Paolo, che cosa dici ai catechisti di oggi?

Paolo desidera anzitutto svelarci la sua motivazione segreta, e cioè che cosa è capitato a lui, trasformando profondamente la sua vita. Solo partendo da questo segreto si può capire come mai egli sia diventato apostolo e si sia dedicato alla missione.

Paolo, che cosa dici ai catechisti di oggi?

da Teologo Borèl

del 11 ottobre 2008

Saluto cordialmente tutti voi. Mentre vi guardo, penso: “Ecco i servitori della rivelazione; ecco coloro a cui affidiamo i bambini e i ragazzi perché li aiutino nel cammino dell’iniziazione cristiana”.

Voglio anzitutto ringraziare vivamente ciascuno di voi per la collaborazione che offrite alla Chiesa di Dio. Un ringraziamento speciale vi devo dare, tenuto conto della delicatezza del compito che svolgete; lo devo esprimere anche per un altro motivo storico-concreto: le difficoltà che dovete, a volte, affrontare nel contesto socio-culturale nel quale i bambini e i ragazzi di oggi crescono. Questa ultima osservazione mi sospinge a vivere questo incontro come momento nel quale tutti insieme imploriamo i doni dello Spirito Santo; in particolare lo spirito di sapienza e di intelletto, e anche lo spirito di fortezza.

Il titolo dato a questo incontro è una domanda. E non è posta a me, bensì all’apostolo Paolo: che cosa dici ai catechisti di oggi? Ho cercato di interrogare Paolo e vorrei ora lasciare emergere la sua risposta. Mi sembra di poterla raccogliere attorno ai seguenti punti: la motivazione segreta; il primo annuncio; l’approfondimento dell’annuncio (di chi e di che cosa? chi rende possibile la risonanza? dove va fatta emergere?); proposte conclusive.

 

 

La motivazione segreta

 

Avverto che Paolo desidera anzitutto svelarci la sua motivazione segreta, e cioè che cosa è capitato a lui, trasformando profondamente la sua vita. Solo partendo da questo segreto si può capire come mai egli sia diventato apostolo e si sia dedicato alla missione. Scrivendo ai Filippesi afferma: “Io sono stato afferrato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). Ciò che è avvenuto sulla strada di Damasco è stato una illuminazione interiore di tale rilevanza da cambiare il corso della sua vita. Da quel giorno la relazione personale con Cristo è diventata quella fondamentale, prevalente su ogni altra. Al punto che egli oserà dire, più avanti,: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

In apertura dell’anno paolino, nei Vesperi del 28 giugno scorso a san Paolo fuori le mura, Benedetto XVI ha citato proprio questo passo della lettera ai Galati, considerata come “una professione  di fede molto personale”, nella quale l’apostolo “apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. Tutto quello che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza di essere amato da Gesù Cristo in un modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo”. Mi sembra il caso di rimarcare che il riferimento all’amore di Gesù Cristo considera la morte di Cristo per amore, ma anche il fatto che Cristo risorto ama personalmente Paolo nel presente.

Il Papa aggiungeva poi che certamente si può dire che Paolo è stato un uomo combattivo. E tuttavia questo aspetto della sua personalità non è il più profondo. Infatti “Ciò che lo motivava nel più profondo era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore”. Tutto ciò che Paolo farà e dirà (e soffrirà) si spiega a partire da questo centro. Anche “i concetti fondamentali del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso”.

Il Papa portava anche un esempio concreto, quello di una delle parole-chiavi di Paolo: la libertà: “L’esperienza di essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbraccia tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla e agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Poiché egli sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero”. Come diceva Agostino nel commento alla prima lettera di Giovanni: “Dilige et fac quod vis” (In Io. 7,7-38).

 

 

Il primo annuncio

 

Guardiamo ora all’esprimersi di Paolo, conquistato da Cristo. Egli ne diventa l’evangelista perché, come egli stesso scrive ai Corinti: “L’amore di Cristo ci sospinge” (2 Cor 5,16). La sua biografia ce lo mostra in cammino per portare il Vangelo a tutte le genti. Già glielo aveva detto un discepolo del Signore, di nome Anania, che abitava a Damasco e che aveva incontrato Paolo dopo la conversione. Dal Signore si sentì chiamare perché andasse “sulla via chiamata «Diritta» e cercare nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,15).

