Sta maturando in me da alcuni anni un disagio per la situazione della pastorale giovanile in genere, soprattutto diocesana e locale che, lungi dal venire attenuato da eventi indicatori di prassi innovative e felici, viene sempre più delineandosi come rassegnazione a un dato di realtà di non facile accettazione.
del 18 febbraio 2008
Il mio è un punto di vista parziale, e da un osservatorio limitato, pur nutrendo particolare attenzione a quello che sta capitando in giro per l’Italia, e nella mia regione in particolare, la Calabria.
Sta maturando in me da alcuni anni un disagio per la situazione della pastorale giovanile in genere, soprattutto diocesana e locale che, lungi dal venire attenuato da eventi indicatori di prassi innovative e felici, viene sempre più delineandosi come rassegnazione a un dato di realtà di non facile accettazione.
E la realtà della prassi con i suoi segni preoccupanti e inequivocabili ripetutamente mi offre conferma sulla situazione di una deriva della pastorale giovanile.
 
La crisi della prassi di base
 
Mentre si moltiplicano e globalizzano gli eventi, si solennizzano i convegni, e tutto il celebrativo e la dimensione di «messa in scena» vengono inseriti nel circuito mediatico del far notizia, cresce in me la netta sensazione che invece, al contrario, nella realtà della pastorale ordinaria in vita quotidiana, si stia sempre riducendo e stia scomparendo quella che, un tempo, consideravamo la prassi di base di pastorale giovanile.
Mi riferisco alla quotidianità, là dove si realizza il reale incontro dei giovani tra loro e con l’educatore-testimone, il ritrovarsi attorno ad una ragione alta, il cimentarsi in una attività coinvolgente, il tentare di realizzare un frammento di un progetto di cambiamento di sé e della realtà intorno, per quanto ridotto. E il tutto animati da una intenzionalità entro uno spazio fisico, territoriale e sociale, circoscritto, secondo una ritmata scansione dei diversi tempi di vita. Un livello di base dove l’incontro con il mistero della vita e la storia del Signore Gesù, il Signore della vita, si realizza nella «sacramentalità diffusa» del gruppo e della relazione educativa.
Mi chiedo: sono forse nostalgico del passato? Forse ho lasciato condensare in me e cosificarsi il modello di una certa qual «età dell’oro»della PG?
È vero che le cose cambiano e nulla resta di identico, eppure mi chiedo: perché non è più possibile che dei giovani si ritrovino, secondo scadenze da loro contrattate e il calendario da loro stessi redatto, attorno ad un animatore per fare e per stare, per comunicare ed esprimersi, per narrare se stessi o stare ad ascoltare altri che narrano, per programmare qualche avventura insieme e stabilizzare relazioni, definire ruoli, compiti, azioni?
C’è chi dice che questo non sia più possibile! Viene a mancare anzitutto la variabile «tempo».
Non c’è più tempo per fare gruppo, per stare insieme, per ritrovarsi, per approfondire un tema, per fare un ritiro di gruppo, per programmare e gestire un camposcuola, per fare un’esperienza in gruppo, e questo con un animatore, tanto meglio se giovane-adulto?
La pastorale giovanile di base aveva il suo luogo di progettazione, di azione, di verifica, forse nel circuito ristretto di un quartiere, di una parrocchia, di alcune parrocchie in rete zonale… Essa è rinata rinnovandosi nelle forme, nei modelli, nello stile, nella progettazione, durante il dopo concilio. E questo dal basso, là dove qualche prete intraprendente e qualche animatore controcorrente era deciso – magari e tanto meglio se con il supporto del parroco o del vice incoraggianti le iniziative laicali – a dare il via all’avventura del trovarsi insieme ai giovani, immaginando percorsi, selezionando e stratificando esperienze di vita attiva e di riflessione, azione e contemplazione. E poi c’è stata la stagione matura del soggetto ecclesiale di ogni PG: la comunità cristiana.
Ho la percezione che stia diventando sempre pi√π merce rara una pastorale giovanile fatta alla base. Davvero sono in crescita i preti e i laici che stanno investendo nello stare con i giovani?
La mia percezione è diversa. Non è poi così facile – anzi appare in quest’ultimo decennio cosa sempre più rara – trovare e convincere qualcuno disposto a tanto. Registro un certo crescente disinteresse anche tra i preti giovani, catturati da ben altri mondi pastorali, soprattutto se associati a nuvolette di incenso!
C’è poi chi è sempre più convinto che questa pastorale di base, che si snoda sul cammino del gruppo giovanile e della comunità educativa, sia inutile, anzi quanto mai superata, se non alquanto dannosa: o spreco di tempo e di risorse, o forse manipolatrice di soggettività giovanile.
Oggi non solo non si riesce più a fare realmente cammino di gruppo con i giovani; si ritiene assolutamente inutile passare il tempo a fare, a vivere insieme, a progettare e realizzare secondo obiettivi e contenuti esperienziali. Bastano forse «attimi concentrati», momenti di alta qualità per cambiare le persone?
 
