Il racconto lucano della venuta dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste è ricco di dati carichi di messaggio. Diamo rilievo a quelli che manifestano l'abbondanza dei doni dello Spirito...
del 01 gennaio 2002
LECTIO
 
Il racconto lucano della venuta dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste è ricco di dati carichi di messaggio. Diamo rilievo a quelli che manifestano l'abbondanza dei doni dello Spirito.
 
Pentecoste, giorno del compimento
 
La narrazione dell'evento della Pentecoste inizia con una annotazione non semplicemente cronologica, ma teologica. Il giorno di Pentecoste sta «per finire », per compiersi. L’idea di compimento è cara a Luca che se ne serve per introdurre i grandi eventi di salvezza compiuti da Dio nella storia (cfr. Lc 1,57; 2,6. 21). Adesso si compie l'evento promesso dal Risorto: « Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso » (Lc 24,49); « Sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni» (At 1,5.8). Si compie altresì la predizione dei profeti: « Accade quello che predisse. il profeta Gioele: Negli ultimi giorni dice il Signore ‑ effonderò il mio Spirito sopra ogni .persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (At 2,16‑20; GI 3,13). Nella Pentecoste si compie l'evento escatologico: l'effusione dello Spirito Santo.
 
In particolare, l'espressione «mentre si compiva» (secondo il greco del v. 1) si ritrova nel terzo Vangelo a indicare che il cammino di Gesù verso Gerusalemme ha in realtà, come meta ultima, il ritorno al Padre (cfr. Lc 9,51). Compiuto orinai, con l'ascensione (cfr. At 1,9‑11), tale ritorno, ecco il dono dello Spirito e la conseguente. nascita della Chiesa. Lo Spirito come aveva presieduto la nascita di Gesù (cfr. Lc 1,35), così ora presiede la nascita della Chiesa, chiamata a essere testimone del Cristo nel mondo.
 
Pentecoste, alleanza nello Spirito
 
Il giorno della Pentecoste che si compie è la festa giudaica delle Settimane (cfr. Es 34,22; Dt 16, 10), festa originariamente agricola che celebrava la mietitura (cfr. Es 23,16), e in seguito chiamata, nel giudaismo ellenistico, « festa del cinquantesimo giorno » (in greco Pentékosté), e rivestita di valenze storico‑salvifiche in quanto memoriale dell'alleanza e del dono della Legge al Sinai. Celebrata sette settimane dopo la Pasqua, essa era considerata dai rabbini come la « festa di chiusura della Pasqua ». E interessante ricordare che a Qumrán questa festa dell'alleanza era l'occasione in cui avveniva il rinnovamento, mediante giuramento, dell'impegno di fedeltà dei membri della comunità.
 
La descrizione lucana della venuta dello Spirito Santo richiama intenzionalmente molti aspetti della stipulazione dell'alleanza sinaitica: gli elementi teofanici, costituiti dai segni uditivi del « rombo come di vento impetuoso » (v. 2) e da quelli visivi delle « lingue come di fuoco» (v. 3), ci riportano ai «tuoni e lampi, suono di tromba e fuoco» che accompagnarono la teofania sinaitica (cfr. Es 19,16.19).
 
L'annotazione che « tutti (cioè i centoventi fratelli, cfr. At 1, 15) si trovavano insieme nello stesso luogo » (v. 1) echeggia le riletture targumiche di Es 19, secondo le quali i figli d'Israele erano « unanimi » e «concordi» ai piedi del Sinai. Anche l'annotazione delle lingue di fuoco e dei presenti che comprendevano nelle proprie lingue le parole dei « Galilei » (v. 7) trova riscontri nella letteratura giudaica che commenta l'evento sinaitico. Secondo il Rabbi Johanan, al Sinai uscì una voce che «si ripartì in settanta lingue, cosi che tutti ì popoli la capirono, e ogni popolo udì la voce nella propria lingua ».
 
Questi semplici richiami evidenziano che Luca è interessato a mostrare la Pentecoste in rapporto con la nuova Alleanza, caratterizzata dal dono dello Spirito che si interiorizza in ciascuna persona: « Essi furono tutti pieni di Spirito Santo » (v. 4). Quest'ultima espressione («pieno di Spirito Santo») è cara a Luca. Nel suo Vangelo, egli la riferisce a Giovanni Battista (1,15), Elisabetta (1,41), Zaccaria (1,67), Gesù (4,1). E negli Atti a Pietro (4,8), Paolo (13,9), Barnaba (11,24), Stefano (6,5; 7,55), i Sette (6,3), i discepoli (13,52). L'unico uso non lucano è un'esortazione paolina che chiede ai credenti tutti di «riempirsi di Spirito » (cfr. Ef 5,18).
 