Vi è dunque già qui l’indicazione di un futuro segnato dal compito che l’avrebbe portato a prendere contatto con tutte le genti, avendo la certezza che Cristo è luce di tutte le genti. Di fatto poi Saulo, che sarà chiamato Paolo, si dedicherà totalmente a tale missione. Scriverà ai Corinti: “Non è per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo. Mi sono fatto tutto a tutti. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1 Cor 9,16.22-23). A queste parole si possono aggiungere anche le altre, bellissime, che troviamo in apertura della grande lettera ai Romani: “Io non mi vergogno del Vangelo, poiché è potenza di Dio per chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco. In esso infatti si manifesta la «giustizia di Dio», come è scritto, il giusto vivrà di fede” (Rm 1,16-17).

 

Nello svolgimento del ministero della parola, Paolo si è dedicato prima all’annuncio essenziale del cristianesimo e poi al suo approfondimento. L’annuncio della salvezza in Cristo ai giudei e ai pagani per convertirli è la prima forma di predicazione. La prima in ordine di tempo, quella che sorse per prima nella storia della Chiesa. Ciò è vero, prima ancora che per Paolo, per l’apostolo Pietro. Basti pensare a quanto disse al popolo sotto il portico di Salomone (Cfr At 3,11ss) e anche all’annuncio che fece risuonare nel luogo a prima vista meno idoneo: il sinedrio. A coloro che, dopo la miracolosa liberazione dal carcere, gli avevano espressamente comandato di “non insegnare più nel nome di Costui (Gesù)” rispose, insieme con gli altri apostoli: “Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,8-12).

 

> Il cuore della fede cristiana

Paolo si dedica dunque anzitutto al primo annuncio: all’annuncio di ciò che costituisce il cuore della fede cristiana. In greco tale annuncio viene indicato con il termine “kerigma”. Paolo ne indica il contenuto in vari passi delle sue lettere. Scrive ai Corinti: “Per mezzo nostro Cristo fu predicato tra voi” (2 Cor 1,19; cfr 11,4). Il contenuto essenziale della proclamazione dell’araldo del Vangelo è dunque Cristo e ciò che egli costituisce per la vita dell’uomo. Aggiungo il riferimento a ciò che egli scrive nella seconda lettera al discepolo Timoteo perché anche questa pagina ci aiuta a cogliere ciò che è centrale in tutto il messaggio di Paolo: “Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore nostro. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma è stata rivelata solo ora con l'apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo, del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro” (2 Tm 1,6-11).

 

> L’invito alla conversione

Questo annuncio diventa sempre, sulla bocca di Paolo, invito alla conversione. Essa da intendere come volgersi a Cristo, e dunque convertirsi a lui. Come scrive nella sua antica lettera, quella destinata alla comunità di Tessalonica, della quale tesse l’elogio: “Vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall'ira ventura” (1 Ts 1,9-10).

Lo stesso accento sulla conversione è presente in quasi tutte le lettere di Paolo. Vi è un passo, che trovo nella lettera agli Efesini, dove si ricorda con parole particolarmente forti, che la conversione a Cristo è destinata a rinnovare l’orizzonte della vita e lo stile della vita: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo. Dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef  4,17-24).

Ben avevano capito l’invito di Paolo uomini come Agostino e Francesco d’Assisi. Il primo è arrivato, dopo anni e anni di ricerca, al Battesimo ricevuto dal Vescovo Ambrogio; il secondo ritrova Cristo, dopo anni di lontananza da lui, scoprendo la bellezza e la gioia di una vita completamente nuova in Cristo.

 

 

L’approfondimento dell’annuncio

 

Paolo, come del resto Pietro, a coloro che - ebrei o pagani - diventano cristiani, offriva poi sempre un approfondimento del primo annuncio, nella forma più adatta alla loro condizione di “iniziati”. Già il riferimento alla conversione, intesa come obiettivo fondamentale del primo annuncio, conduceva Paolo a rileggere i vari aspetti dell’esistenza umana a partire dalla novità introdotta dall’incontro con Cristo Gesù.

Negli Atti degli Apostoli il nome dato a questo lavoro di istruzione dei battezzati era “didaché”. Tale termine emerge in Atti 2,42. Si legge: “I credenti erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento (didaché) degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera”.