Straordinario vs ordinario
 
In questo senso credo abbia contribuito a devitalizzare la pastorale giovanile di base il parallelo ingigantirsi della pastorale giovanile organizzata attorno ai grandi eventi. Ogni diocesi ha il suo ufficio, il suo incaricato, la consulta; magari anche organismi ad hoc con contorno di progetto diocesano e un budget consolidato.
Poi si avvia la macchina organizzativa sul modello del rullo compressore… e partono le iniziative, le campagne, gli eventi,gli appuntamenti.
Se dovessimo recensire le iniziative in termini di eventi, potremmo scriverne un elenco infinito e variopinto, indice certamente della vivacità della fantasia: PG della notte, di sera, di giorno, di mezzogiorno (raramente però di mattina presto!).
La pastorale giovanile viene progressivamente identificata dalla comunità ecclesiale in eventi, in appuntamenti, preferibilmente di massa, ma il legame di questi eventi tra loro e la vita quotidiana tende a ridursi allo zero.
È come un calendario di appuntamenti scandito dal vuoto tra un evento e l’altro.
Le giornate, le camminate, i pellegrinaggi, i meeting hanno un loro senso se diventano l’incontrarsi di tanti giovani che percorrono cammini di base in gruppo e hanno tante cose, esperienze, racconti da scambiarsi, ognuno col proprio stile giovanile di comunicazione.
Ma che dire quando tra un evento e l’altro non c’è stato nulla o quasi di condiviso, di sofferto, di maturato insieme in un gruppo vitale, segnato dalla primarietà?
Sta emergendo sempre più consistente la convinzione che una buona pastorale giovanile possa essere fatta dall’ufficio diocesano e dalla sua équipe, anche senza il cammino di base, soprattutto senza il cammino in gruppo promosso da una concreta comunità territorialmente collocata.
Il che in termini concreti significa: senza esperienze elaborate nel quotidiano, senza l’esperienza dei cambiamenti più profondi che il giovane può vivere nell’ordinario della vita di gruppo e della comunità, senza il linguaggio della fede riconquistato in un contesto di comunicazione faccia a faccia, dove le relazioni traducono prima delle parole la qualità della vita che circola in esso.
Appaiono sempre più numerosi gli operatori di pastorale che sono convinti di poter scommettere nel gioco tra individuo e massa, tra eventi di comunicazione di massa e risonanze interiori individuali, quasi che ci fosse una pastorale che può fare a meno del confronto quotidiano con il sistema di relazioni di un gruppo, con l’esperienza insostituibile del gruppo-laboratorio di relazioni e di esperienza; una pastorale che faccia a meno dei tempi lunghi dell’educazione.
Insomma ci si illude su una pastorale «sulla via di Damasco».
Ho la sensazione che molti preti e laici che operano nella pastorale giovanile siano convinti che si possano ottenere risultati di una trasformazione profonda e radicale degli stili di vita dei giovani prescindendo dall’esperienza della quotidianità di un gruppo giovanile dove, insieme, ci si confronta, si elaborano codici condivisi e modelli nuovi di dire la fede nella vita e di ripensare radicalmente gli stili di vita a partire dalla provocazione della fede.
Possiamo oggi pensare di fare pastorale giovanile senza gruppo e senza esperienza elaborata insieme e codificata insieme, senza il contesto vivo di una comunità educativa?
Che senso ha la supposizione che il giovane possa divenire credente e discepolo di Ges√π se viene coinvolto a livello emotivo in un evento, e poi si scarica su di lui il compito di maturare in solitudine, di ruminare nella propria vita quotidiana, magari nella compagnia di quelli che sono i suoi compagni di studio, di lavoro, di tempo libero, ma senza la creazione di un contesto vitale?
A ciò si aggiunge poi la convinzione che un buon riferimento all’adulto, magari direttore spirituale, fa tutto il resto?
Sono sempre più rari gli operatori pastorali e i preti pronti a scommettere che il gruppo giovanile è ancora la mediazione vitale indispensabile per la rielaborazione degli atteggiamenti e dei comportamenti in linea con il discepolato di Gesù.
Spettacolarizzazione, sguardo gratificato sulle masse, frammentarietà e saltuarietà, scomparsa del quotidiano se non solo evocato ma mai vissuto davvero, stanno trasformando tanta pastorale giovanile in un prodotto tipico della società della comunicazione di massa, del mercato globalizzato, del consumismo sfrenato delle esperienze legate ad eventi sempre più mediatizzati.
Pertanto proprio in un contesto di pluralismo crescente, di globalizzazione degli eventi, di spettacolarizzazione, la pastorale giovanile corre il grosso rischio di ridursi all’effimero, al saltuario, all’occasionale.
Appare sempre più una pastorale di superficie, di pelle, d’identità colorata e sgargiante, di immagine, ma sempre meno riesce ad incidere nella radicalità della quotidianità dei giovani.
 