La Pentecoste, lo Spirito e la Parola
 
Il movimento descritto nel nostro testo è significativo: dall'esteriorità del rumore del vento all'interiorità dello Spirito nell'intimo di ciascuno. E da qui a una dilatazione dell'annuncio fino a tutti i popoli della terra rappresentati dagli uomini provenienti da « ogni nazione che è sotto il cielo » (v. 5). L'effetto della discesa dello Spirito è la capacità di comunicazione con gli altri: i « Galilei » (caratterizzati anche linguisticamente: cfr. Mt 26,63; Lc 22,59) annunciano le grandi opere di Dio nelle lingue degli altri, così che tutti i presenti possono comprendere. Lo Spirito e la Parola appaiono pertanto gli elementi che presiedono alla compaginazione della Chiesa, della comunità cristiana al suo interno e nel mondo. Tra gli uomini essa è posta dallo Spirito come testimone del Cristo, chiamata ad annunciare l'opera di Dio nelle « lingue degli altri ».
 
Al suo interno, la Chiesa è situata nella feconda dialettica dell'unità nella diversità: unico è il fuoco dello Spirito, ma si personalizza in ciascuno. Paolo dirà che l'unicità dello Spirito si accompagna alla diversità delle manifestazioni, dei carismi (cfr. 1 Cor 12,4‑11). Luca lascia trasparire, dal lungo elenco di giudei provenienti da « tutte le nazioni sotto il cielo » (vv. 9‑11) la destinazione universale del messaggio cristiano, i conformemente alla promessa di Gesù prima dell'ascensione: «Avrete forza dallo Spirito Santo e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra » (At 1,8).
 
La reazione degli astanti all'annuncio delle grandi opere di Dio non è uniforme, anzi, vi è anche una reazione negativa, di derisione: « Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l'un l'altro: 'Che significa questo?”. Altri invece li deridevano e dicevano: 'Si sono ubriacati di mosto'» (vv. 12‑13). Il libro degli Atti (17,32) riferisce una reazione simile dopo la predicazione di Paolo all'Areopago di Atene, in particolare dopo il suo annuncio della resurrezione: « Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: 'Ti sentiremo su questo un'altra volta' ». Per Luca, tutto questo è in continuità con la testimonianza del Cristo, la cui presenza e la cui parola hanno suscitato sia reazioni di accoglienza, sia reazioni di rifiuto (cfr. Lc 4,22. 28‑29). Del resto egli è posto come « segno di contraddizione per rivelare i pensieri di molti cuori » (Lc 2,34‑35). E dietro di lui, nell'adesione a lui, anche la Chiesa, la comunità cristiana è chiamata allo stesso compito.
 
 
MEDITATIO (E COLLATIO)
 
Ora approfondiamo il testo del racconto della Pentecoste facendo emergere il messaggio che ci interpella.
 
La lingua dello Spirito
 
Questa pagina si presenta come l'anti‑Babele. A Babele, l'umana costruzione della torre per arrivare al cielo e l'omologazione delle lingue in una sola lingua umana (« Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole », Gen 11, 1) aveva comportato la confusione delle lingue e la dispersione dei popoli. Alla Pentecoste, il dono dello Spirito suscita nei credenti la capacità di parlare « le lingue degli altri » e di comunicare con loro mediante un linguaggio loro comprensibile.
 
La « lingua dello Spirito » è la Parola di Dio che scende all'uomo e che porta la Chiesa non a imporre il proprio linguaggio, ma a entrare nel linguaggio degli altri uomini, a « dire Dio » e ad annunciare l'evangelo secondo le possibilità e le modalità di comprensione dell'altro. Questo significa che la missione della Chiesa vede nel « destinatario » dell'annuncio non un semplice passivo recettore, ma un soggetto teologico la cui cultura determina forme e modalità della missione stessa. Ed è evidente che dicendo « lingua » non intendiamo soltanto l'idioma, bensì l'insieme di gesti e parole, di atteggiamenti relazionali con cui possiamo stabilire una comunicazione con l'altro.
 