Se consideriamo le lettere di Paolo, vediamo emergere nei suoi scritti il verbo “katecheo”. Mi riferisco alla prima lettera ai Corinti, là dove si legge: “Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi; ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire (katecheo) anche gli altri” (1 Cor 14,19). Il verbo sta dunque a indicare l’istruzione offerta a qualcuno sul contenuto della fede.

Questo verbo è rintracciabile anche nella pagina conclusiva della lettera ai Galati, là dove l’apostolo Paolo incoraggia i cristiani a dare sostegno, anche economico, a coloro che li istruiscono: “Chi viene istruito nella parola (dottrina), faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce” (Gal 6,6). Nel testo di Paolo, chi viene istruito è chiamato “catechoumenos”, e cioè colui che viene catechizzato; aggiunge l’invito di dare sostegno al “catechounti”, cioè al catechizzatore. “Probabilmente ci troviamo di fronte al più antico documento che parla della professione di «maestro» nel cristianesimo primitivo. È possibile perfino che sia stato Paolo stesso a introdurre il termine “katechon” per indicare colui che insegna il Vangelo” (Cfr. Wegenast in I concetti fondamentali del Nuovo Testamento, p. 534).

 

> Catechesi significa “risonanza”

Mi soffermo sul verbo “katecheo”. Il verbo greco “echeo” significa “versare” e, in senso figurato, “riecheggiare”, “dare risonanza” a una notizia o a un insegnamento per una persona o in un ambiente (cfr Ugo Vanni in Paulus, 1/2008, 63). Il sostantivo “echo” significa suono, rimbombo; da questo termine deriva, nella lingua italiana, il termine “eco”, ripetizione di un suono.

Non ci deve sfuggire questo significato, peraltro così bello. Ma dobbiamo approfondirlo ponendoci alcune domande: chi è e che cosa propriamente  “risuona”? Chi rende possibile tale risonanza? Dove va fatta riemergere?

 

> Chi e che cosa è ciò che “risuona”?

A questa domanda ho già dato risposta parlando del primo annuncio. Da  tutte le lettere di Paolo è chiaro di che si tratta: “È Cristo che deve risuonare”. La catechesi o didachè è dunque risonanza di Cristo nella Chiesa. Va aggiunto che la caratteristica propria della catechesi è quella di esprimere Cristo “seriamente, con tutta l’accuratezza, la precisione che merita” (Vanni). Sappiamo che proprio questo si prefigge apertamente l’evangelista Luca, il quale inizia il suo Vangelo esplicitando la sua intenzione di scrittore: “Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1,1-4).

In modo analogo inizia il suo secondo libro, gli Atti degli Apostoli: “Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo” (At 1,1-2).

Nelle lettere di Paolo è particolarmente evidente lo spazio dato all’approfondimento dell’annuncio, mentre l’apostolo vive, sull’arco di molti anni, l’esperienza dell’accompagnamento diretto o indiretto delle comunità cristiane da lui fondate e sparse in varie parti dell’impero romano.

 

> Chi rende possibile la risonanza?

Paolo sa che nulla di quanto caratterizza la sua missione e il suo insegnamento viene da lui stesso. Tutto è opera dello Spirito Santo. Come scrive ai Corinti: “Come nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito può dire «Gesù anatema», così nessuno può dire «Gesù Signore» se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

Egli sa bene che solo per grazia egli stesso è diventato evangelista. Come scrive ancora ai Corinti: “Dio che disse: Rifulga la luce nelle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6). È ciò che scrive anche ai Galati ricordando Dio che lo scelse fin dal seno di sua madre e lo chiamò con la sua grazia, e si compiacque di rivelare a lui il suo Figlio perché lo annunciasse in mezzo ai pagani (Cfr Gal 1,15).

Ciò non vuol certamente dire per Paolo che non sia necessario il suo impegno. Nella lettera ai Romani ricorda i vari passi che gradualmente conducono ai invocare, nella fede, il nome del Signore. Ricorda ciò che precede questa invocazione come premessa indispensabile. Ecco come si esprime: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”. Ma aggiunge: “Come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!” (Rm 10,9.14-15).

È evidente che Paolo, facendo sua l’espressione del profeta Isaia: “quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!”, pone in evidenza l’importanza che, nella storia degli uomini, vi siano gli annunciatori di Cristo e, nel medesimo tempo, certamente legge se stesso come uno di quegli annunciatori.

