I pranzi di futuro per me non sono altro che sedersi a considerare, con quello studente, come costruire la torre, come affrontare il nemico.
In queste ultime settimane ho organizzato i “pranzi di futuro”. Per due giorni alla settimana le lezioni terminano alle 14, così mi fermo a pranzare al bar della scuola e lascio che i miei studenti di quinto anno, se vogliono, a turno, mi facciano compagnia nel mangiare un panino e mi raccontino che scelte stanno maturando o hanno maturato sul dopo maturità. Li ascolto e faccio loro da specchio, aiutandoli a diradare incertezze, paure e pressioni familiari o culturali.
Molti di loro sono più preoccupati di fallire che pieni di entusiasmo per l’inizio di qualcosa di nuovo. Tali sono le pressioni dell’ideologia stritolante del successo come riconoscimento della folla, che la paura finisce con l’offuscare la chiarezza della loro vocazione professionale che si è mostrata almeno parzialmente nel corso di 13 anni di scuola, dei quali ho assistito agli ultimi, i più importanti in questo senso. Devo sempre ricordare loro che il successo non è negli occhi degli altri, ma nell’essere se stessi.
La scuola spesso allena a superare prove e non alla vita, a cui ci si allena solo con una progressiva conoscenza di se stessi (limiti e talenti) e scelte conseguenti. Shakespeare scriveva che “quando l’anima è pronta, allora le cose sono pronte”. La paura di ragazzi che non riescono a scegliere è frutto di un’anima che si sta ancora cercando, molti invece sono più sicuri della scelta e ne hanno sì paura, ma proprio perché è la sfida nuova della loro vita: riuscirò a realizzare il mio talento? L’anima è pronta, le cose a poco a poco, con sacrificio e passione, lo diventeranno.
Potremmo provare a impostare il lavoro educativo in chiave di talenti invece che di pratiche di addestramento, necessarie sì, ma non sufficienti. Che me ne faccio di un ragazzo che sa affrontare un test e non sa neanche se quel test è quello che gli serve per realizzare la sua vocazione professionale e portare a compimento i germi di destino che ha intravisto negli anni di scuola?
Vorrei allora riferirmi ad una parabola spesso dimenticata, forse per il suo contenuto poco poetico rispetto a gigli, seminatori e alberi da frutto: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo dicendo: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto finire”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non si siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata per chiedergli le condizioni di pace” (Lc 14 28-32)
Mi è sempre piaciuta questa doppia parabola perché non fa sconti. Cristo sta parlando delle caratteristiche di chi vuole seguirlo, quindi proprio di un discorso “vocazionale”: chi vuole intraprendere qualcosa di grande, unico, nuovo, non può improvvisare. Sono fermamente convinto che per laici che vivono in mezzo al mondo, la strada per realizzare la propria vita è quella di vivere in pienezza la propria vocazione professionale, cioè il fiorire dei talenti, lettere di un alfabeto divino nell’umano, che gradualmente impariamo ad usare.
Egli pone Adamo nel giardino perché “lo coltivi e custodisca” prima del peccato originale. Il modo di stare nel creato per l’uomo è coltivare e custodire il giardino: sviluppare le potenzialità intrinseche alle cose ma non ancora espresse (coltivare) e proteggere quel compimento (custodire). Proprio a partire da quel pezzo di mondo possiamo dialogare con Dio e fare intravedere agli altri la bellezza di questo dialogo nel quotidiano. Nella Genesi infatti si dice che Dio passeggiava con l’uomo nel giardino alla brezza della sera: quel giardino che l’uomo lavorava e custodiva.
Per questo credo sia così importante che un ragazzo trovi il suo pezzo di giardino da coltivare e custodire. Ma per far questo Cristo dice chiaro e tondo che bisogna sedersi a considerare mezzi a disposizione, fare calcoli e prendere decisioni: altrimenti saremo degni delle risate altrui (torre incompiuta) o sconfitti (guerra persa). Nella fede come nella vita è interpellato tutto l’umano: non possiamo improvvisare, basarci su emozioni passeggere o obbedire ad assurdi copioni culturali per le scelte professionali. Ne va dei nostri talenti e quindi del nostro stesso dialogo con Dio, che si sostanzia di quei talenti. Mi fa sorridere quando qualche ragazzo mi dice che Dio non parla, non dice niente. Io rispondo: parla anche troppo, nel quotidiano. Attraverso un libro, le parole di un amico o di un passante, ma soprattutto attraverso i nostri desideri, le nostre idee, i nostri limiti, i nostri talenti. Un cristianesimo fatto di cose straordinarie rischia di essere vuoto, disadattato rispetto alla storia, bigotto. Nell’ordinario di Dio ce n’è persino troppo. Basta avere i sensi aperti.
Dante avrebbe detto che una rosa dà gloria a Dio essendo rosa, un uomo essendo quell’uomo che Dio ha sognato prima che quell’uomo fosse. La rosa lo fa e basta e tutti rimaniamo incantati di fronte alla sua grazia. Un uomo, a differenza della rosa, è libero di farlo e noi rimaniamo più o meno incantati di fronte al compiersi di quella stessa grazia. O disincantati e addirittura feriti se quella grazia sparisce o è violata, come una rosa sfarinata sotto il tacco di chi non crede più nella bellezza.
I pranzi di futuro per me non sono altro che sedersi a considerare, con quello studente, come costruire la torre, come affrontare il nemico.
Solo se l’anima è pronta, allora le cose sono pronte. E il futuro fa meno paura.
ps. l’immagine è un dipinto di una mia collega di storia dell’arte, che di pari passo con l’insegnamento coltiva il suo talento di artista.
Alessandro D'Avenia
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