La difficoltà del «fare gruppo»
 
Un altro dato fa riflettere: appare crescente la difficoltà a «fare gruppo» con i giovani oggi; a volta sembra impossibile!
L’appartenenza fluida e la pluralità delle appartenenze parziali pesano, eccome!
I giovani stessi svolazzano da un’esperienza all’altra; ma quando il gruppo morde e sentono di esserne «presi», intravedendo magari il potenziale di cambiamento che esso potrebbe indurre, a volte preferiscono prenderne le distanze.
Forse i giovani stessi fanno resistenza alla classica esperienza di gruppo: è troppo impegnativo e spaventa, se le opinioni in qualche modo si intravede che potrebbe divenire totalizzante.
La pluralità delle appartenenze rende anche più problematico accettare un’appartenenza che ha in se stessa la tacita pretesa di porsi come funzione critica delle altre appartenenze, e magari in certi momenti anche inchiodare il giovane alle responsabilità a cui piace tanto sfuggire, in una stagione di deresponsabilizzazione.
È proprio così: per l’identità debole e la loro fragilità dinanzi alla massima esposizione, il classico gruppo di base non può non apparire troppo indigesto e impegnativo, perché in certi momenti davvero chiede troppo. Da qui l’abbattimento della soglia minima, il rischio di ridurre le aspettative o di frustrarle, l’accompagnamento educativo più impegnativo e forse anche la maggiore lentezza nella evoluzione del suo ciclo vitale e nel percorrere un itinerario educativo-pastorale col gruppo.
Facciamo molta più fatica a fare gruppo con gli adolescenti di oggi. Questo sì.
 
La risorsa «animatori»
 
Tuttavia la cosa che mi preoccupa maggiormente è quella di una generazione di formatori che è meno disposta a scommettere intorno al perdere tempo nel e con il gruppo, sia nei momenti di informalità che in quelli programmati.
C’è sempre altro da fare, e qualcosa di più importante.
Gli appuntamenti e le scadenze ci travolgono;non abbiamo più il tempo, non riusciamo più a trovarlo, o ci viene a mancare per la scaletta così nutrita di appuntamenti organizzativi.
Eppure la scommessa di una continua formazione di nuove generazione di animatori per le diverse fasce d’età, a cominciare dalla preadolescenza, appare sempre più un punto irrinunciabile di non ritorno per un servizio alla Chiesa locale.
 