Questo ha, ovviamente, importanti ricadute a livello di vita comunitaria e di relazioni interpersonali: amare l'altro significa ascoltarlo, assumerlo nella sua diversità, nella sua alterità, entrare nella sua sensibilità per poter comunicare con lui non con violenza, cioè imponendoci a lui, ma nella carità e nella verità,_cioè aprendoci positivamente alla sua differenza. Questa azione, per il cristiano, è azione pneumatica, opera dello Spirito che scende dall'alto, della potenza (cfr. Lc 1,35) che viene da Dio. Di questo Spirito Paolo dice che si oppone alla «carne» (cfr. Gai 5,16‑17), cioè alla tendenza egoistica dell'uomo, alla chiusura in sé, al rifiuto dell'incontro e della comunione con l'altro.
 
Lo Spirito, artefice di comunione
 
L'azione dello Spirito, poi, noli si manifesta in evasioni spiritualistiche, in fumosi misticismi, in ricerche di fusione con il divino o di assorbimento in esso, bensì nell'equilibrio e nella profondità della comunicazione, nell'apprezzamento cristico dell'alterità. Cristianamente, la santità si declina come comunione. L'azione dello Spirito trova pertanto un'oggettivazione grazie alla Parola di Dio: ciò che viene annunciato dalla Chiesa non è un proprio messaggio ma, appunto, la Parola di Dio, « le grandi opere di Dio » (v. 11), l'intervento di Dio nella storia. Dunque un messaggio di cui la Chiesa non può semplicemente dichiararsi depositaria, ma che la interpella sempre nuovamente, chiamandola a un'obbedienza sempre da ricreare.
 
Significativamente il quarto Vangelo parla dello Spirito come dell'ermeneuta non solo della Parola, ma anche del « non‑detto » di Cristo: « Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito [ ... ]. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,12‑14). t così che dalla Pentecoste nasce una Chiesa profetica. Una Chiesa che, sottomettendosi all'obbedienza alla Parola, vive come responsabilità la creatività dello Spirito. E che, così agendo, si espone anche al rifiuto e all'opposizione cui saprà far fronte con la forza della parola e della testimonianza (cfr. At 2,14 ss.).
 
 
OPERATIO
 
In questo momento noi lasciamo che il messaggio della pagina biblica illumini e interpelli le situazioni esistenziali, ecclesiali e storiche che noi viviamo e orienti cosi la nostra risposta di fede, cioè il nostro impegno operativo.
 
Nello Spirito l'unità
 
Il testo della Pentecoste ci ricorda anzitutto che solo lo Spirito Santo è il fondamento dell'unità e della concordia della comunità cristiana: esso è il criterio della comunione che può articolare armonicamente universale e particolare, che può strutturare e ordinare le differenze fino a farle concorrere all'edificazione dell'edificio comunitario.
 
Lo Spirito rinnovatore
 
Lo Spirito Santo, che prosegue l'opera del Cristo nella storia ispirando l'ermeneutica esistenziale che i cristiani fanno della vita tutta del loro Signore, tanto delle parole e dei gesti come del « non‑detto », impegna la Chiesa, la vita relìgiosa, l'esistenza di ogni cristiano in un continuo sforzo di riforma. Questa non consiste in una fedeltà biblicistica alla lettera che uccide né in ritorni a un'obbedienza siile glossa ad antiche regole e leggi. Consiste, invece, nella fedeltà creativa e responsabile allo Spirito di Cristo che vivifica.
 
Solo così la comunità cristiana può divenire spazio di vita: cioè solo quando lo Spirito arriva a liberare le energie di intelligenza, di carità, di libertà, di creatività di ciascuno e a compaginarle nella comunità, nella vita insieme con gli altri ‑, solo allora la comunità cristiana diventa spazio di vita. E allora la comunità cristiana manifesta un aspetto particolare della sua vocazione profetica: quello di essere segno di speranza, capace di aprire orizzonti di senso e di vivibilità all'uomo, di indicare vie di comunione agli uomini.
 
Nella lingua dello Spirito
 
Quest'opera comunionale è anzitutto opera di comunicazione. La Chiesa guidata dallo Spirito dovrebbe essere esperta dell'arte del comunicare, cioè esperta dì alterità, cosciente dell'aspetto cristico delle differenze culturali e religiose dell'umanità, aperta al riconoscimento dello Spirito di Dio che, diffuso nell'intera umanità, opera anche attraverso gli « altri ». Gli « altri » sono tali per appartenenza etnica, per confessione religiosa, per cultura.
 