 

> Dove va fatta emergere la “risonanza”?

Tutte le lettere degli apostoli ci conducono in qualche “luogo”, sia in senso geografico che in senso antropologico e religioso. Vari sono i contesti nei quali Paolo viene a trovarsi e vari sono i destinatari ai quali scrive. Ma c’è un denominatore comune a tutte le lettere. Sta nel fatto che sempre egli “si rivolge a”. Come ha scritto Enzo Bianchi, “le sue sono veramente lettere inviate a persone e comunità concrete. Perciò diventano dialogo, confronto, confidenze, approfondimenti, incoraggiamenti, richiami. In Paolo il pastore e l’apostolo vanno di pari passo. Egli traduce e rende viva la parola del Vangelo per le diverse comunità. Fa teologia dialogando con le sue comunità, si rivolge alla loro mente, alla loro volontà, al loro cuore. I problemi morali e dottrinali delle comunità provocano l’apostolo che cerca di interpretare il Vangelo eterno nella contingenza delle situazioni particolari della singola comunità” (cfr E. Bianchi, San Paolo, la teologia del dialogo, in La Stampa, 4.XII.2004).

 

 

Proposte conclusive

 

1. Guardare agli adulti come paradigma

 

Paolo, nelle sue lettere, si rivolge agli adulti. È comprensibile che abbia fatto questa scelta, trattandosi della prima generazione cristiana. Ma questo ci fa riflettere sul fatto che il paradigma anche del lavoro catechetico tra i ragazzi va riconosciuto e assimilato attraverso un costante confronto con il “catecumenato” e con le esperienze spirituali che ne caratterizzano le varie tappe ancora oggi in terra di missione e, anche tra noi, quando persone oltre l’infanzia chiedono il Battesimo.

Nella Lett. Past. Splendete come astri nel mondo, dedicata in particolare all’iniziazione cristiana, ho voluto positivamente sostare abbastanza a lungo sulle caratteristiche essenziali del catecumenato. Chiedo a tutti voi catechisti di confrontarvi con quelle pagine perché dicono che cosa dovete premurosamente coltivare nel vostro servizio ecclesiale (pp. 28-33).

 

2.  Essere catechisti “afferrati” da Cristo

 

Il confronto che oggi vi sto proponendo con l’apostolo Paolo, e in particolare con la sua esperienza spirituale personale, risultata decisiva per tutto il resto, vi conduce a rileggere la fisionomia spirituale di un bravo catechista. Egli non è certamente solo chi prende in mano il volumetto del catechismo, ma molto di più, chi si lascia profondamente “afferrare” da Cristo, e coinvolgere esistenzialmente da lui.

Il servizio catechistico va dunque inteso e attuato come una forma di singolare ricchezza secondo la quale si esprime l’amore per Cristo. Nella Lettera Pastorale che ho appena citato, faccio memoria di una giovane catechista, ormai proclamata santa, e cioè Clelia Barbieri, della Diocesi di Bologna. Diceva di se stessa che “voleva portare a tutti l’annuncio di quel Gesù che aveva conquistato il suo cuore”. Così si espresse a suo riguardo il Papa Giovanni Paolo II nell’Omilia per la canonizzazione avvenuta nell’aprile 1989 (cfr Lett. Past. citata, p. 44).

 

3.  Prestare attenzione al “tutto”

 

Se il catechista idoneo a dare risonanza a Cristo nella Chiesa è solo colui che si lascia afferrare da Cristo, da questa autocoscienza sarà condotto a rivolgersi alla mente e al cuore dei ragazzi e degli adolescenti, alla loro persona, all’intera loro esistenza. Qualcosa di meno è insufficiente per poter dire che siamo “risonanza di Cristo nella Chiesa”.

Come ho già ricordato più sopra, è proprio in questo modo che Paolo svolge il compito di catechista con i cristiani della comunità di Efeso. Dice infatti loro che, se proprio hanno dato ascolto a Cristo e in lui sono stati istruiti, devono “deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima” e rinnovarsi nello spirito della loro mente e “rivestire l’uomo nuovo” (Ef 4,22-23).