Un anno sabbatico
 
Ogni tanto mi viene da invocare un anno sabbatico nella pastorale giovanile diocesana.
Un anno in cui ci si possa finalmente dedicare alle cose dimenticate e ai percorsi negati.
Un anno in cui non ci siano più appuntamenti oceanici, feste ed eventi di massa… ma il ritmo della vita del gruppo possa tornare ad essere scandito dai tempi della vita reale, dai tempi della crescita insieme, e dai tempi quotidiani della comunità educativa ed ecclesiale in cui il gruppo è inserito, dai tempi dei campiscuola.
Ed invece, alla scadenza della GMG di un anno, incombe quella dei 3 anni successivi; e poi su questi ritmi vengono ad incrociarsi appuntamenti annuali, trimestrali, associativi, diocesani, regionali, di movimento. Non riusciamo più a rispettare i tempi quotidiani, a vivere l’ordinario con i nostri giovani.
Lo straordinario ci ha sopraffatto. L’evento successivo incombe e viene a schiacciare memoria e fantasia su quello precedente, e, prima che un animatore abbia con il gruppo «digerito quello trascorso», un altro macigno incombe pressante. Non ci si può più sottrarre agli eventi, alle manifestazioni, ai meeting, alle giornate, ai pellegrinaggi, alle chiamate a raccolta, all’occhio delle telecamere o delle cineprese che debbono salvare gli eventi alla memoria.
So di andare controcorrente, ma vorrei dire: basta! È ora di fermarsi!
E poi l’esperienza delle etero-programmazioni sul gruppo e sulla comunità: di livello diocesano, di livello regionale, nazionale, internazionale, ecclesiale, di movimento… e chi più ne ha più ne metta.
Immaginiamo a questo punto come viene a trovarsi un animatore di un gruppo giovanile: deve tenere al contempo il ritmo del ciclo vitale del gruppo unito all’itinerario di educazione alla fede, tenere il passo di una comunità educativa ecclesiale in cui il gruppo è inserito e, su questo, innestare le programmazioni che piovono come missili da altri mondi.
Certo, il legame al territorio e alla ecclesialità della chiesa locale e, se è il caso, al carisma del movimento, devono diventare i filtri necessari per fare discernimento, semplificare, accogliere quel che si riesce ad inserire nella prospettiva locale con sguardo globale. E poi lasciare senza scrupoli tutto il resto!
Perché anche un eccesso di offerte e di stimoli può mandare in tilt e il gruppo e il suo timoniere. Può far esplodere una programmazione pastorale!
L’organizzazione concreta deve essere lasciata nelle mani del gruppo animatore di una comunità educativo-pastorale e a coloro che in ultima istanza ne hanno la responsabilità.
 
Ribadire l’abc
 
Non cercavo uno sfogo, ma poter affermare il diritto alla sopravvivenza e alla essenzialità della prassi pastorale, liberi da ridondanze e sovraccarichi.
Deve restar chiaro nella mente dell’operatore di PG che alcune scommesse basilari, l’abc dell’educazione e dell’educazione alla fede, vanno con coraggio ribadite e riaffermate sopra tutti i messaggi e stimoli sopravvenienti.
Per fare pastorale giovanile, oggi come ieri, occorre scommettere e partire con l’esperienza vitale di un gruppo, mondo vitale di relazione e di valori, laboratorio che macina esperienza trasformandola in cultura nuova confrontandosi con la memoria culturale, attorno ad un animatore-narratore di vita capace di porre filtri e barriere ad una invasione dall’esterno di alieni ma al contempo anche di rilanciare oltre il gruppo e il proprio baricentro.
E ciò sul territorio reale abitato da una comunità educativa che amplia l’appartenenza e funge da contenitore di memoria e al contempo spazio di partecipazione e di cittadinanza educativa, di autentica appartenenza ecclesiale. Questa è l’urgenza da ricuperare oggi alla prassi di pastorale giovanile. Per non soccombere.
Mario Delpiano
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