Quale ruolo riveste la memoria nella vita dell'uomo? «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto - per la prima volta». Togliere all'uomo la memoria è l'atto più bestiale che si possa compiere, significa sradicarlo e, così, annichilirlo.
del 27 gennaio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Quale ruolo riveste la memoria nella vita dell’uomo? «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto - per la prima volta» scrive Cesare Pavese nel Mestiere di vivere, diario di riflessioni  esistenziali  e culturali.
          Una dimensione autenticamente umana anela a salvare tutto quanto ci è accaduto, come  esperienze, incontri, persone care, anche se è ben conscia  che la salvezza e la redenzione del precario e del passeggero fino «ad ogni capello del nostro capo» non  possono derivare da noi, ma possono  provenire solo dal di fuori, da qualcosa di infinitamente più grande della nostra miseria. Questa consapevolezza non elimina la nostra aspirazione a conservare, a trattenere, a dipanare il filo della memoria, a mantenere l’impressione dell’immagine tremula che è venuta alla luce dal pozzo (Cigola lacarrucola nel pozzo, di Eugenio Montale). La memoria, il ricordo sono parte dell’umana aspirazione all’eternità, come si può constatare nei Sepolcri, carme che è vero e proprio monumento (nel senso etimologico del termine) della civiltà e di quella «corrispondenza d’amorosi sensi» che lega gli umani tra loro, anche con coloro che sono già  defunti.
          La memoria è, però, anche sorgente dell’etica, della vera moralità, ovvero della possibilità di agire per un bene. Senza approfondire la questione in questa sede, basterà citare il caso di Renzo che, più volte, nella sua peregrinazione lontano dal paese natio,  proprio nei momenti più bui, viene trattenuto dal compiere azioni scellerate dalle trecce nere e da una barba bianca, ovvero da Lucia e fra Cristoforo, le due persone attraverso le quali lui ha incontrato Cristo, le due persone autorevoli per la sua vita: la memoria permea, in questo caso, il presente, lo rende vitale, possibilità di agire per il proprio bene con uno sguardo fisso non verso il proprio limite, ma teso ad altro da noi, a chi guarda l’Ideale.
          Nella Divina commedia addirittura solo attraverso la memoria dell’esperienza accaduta all’autore di «transumanar», cioè di andare oltre la natura umana, di diventare un uomo nuovo attraverso un percorso di inabissamento nel proprio male e nel male dell’umanità e di purificazione graduale fino all’incontro con Dio (un vero e proprio itinerarium mentis in deum che avviene mediante incontri ben precisi, Virgilio, Beatrice, S. Lucia, la Vergine Maria)  è possibile per Dante adempiere al proprio compito della vita. Esso consiste nel diffondere la verità che ha visto e che ha sperimentato così da «condurre gli uomini, finché sono in vita, dalla condizione di infelicità dovuta al peccato allo stato di felicità» (Epistola XIII indirizzata assieme alla terza cantica a Cangrande della Scala): il fine della memoria di quanto accaduto e della trascrizione in poesia è quello di il centuplo quaggiù, e poi la beatitudine per l’eternità, cioè la salvezza.
          Ecco come il chimico e scrittore Primo Levi (1919-1987) descrive la sua necessità di trattenere e conservare la memoria di quanto gli è accaduto: «Il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza […]. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato».
          Questa è la genesi dell’opera più conosciuta di Levi, Se questo è un uomo, un libro testimonianza sull’esperienza da lui vissuta nel lager di Auschwitz tra il 1944 e il 1945, da cui riuscì a scampare. «Il fatto che io sia sopravissuto, e sia ritornato indenne» è ferma convinzione dello scrittore «è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l’animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere […], ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito […]. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, degli uomini e non delle cose».
