Oggi, 20 settembre l'Assemblea Onu discute dell'indipendenza per i palestinesi. L'Assemblea può dare un segnale forte, una scossa, ai finti negoziati dei tanti venditori di promesse. Un elenco nutrito, al quale buon ultimo si è unito il presidente Usa Barack Obama. La sua elezione è stata vista con timore dagli israeliani. Ma si erano sbagliati.
del 20 settembre 2011
 
          Anche se ostenta freddezza, nel migliore dei casi, o irritazione, Israele il 20 settembre ci sarà. A rappresentarla, come nelle grandi occasioni, sarà lo stesso premier Benyamin Netanyahu. L'Assemblea Generale dell'Onu si aprirà a New York e il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) formalizzerà la richiesta di riconoscimento e ammissione di uno Stato di Palestina.
          Il simbolo della campagna palestinese, supportata da organizzazioni non governative e da attivisti di tutto il mondo, è una sedia. Sarebbe quel seggio all'Onu che è molto più di un oggetto di arredamento; il simbolo non dell'esistenza in vita di un'identità, ma di un diritto a viverla liberamente. I Palestinesi attendono questo momento dal 1948, quando venne proclamata l'indipendenza d'Israele. Da allora guerra, nel 1948, nel 1956, nel 1967, nel 1972. E ancora due intifada, un'occupazione, milioni di profughi, centinaia di migliaia di morti, un muro di pietra. Nessuno può credere davvero che basti una piccola sedia per riposarsi, per asciugare le lacrime e dimenticare tutto questo dolore.
          Però da qualche parte bisogna pur cominciare. Sarebbe stato meglio che a rappresentare la Palestina ci fosse un presidente eletto in elezioni libere e trasparenti come quelle del 2006. Certo, Hamas potrebbe obiettare che la sua vittoria -democratica per davvero - ha ricevuto in premio dall'Occidente il boicottaggio, l'embargo a Gaza, due violente operazioni militari e la fame per la Striscia. Ma serebbe stato meglio. Come sarebbe stato meglio che Hamas e Fatah, dopo il riavvicinamento, avessero proseguito su questa strada creando un governo di unità nazionale. Ma sono anche tanti, troppi, i deputati di Hamas che marciscono nelle galere d'Israele senza aver commesso alcun crimine.
          Però, per la prima volta, il Consiglio di Sicurezza potrebbe essere chiamato a pronunciarsi su una risoluzione dell'Assemblea. Poca cosa, diranno gli scettici, Molti tra loro sono palestinesi. Decenni di occupazione, in barba a centinaia di risoluzioni Onu, non possono che fiaccare chiunque. Ma gli Usa, perché di loro si tratta, saranno costretti a dire al mondo che l'Assemblea, con tutto il potere morale di cui è investita, non viene ascoltata. E chiede solo quello che il diritto internazionale sancisce dal 1948. Non ci farà una bella figura.
          Israele, sulla Palestina, non la fa mai una bella figura. Ribadendo la sua opposizione all'iniziativa palestinese, Netanyahu si è detto convinto che ''la pace possa passare solo attraverso il negoziato diretto e non essere imposta. So che Israele non ha un'uditorio favorevole nell'Assemblea Generale, ma ho deciso di andare non per ricevere applausi, quanto per dire la verità''. Che è quella di un'occupazione illegale, che si è arricchita negli ultimi giorni di training militari ai coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania.
          E poi, di quali negoziati parla Netanyahu? ''Se i palestinesi si rivolgeranno all'Onu per chiedere di essere ammessi come stato a questo foro per Israele ciò significherà la fine di tutti gli accordi conclusi con i palestinesi'', ha dichiarato il vice ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon. Ammonimento che giunge dopo quello lanciato dal capo della diplomazia israeliana, Avigdor Lieberman, per il quale il passo palestinese avrà ''conseguenze gravi e dure''. Come se i Palestinesi, oggi, possono dire di aver mai ricevuto nulla dalla diplomazia. Gli Accordi di Oslo? L'allora leader Arafat ha fatto concessioni enormi, portando a casa un aborto di stato, ostaggio di un muro e dei check-point israeliani.
          Una sedia non basta per riposarsi, per dimenticare tanto dolore. Ma l'Assemblea può dare un segnale forte, una scossa, ai finti negoziati dei tanti venditori di promesse. Un elenco nutrito, al quale buon ultimo si è unito il presidente Usa Barack Obama. La sua elezione è stata vista con timore dagli israeliani. Ma si erano sbagliati. L'ennesimo inquilino della Casa Bianca non è differente dagli altri. Ma che almeno lo sappiano tutti.
 
