La questione è che il «flusso dei cervelli» tra l'Italia e gli altri Paesi occidentali dovrebbe risultare bidirezionale in modo equivalente, mentre così non pare avvenire. Certamente ciò dipende «dalle recenti riforme universitarie e dai tagli finanziari» alla ricerca, ma nel caso della filosofia dipende...
Dove va oggi la filosofia? Ma prima ancora: esiste ancora la filosofia in Italia? E se esiste, chi sono e cosa fanno i filosofi italiani? Si tratta di domande forti, che però è giusto porsi di fronte a uno sguardo globale sul pensiero filosofico nel XXI secolo come quello contenuto in un interessante libro di sintesi ragionata curato da Tiziana Andina, Filosofia contemporanea (Carocci). Una considerazione preliminare su questo testo, e che altri hanno già giustamente fatto, è che i suoi autori sono tutti studiosi italiani, alcuni dei quali – come ha notato Mario De Caro su Il Sole 24 Ore del 27 gennaio – ancora ricercatori o «senza stabile collocazione accademica» ed altri «emigrati all’estero». Diciamo subito che queste due osservazioni di De Caro, per altro adombrate anche nell’introduzione della curatrice quando si definiscono «cervelli in fuga» gli intellettuali italiani che lavorano in università estere, dimostrano uno dei limiti della concezione del filosofo o di chi fa ricerca filosofica presente soprattutto in Italia, ma non del tutto estranea al common sense view internazionale. Secondo questo punto di vista, infatti, filosofo è colui che si occupa professionalmente di filosofia, quindi insegna o fa ricerca nel mondo accademico, e normalmente si impegna nella chiarificazione logica dei concetti oppure si concentra sullo studio di un pensatore del passato più o meno recente, con taglio prevalentemente storico e solo talvolta sviluppandone alcuni aspetti teoretici. Questo è ad esempio il fulcro di una critica contro i «sedicenti filosofi» che mi è capitato di recente di leggere da parte di Nicla Vassallo, una peraltro apprezzata docente di filosofia. In realtà, un buon filosofo non deve necessariamente essere un accademico (nella storia troviamo casi emblematici, come Baruch Spinoza che di mestiere faceva il tornitore di lenti); anzi, per certi versi se oggi la filosofia ha un problema è proprio quello di essere diventata troppo «accademica», ossia troppo condizionata dai metodi e dagli ambiti settoriali di indagine e di specializzazione dei percorsi universitari, laddove invece il filosofo non deve mai rinunciare alla critica dell’esistente e non deve perdere di vista «l’intero». Allo stesso modo, il vero lavoro filosofico non è quello che si concentra sulla storia della filosofia e in particolare sullo studio di un pensatore del passato, ma è innanzitutto quello speculativo, nel quale il vero filosofo esprime una posizione originale frutto del suo libero pensiero. Questo d’altronde è probabilmente un limite «endemico» della filosofia italiana del Novecento, che ha quasi sempre sviluppato idee e orientamenti filosofici provenienti da fuori dei confini nazionali piuttosto che formulare un pensiero proprio ed originale: così è avvenuto prima con l’idealismo, poi con il marxismo e infine con l’esistenzialismo. Di recente, la stessa mancanza di originalità speculativa si è ripetuta con l’affermarsi del filone analitico e con quello della filosofia ermeneutica di stampo continentale, mentre si è andato esaurendo in campo cattolico il filone neoscolastico senza nessuna convincente alternativa, se si fa eccezione di un’importante riscoperta di Rosmini. I più noti pensatori italiani dei nostri giorni hanno finito per ruotare intorno a un dibattito piuttosto asfittico sul pensiero debole, sul nichilismo e sulla fine della metafisica, che è approdato o ad esiti relativistici con la «crisi della ragione» (secondo un celebre testo curato da Aldo Gargani) oppure all’abbandono tout court della ragione, ad una sorta di nuovo "irrazionalismo" (Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti e alcune tendenze postmoderniste) al quale ha fatto da contraltare una forma di escatologia alternativa alla fede religiosa (Emanuele Severino) o addirittura un cristianesimo non religioso (ancora Gianni Vattimo) o dal «cielo vuoto» (Umberto Galimberti). Da noi gli appartenenti alle "comunità accademiche" di solito danno forma a confronti di idee molto paludati e raramente si leggono critiche espresse apertis verbis; anzi, normalmente si recensiscono a vicenda sui principali quotidiani o sulle principali riviste. Basti in proposito citare l’attuale discussione molto in voga sul cosiddetto «nuovo realismo» lanciato da Maurizio Ferraris, che ruota intorno alla strana necessità di distinguere «quello che c’è» (l’ontologia) da «quello che sappiamo a proposito di quello che c’è» (l’epistemologia), come se non fosse evidente che per dire che cosa effettivamente esiste (quello che c’è) dobbiamo per forza prima conoscerlo (ossia sapere quello che c’è). E questo vale tanto di più quando si apprende, anche da un recente articolo su La Repubblica del 19 febbraio, che «quello che c’è» per Ferraris è quanto ci dicono le spiegazioni della natura di matrice neo-darwiniana, perché ci pone di fronte alla riproposizione di un’ontologia non chiaramente distinta da un’epistemologia, bensì influenzata da un vecchio presupposto epistemologico: quello naturalistico. Quanto infine alla «fuga dei cervelli», mi pare che qui si tenda a ripetere meccanicamente un luogo comune, senza fare le dovute specificazioni. La mia opinione è che i «cervelli» debbano viaggiare il più possibile per tutto il pianeta con l’obiettivo di acquisire nuove esperienze, nonché di frequentarsi e conoscersi direttamente; quindi ben venga la circolazione delle intelligenze e delle competenze, ben venga che molti studiosi di filosofia facciano ricerca all’estero e trovino una loro collocazione definitiva in centri di ricerca stranieri. La questione è caso mai un’altra: che il «flusso dei cervelli» tra l’Italia e gli altri Paesi occidentali risulti bidirezionale in modo equivalente (per tanti ricercatori e docenti che escono, più o meno altrettanti dovrebbero entrare), mentre così non pare avvenire. Certamente ciò dipende (come dice in premessa il citato articolo di De Caro) «dalle recenti riforme universitarie e dai tagli finanziari» alla ricerca, che vanno sicuramente deprecati e contrastati; ma nel caso della filosofia dipende anche dal non riuscire ad avere nel nostro Paese centri di assoluta eccellenza in campo filosofico, come invece accade in nazioni come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania. Il problema principale per la filosofia in Italia non è tanto quello della mancanza di laboratori o di strumenti tecnici di ricerca come nel caso delle scienze sperimentali (anche se in generale le carenze ci sono e non si possono negare), quanto quello dell’assenza di «scuole» autonome ed originali, della perdita di specifiche tradizioni italiane come quelle di ispirazione cristiana. Non a caso nel libro curato da Tiziana Andina i filosofi italiani direttamente menzionati sono relativamente pochi (primeggia Diego Marconi per la filosofia della mente) e quasi sempre con un ruolo marginale nel dibattito filosofico internazionale. Non è questa, si badi bene, la rivendicazione di un’impensabile «autarchia filosofica»; al contrario, proprio perché il filosofo deve essere per definizione cosmopolita, anche nell’offerta di cultura filosofica dovremmo essere in grado di confrontarci alla pari con le eccellenze degli altri Paesi. Qui quanto meno un senso di autocritica deve investire tutti coloro che in Italia svolgono un lavoro «filosofico».
Roberto Timossi
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