Hanno salvato centinaia di persone, e continueranno a farlo. Ma lo Stato non li risarcisce e ora temono il reato di favoreggiamento per via della nuova legge.
del 07 settembre 2009
 
«Siamo consapevoli dei rischi che corriamo con la nuova legge sulla sicurezza, ma se il barcone con i 73 immigrati avesse incrociato nella sua rotta un peschereccio mazarese certamente adesso non staremmo qui a parlare di cadaveri e tantomeno sarebbe scoppiato un caso diplomatico fra Italia e Malta». È perentorio Paolo Paliotti, 52 anni, capitano del motopesca 'Cesare Rustico' di Mazara del Vallo. Commenta così la polemica scoppiata dopo il soccorso prestato lo scorso 20 agosto da un pattugliatore della Guardia di finanza a cinque eritrei che poi avrebbero raccontato che durante la traversata, di oltre venti giorni, altri 73 boat people sarebbero morti a causa del mancato soccorso di una motovedetta maltese; sul caso sta indagando la Procura di Agrigento che ha annunciato una rogatoria internazionale con Malta per omissione di soccorso. Paliotti è l’ultimo 'angelo del mare', uno di quei capitani coraggiosi che, insieme con i loro equipaggi, si sono reinventati, per innato senso di umanità, in 'pescatori di uomini'.  Un cimitero sotto il mare Teatro della nuova pesca è il Canale di Sicilia, sempre più un immenso cimitero per migliaia di poveri disgraziati che attirati dal sogno di un mondo migliore e sfuggiti alle persecuzioni in patria, comprano a caro prezzo un viaggio di sola andata a bordo di barconi fatiscenti che salpano quotidianamente durante la bella stagione, nella maggior parte dei casi dalla Libia. Paliotti non è nuovo a salvataggi: «Già due anni fa abbiamo assistito un barcone, assicurandone il passaggio a un’unità militare. Poi però siamo stati chiamati dalle forze dell’ordine per raccontare quanto avvenuto, quasi avessimo commesso un reato». Così lo stesso capitano ricorda quanto avvenuto l’8 aprile di quest’anno. «Quella mattina eravamo impegnati in una battuta di pesca a circa 40 miglia sud da Lampedusa quando ci siamo trovati sulla rotta un barcone di disperati che stava puntando verso la stessa isola. Il barcone si è avvicinato al nostro peschereccio ma si è parzialmente rovesciato con diversi immigrati finiti in acqua nel tentativo di aggrapparsi ai cavi d’acciaio per l’abbordaggio. Sono state due ore di grande panico e molta apprensione per me e il mio equipaggio (composto da quattro italiani e cinque tunisini) impegnato nelle operazioni di trasbordo dal barcone. Una decina di persone sono finite in mare e poi subito recuperate, tranne tre dispersi, una donna e due uomini mai più ritrovati». Prosegue il capitano: «Quel giorno ci siamo distrutti dalla fatica, dovevamo contemporaneamente controllare il peschereccio e tirare su le reti per avere una capacità di movimento e cercare di recuperare il più possibile persone in mare. Ho notato che nel tentativo di salire a bordo questi disperati non si preoccupavano gli uni degli altri, avevano paura che noi, una volta issate le reti, saremmo andati via e quindi è prevalsa in loro la logica del 'si salvi chi può', e alla fine chi è rimasto sotto è stato inghiottito dal mare in pochi minuti, una cosa da arrizzari li carni». Il paradosso della legge Sulla nuova normativa che introduce il rischio di essere accusati di favoreggiamento di immigrazione clandestina, capitan Paliotti si dimostra abbastanza perplesso: «La legge, seppur fatta da uomini, non può tener conto delle circostanze che si vengono a creare in mare, qui prevale un’altra legge, anche se non scritta, e che obbliga in maniera naturale noi pescatori a non girarci dall’altra parte quando vediamo uomini, di qualunque colore, in balìa del mare ma a far tutto il possibile, anche rischiando in prima persona, per salvare delle vite umane. Mi chiedo dove sia il reato? Rifarei quanto ho fatto, e sono certo che la pensano così tutti i pescatori mazaresi». Ma Paliotti aggiunge: «Per quell’intervento abbiamo perso sette ore di lavoro, senza contare il dispendio di gasolio. Il paradosso sapete qual è? Non solo lo Stato non ci indennizza per farci recuperare quanto perso a causa dell’interruzione dell’attività di pesca ma addirittura adotta una legge per la quale rischiamo pure di essere processati». Non è la prima volta che pescherecci mazaresi si rendano protagonisti di salvataggi di immigrati. Il caso più eclatante è avvenuto nella notte fra il 27 e il 28 novembre scorso, quando cinque motopesca, con un mare in burrasca, salvarono 650 clandestini che stavano tentando la traversata del Canale di Sicilia a bordo di due barconi alla deriva. Di quella notte, un’immagine indimenticabile, e toccante, la porta il capitano del 'Ghibli I', Pietro Russo, forse il più famoso pescatore di uomini: «La prima a salire a bordo è stata una bambina di quattro mesi rimasta in mare tre giorni, insieme con la madre. Era avvolta da una coperta. Ho aperto il fagotto e le ho fatto un po’ di smorfie. Lei rideva. Un sorriso che non dimenticherò mai. Il dubbio passa immediatamente, altro che rischio di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione». Sulla stessa lunghezza d’onda Nicolò Lisma, assessore alla Pesca e alle politiche del mare della Provincia di Trapani, mazarese ed ex armatore: «È naturale che i pescatori mazaresi pur di trarre in salvo delle vite umane mettano a repentaglio la propria vita e rinuncino, nonostante la grave crisi del settore, a parte della battuta di pesca. Risulta invece innaturale che finora a dare un contribuito agli equipaggi sia stato solo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e non lo Stato. Anzi i pescatori, oltre al danno dell’arresto della battuta di pesca rischiano la beffa di finire davanti ai giudici. La norma va umanizzata».  
Francesco Mezzapelle
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