Palestina, detonatore del Medio Oriente
          Una macchina in corsa senza nessuno alla guida. Non si può descrivere che così la questione del riconoscimento dello Stato palestinese che - come annunciato ormai da mesi - da oggi, 20 settembre, sarà discussa all’Assemblea generale dell’Onu. Il giorno cruciale sarà quello di venerdì 23, quando appunto è stato messo in calendario l’intervento di Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, finora presente a Palazzo di Vetro solo come una semplice «entità» senza diritto di voto. Dopo un lungo pressing diplomatico l’Anp è sicura che almeno 126 Paesi sugli attuali 193 - cioè quasi i due terzi - voteranno a favore dello Stato palestinese. Ma un voto dell’Assemblea - pur permettendo di innalzare comunque il livello della rappresentanza - da solo non basterà a garantire il rango di «membro a pieno titolo». Servirebbe anche l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove però gli Stati Uniti hanno già annunciato che porranno il diritto di veto, sostenendo così la posizione di Israele, contraria a ogni proclamazione unilaterale dello Stato palestinese.           In sé potrebbe sembrare solo l’ennesimo balletto diplomatico, dal momento che - al di là delle bandiere e delle dichiarazioni retoriche - uno Stato non nasce magicamente con una risoluzione. E dunque varrebbe la pena anche di ricordare che la Palestina è lo stesso posto dove ai primi di maggio era stato annunciato un accordo di riconciliazione tra le fazioni per un «governo di unità nazionale»; non solo non si è ancora visto, ma oggi è più lontano che mai. Tanto per rendere l’idea: Fatah e Hamas non si sono messi d’accordo neppure sull’ora legale; attualmente a Ramallah e a Gaza persino gli orologi segnano due orari diversi.           Il problema - però - è che questa «campagna di settembre» va a intrecciarsi con le crescenti delusioni delle piazze della «primavera araba». Con un Sinai diventato terra di nessuno, alla mercé dei gruppi salafiti.  Con la Turchia di Erdogan che mostra i muscoli per tornare a giocare il ruolo di potenza regionale. E con un’amministrazione Obama che - viceversa - in Medio Oriente non sa che pesci pigliare. Senza dimenticare un governo israeliano che ha fatto di tutto in questi ultimi tempi per accrescere ulteriormente il proprio isolamento internazionale. È mettendo in fila tutto questo che il voto sullo Stato palestinese diventa una questione tremendamente seria. Perché niente meglio delle manifestazioni contro «Israele che nega i diritti ai palestinesi» funziona benissimo nel mondo arabo per togliere anche tante altre castagne dal fuoco. Così l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo di qualche giorno fa rischia davvero di essere solo l’aperitivo rispetto a quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane.          L’aspetto tragico di tutta la vicenda è il modo irresponsabile in cui si è arrivati a questo punto. «Sarebbe fondamentale per noi adesso riavviare la trattativa con i palestinesi», stava scritto in un memorandum dell’intelligence israeliana consegnato qualche giorno fa a Netanyahu e riferito dai quotidiani di Gerusalemme. «Bentornati dal mondo delle favole», verrebbe da dire. Come se non fosse stato chiaro fin dall’inizio, un anno fa, che il no al prolungamento della moratoria sulle costruzioni negli insediamenti significava chiudere ogni possibilità futura in questo senso. Per non parlare poi di Obama, che prima ha sposato la causa e poi ora pretenderebbe che Abu Mazen si suicidasse politicamente facendo marcia indietro insieme a lui.          Ma il punto vero è un altro: è finito il tempo del negoziato fine a se stesso, delle chiacchiere sul «processo di pace» e sui «due popoli e due Stati», delle liturgie con i leader che si stringono la mano. Sono diciott’anni, ormai, che si parla delle stesse cose, girando però sempre intorno ai problemi (gli insediamenti, Gerusalemme, il diritto al ritorno…), perché entrambe le parti non hanno la forza di dire con chiarezza quali prezzi sono disposti a pagare per la pace. Non lo fa Israele, ma non lo fanno neanche i palestinesi. Ed è un giochetto che non è a costo zero: inasprisce tensioni che spingono verso il baratro un’intera area del mondo a due passi da casa nostra.           Chi si era illuso che la «primavera araba» fosse destinata a togliere centralità alla questione palestinese si è sbagliato di grosso: è rimasta in stand-by per qualche mese, ma ora il nodo torna al pettine e in un quadro di rapporti di forza completamente diversi. Piaccia oppure no, tra qualche giorno questa approvazione dell’Assemblea generale dell’Onu ci sarà e rappresenterà una bandiera per le piazze arabe. E a poco servono minacce come quella di alcuni settori del Congresso americano che chiedono di tagliare per ritorsione i fondi all’Autorità nazionale palestinese: servirebbe solo a far precipitare la Cisgiordania nel caos (Hamas non chiede di meglio). Più utile sarebbe adoperarsi affinché nella risoluzione che verrà votata a Palazzo di Vetro si mettessero comunque le premesse per un negoziato vero, con punti di riferimento, obblighi per entrambi e scadenze precise. È la strada che sta tentando l’Unione europea in queste ore anche se - come al solito - con posizioni diverse (a proposito: quella dell’Italia qual è?).          E sarebbe anche auspicabile che alla fine di quel testo si aggiungesse una piccola postilla: d’ora in poi e fino alla fine del negoziato è vietato ai politici di tutto il mondo utilizzare la formula «due Stati per due popoli» senza accompagnarla immediatamente con una cartina su cui siano riconoscibili dei confini. Forse aiuterebbe a capire che le mediazioni si fanno su posizioni chiare e non accontentandosi delle chiacchiere.  
 
Christian Elia, Giorgio Bernardelli
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