’altro.
 
Proprio in coincidenza con il 20.mo anniversario della strage di Capaci, Maria Falcone, presidente della „Fondazione Giovanni e Francesca Falcone“, sorella del magistrato assassinato dalla mafia il 22 maggio 1992, ha pubblicato con la giornalista Francesca Barra il libro 'Giovanni Falcone, un eroe solo'. Fabio Colagrande l'ha intervistata:  
 
 
 
D. – Parlando nel libro di un eroe solo, parlate però, in qualche modo, di un certo isolamento ed ostracismo che Giovanni Falcone subì negli anni che precedettero l’attentato di Capaci…
 
R. – ‘Solo’ è una parola molto delicata, perché Giovanni non fu solo. Fu contrastato, combattuto, venne visto come il nemico numero uno da combattere. E questo, è doloroso dirlo, anche da parte della magistratura stessa, che vedeva in lui l’eccezione: l’uomo che, pur non avendo mai fatto carriera - perché non ebbe alcun beneficio dal proprio lavoro - si pensava che potesse quasi sostituire il merito all’anzianità. E quindi, anche quello doveva essere combattuto.
 
D. – Falcone che eredità lascia, oggi, a 20 anni di distanza, a coloro che sono impegnati contro la mafia e ai giovani?
 
R. – Ai magistrati credo abbia lasciato tutto un metodo di lavoro. Ha lasciato la possibilità di combattere la mafia in una determinata maniera: ha fatto abbattere il segreto bancario, ha fatto capire cosa significa scientificità nelle indagini, ha fatto capire che bisogna collaborare, essere uniti anche nelle indagini. Aveva creato quella Super procura che fu il suo ultimo, grande dolore e, per certi versi, la sua sconfitta, proprio perché diceva sempre che bisognava coordinare le indagini, avere una veduta d’insieme, non considerare i vari fatti come accaduti in un posto e conclusisi in un altro. Era proprio la veduta d’insieme a mancare prima nella lotta alla mafia e Giovanni la lascia come possibilità per combatterla meglio. Per i giovani è un patrimonio infinito. A loro lascia soprattutto quella che era la sua ‘religione del dovere’: il dire loro che ognuno deve fare la propria parte, costi quel che costi ed affrontando qualsiasi sacrificio. Questa l’ho definita ‘religione’ non nel senso comune ma perché per lui era fondamentale nella vita di ogni giorno.
 
 
R. – Grandissima fu la lotta contro un sistema che, sino ad allora, nessuno aveva voluto toccare. Un sistema che non significava soltanto mafia, ma anche connubi vari tra pezzi della società e la mafia stessa. Era quindi qualcosa che era rimasto sempre intoccabile: i processi contro i mafiosi spesso, o quasi sempre, finivano con assoluzioni per insufficienza di prove. Quello che invece Giovanni riuscì a fare fu l’inventarsi un metodo, il modo per seguire la mafia: è quello che viene chiamato il “metodo Falcone”, che non è altro che la scrupolosa attenzione a tutte quelle che possono essere le prove per poter incastrare chi è mafioso o chi ha commesso un determinato delitto. Ecco perché il suo metodo è stato tanto apprezzato e celebrato in America dai giudici statunitensi e l’Fbi americana, con la quale collaborò nel corso della sua vita. E’ stato questo suo nuovo metodo che ha permesso di andare tanto avanti nelle indagini antimafia.
Alessandra Zaffiro
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