L’universalità della missione della Chiesa si viene così configurando come l'universale bisogno dell'altro, come discernimento dei riflessi della «policroma sapienza di Dio» (Ef 3,10) disseminati nelle culture, nelle religioni, nelle ricerche di Dio dell'umanità tutta. Si tratta di entrare nella comprensione dell'eccedenza della «verità» rispetto alla Chiesa stessa. La missione non è finalizzata alla Chiesa, ma al regno di Dio; è preparazione della strada al Dio che viene.
 
L'evento escatologico della Pentecoste indica anche l'indole escatologica della missione cristiana! Il Cristo che è « la verità » (Gv 14,6), è il capo della Chiesa, la eccede, non ne resta esaurito, anzi, la dinamizza immettendola in un cammino che è il suo stesso: egli infatti è « la via » (Gv 14,6). E questo cammino è cammino dì croce, cammino che arriva a configurarsi come assunzione, sia nei contenuti sia nelle forme della propria testimonianza, del limite estremo della croce. L'assunzione dì questo cammino kenotico passa attraverso il riconoscimento dello status di minoranza in cui è entrata ed entrerà con sempre maggiore evidenza la Chiesa, almeno nel nostro occidente.
 
La novità del futuro
 
Una condizione che mette i cristiani in grado di riscoprire il loro essere lievito nella pasta, il loro essere stranieri e pellegrini, è costituita dal fatto che non si può far coincidere l'annuncio evangelico con una determinata cultura. L'opera di evangelizzazione avviene, pertanto, attraverso un'opera di inculturazione e un contemporaneo sforzo di deculturazione del messaggio.
 
Uno dei compiti della fede agli inizi del millennio entrante è quello di attuare il superamento del monolitismo del cristianesimo occidentale. L’evangelo è forza trans‑culturale: quando viene confuso o fatto coincidere con un'appartenenza culturale particolare, allora esso viene strumentalizzato e, da fattore dì comunione, viene snaturato in fattore di divisione e di conflitto. Perciò il cristianesimo dovrà saper vivere la missione sempre più come testimonianza e come dialogo, in ascolto delle ricchezze del l'altro, rompendo con le prassi impositive e « colonialiste ».
 
Mediante lo Spirito unità e pluralità
 
Lo Spirito impegna la Chiesa a creare vie e inventare modi per fare dell'alterità non un motivo di conflitto e di inimicizia, ma di comunione. Così la Chiesa, così ogni comunità cristiana, potranno essere segno del Regno universale che verrà, e a cui è chiamata l'umanità intera attraverso, e non nonostante, le differenze che la traversano!
 
Tutto questo acuisce la sensibilità e l'attenzione che i cristiani devono avere per l'ecumenismo e per il dialogo con le altre religioni. La coscienza delle radici ebraiche della fede cristiana, dell'ebraicità perenne di Gesù, di Israele come popolo dell'alleanza mai revocata, e al tempo stesso della destinazione universale della salvezza cristiana, della molteplicità delle genti e delle culture in cui è chiamato a inseminarsi l'evangelo, dovrebbero far parte del corredo del cristiano maturo.
 
Così come e, per certi aspetti, ancor di più, dovrebbe farvi parte la coscienza che l'ecumenismo è elemento costitutivo della fede del battezzato, chiamato, in quanto seguace di Gesù Cristo, a pregare e operare per rimuovere lo scandalo della divisione fra i cristiani.
 
Nello Spirito, nuovi orizzonti
 
Accogliere lo Spirito effuso a Pentecoste significa anche, per la Chiesa cattolica di questo scorcio di millennio, assumere responsabilmente e propulsivamente l'eredità di quella novella Pentecoste che fu il concilio Vaticano Il, per prepararsi alle sfide che il terzo millennio porrà alla fede.
 
L'eredità che il Concilio ci ha lasciato si può sintetizzare in una versione aggiornata dell'antico e sempre nuovo comando dell'amore di Dio e del prossimo. La riscoperta della centralità della Parola di Dio e del volto dell'aItro, soprattutto del povero, del diverso, del non credente, dell'appartenente a un'altra religione, a un'altra confessione cristiana: questi due aspetti, assieme all'affermazione del carattere costitutivamente storico della fede cristiana, ricordano al cristianesimo il suo statuto di religione dell'ascolto e dei volti.
 
Quei volti in cui lo Spirito Santo si personalizza e in cui è contemplabile nell'unico modo possibile: nei frutti che produce, che sono i frutti della santità. «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).
Enzo Bianchi
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