          L’altro che incontro, che sia del mio paese o straniero, è un uomo, una persona, con un valore sconfinato, da rispettare fino in fondo. Questo dato deriva dalla tradizione occidentale e cristiana, di cui Levi è debitore, anche se lo scrittore di origine ebraica, dopo l’esperienza del lager, si allontana in maniera decisa dalla fede tanto che in un’intervista afferma che se ci sono stati i lager Dio non può esistere. Nella famosa poesia che apre il libro Levi provoca noi lettori che viviamo «sicuri nelle […] tiepide case», che troviamo «tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici» a ricordare la condizione bestiale a cui milioni di persone sono state ridotte e a considerare «se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ che muore per un sì o per un no», «se questa è una donna,/ senza capelli e senza nome/ senza più forza di ricordare/ vuoti gli occhi e freddi il grembo». Togliere all’uomo la memoria è l’atto più bestiale che si possa compiere, significa sradicarlo e, così, annichilirlo. Nessuna conquista straniera può eliminare il passato, la tradizione e la coscienza della persona e del popolo, se è vero quanto scrive Foscolo nei Sepolcri: «Le mal vietate Alpi e l'alterna/onnipotenza delle umane sorti/armi e sostanze t' invadeano ed are/e patria e, tranne la memoria, tutto».
          Per questo Levi non accetta di essere trattato come una bestia e in tutti i modi cerca di conservare ciò che l’uomo ha di suo peculiare: «Se mi avanzano dieci minuti tra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un minuscolo ozio». Levi si ribella: «Il lager è una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare […]. Siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti ad ogni offesa, ma […] una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro assenso». Che valore immenso hanno queste parole anche per l’uomo di oggi che sembra naufragare in mezzo al sistema, schiacciato dal potere totalitario, come ben ha evidenziato Pasolini in Scritti corsari. L’uomo conserva in qualsiasi situazione, nella crisi morale e di valori odierna come anche nel lager o nella prigione, il dono più grande che è la libertà. Per questo, anche nei campi di sterminio, gli uomini devono continuare a lavarsi il volto, a lustrare le scarpe, a camminare diritti «per restare vivi, per non cominciare a morire».
          Anche nelle altre opere Levi continuerà a rappresentare «la stessa lotta dell’uomo contro il grande nemico, la morte» sia che scriva del detenuto nel lager che «del chimico alle prese con problemi di vernici» o del «meccanico impegnato in un’ardua situazione di lavoro» (Elio Gioanola). Per Levi la testimonianza memoriale  diventa un titanico tentativo di salvare quanto è stato, la memoria degli uomini, la brutalità di un male che non può essere redento, ma solo guardato nella sua atrocità.
          Per noi conoscere questo passato è un atto morale, nel senso che la stessa ignoranza è colpevole, come afferma Traudl Junge che diviene segretaria di Hitler a ventidue anni nel 1942. Finita la guerra, scopre che una sua coetanea, Sophie Scholl, ha dato la vita per diffondere la verità dello sterminio, mentre lei è rimasta ignara di tutto. Allora scrive: «Il fatto che fossimo giovani non ci giustifica dal non aver saputo». L’errore più grande che si commette oggi è pensare che fatti di una tale gravità come lo sterminio perpetrato dai nazisti siano capitati solo nel tempo passato. Uno sguardo attento a quanto si verifica oggi nel mondo ci dimostra che i lager sono ancora oggi presenti (ad esempio in Cina), ma pochi ne scrivono, che cinquanta milioni di bimbi ogni anno vengono uccisi con l’aborto, che l’eugenetica nata sotto i regimi totalitari e vagheggiata dal Nazismo è oggi presentata come modernità, che tante altre ingiustizie sono ancora commesse.
          Una giornata della memoria che accusasse il passato (come accade nella maggior parte dei casi) e che non riflettesse sul presente sarebbe ipocrita e farisaica. Se il presente deve illuminare il passato, è anche vero il contrario, ovvero che il passato deve aiutarci a scrutare meglio il presente.
Giovanni Fighera
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