È in questa prospettiva paolina che nel capitolo della Lettera Pastorale già citata, dedicato all’iniziazione cristiana, chiedevo di impostare il lavoro tenendo insieme, come un amalgama inscindibile, catechesi, liturgia e carità (cfr. pp. 79-80). Questa attenzione al “tutto” (in greco: “tò olon”) della persona sta la “svolta” assolutamente necessaria nel servizio catechistico dell’iniziazione cristiana nella nostra Diocesi. So di indicare una prospettiva impegnativa, ma mi sembra assolutamente necessaria e urgente, mentre ancora oggi vengono largamente chiesti i sacramenti dell’iniziazione cristiana.

 

4.  Essere missionari nella mente e nel cuore

 

Paolo avverte come “vocazione” quella di portare il “profumo del Vangelo” a tutte le genti. Prima di essere nelle parole e nei viaggi, la missionarietà di ogni catechista sta anzitutto nella sua mente e nel suo cuore. Bisogna lasciarsi sempre guidare dal desiderio di portare la conoscenza di Gesù a tutti, a cominciare dai più piccoli, e senza mai ridimensionare l’orizzonte neanche quando ci si rivolge agli adolescenti e giovani. Sarà l’interiore missionarietà a suggerire come, quando e dove cercare i ragazzi, tutti i ragazzi, e come avere la costante premura di non perdere nessuno.

Quando questo grande servizio sarà anche per voi, come per Paolo, un cammino che comprende pure delle sofferenze, egli vi sosterrà ripetendovi ciò che scrisse ai Filippesi, mentre egli sperimentava il carcere: “A voi è stata concessa la grazia non soltanto di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere” (Fil 1,29).

 

5.  Leggersi come semplici ministri del Signore

 

Paolo non si è mai sentito protagonista nel suo servizio dell’annuncio del Vangelo. Come scriveva ai Corinti: “Quando uno dice: «Io sono di Paolo» e un altro: «Io sono di Apollo», non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cos’è mai Apollo? Cos’è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere” (1 Cor 3,4-6).

Se è così, come non avvertire che, prima di parlare ai ragazzi di Gesù, sia necessario che, nella preghiera, parliamo a Gesù dei ragazzi (e anche degli adolescenti, o dei giovani o degli adulti)? E come non tenere conto che non vi è spazio a nessun protagonismo, poiché siamo semplici servitori del Signore? Unico protagonista deve rimanere Lui.

 

6.  Avere senso ecclesiale e immergersi nella vita delle comunità

 

Nello stile di Paolo si ritrovano due elementi qualificanti. Il primo lo possiamo indicare come “senso ecclesiale”. Scriveva infatti ai Corinti: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto” (1 Cor 15,3). Si riferiva evidentemente agli apostoli, primi testimoni di Gesù. Anche noi siamo dentro il grande fiume della tradizione viva della Chiesa che, risalendo fino agli apostoli, ci mette in cospetto di Gesù stesso, che essi hanno anche visibilmente incontrato e seguito. Il suo grande amore alla Chiesa, popolo di Dio e corpo di Cristo, fa grande e vero il catechista.

Il secondo elemento qualificante è rintracciabile là dove, nelle sue varie lettere, Paolo si sofferma sui problemi, talvolta complessi che emergono nell’una o nell’altra comunità. Esemplare, a questo riguardo, è la prima lettera ai Corinti. Agli stessi Corinti, nella seconda sua lettera, scriverà: “La nostra bocca vi ha parlato francamente e il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori che invece siete allo stretto. Io parlo come a figli; rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore” (2 Cor. 11-13). Le parole di Enzo Bianchi, ricordate più sopra, già hanno efficacemente descritto questo tratto del volto del catechista.

 

7.  Rispettare l’insuperabilità del kerigma

 

Un’osservazione finale. Si aprano a caso le lettere di Paolo. Sempre ci si troverà di fronte all’annuncio di Cristo. Questo annuncio è sempre “insuperabile”: non si va mai oltre, lasciandoselo alle spalle, ma si va sempre più in profondità, immergendoci anzitutto noi stessi sempre più nella sua straordinaria ricchezza, fino all’ultimo respiro della vita. Questo sarà l’unico modo giusto di fare catechesi.

 

 

Assemblea Diocesana dei Catechisti

Novara / Seminario, 5 ottobre 2008

 

mons. Renato Corti

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