Prove finali di sacrificio

I segni che accompagnano le liturgie dei tre giorni conservano il nucleo profondo della redenzione: tre intellettuali davanti al mistero della Passione di Cristo.

Prove finali di sacrificio

da Teologo Borèl

del 14 aprile 2006

 

 

Givone

La lavanda, quando l’amico si prende cura dell’amico

 

Non fu soltanto un gesto di vera umiltà, ma di amore dell’altro

 

 

Contrariamente a quel che si crede, un simbolo è non soltanto un segno che allude o rimanda a un certo significato. È molto di più. È qualcosa di reale. È un gesto, un fatto. È un segno che è tutt’uno con il suo significato. Ciò vale per il simbolo cristiano più alto, il simbolo eucaristico. Ma vale anche per il simbolo diciamo così più basso: la lavanda dei piedi da parte di Gesù ai discepoli. Non a caso l’uno e l’altro simbolo hanno luogo nell’arco di poche ore. Ossia la sera di giovedì, poco prima e durante l’ultima cena.

Insegna la dogmatica che nell’eucaristia il pane e il vino sono bensì il simbolo del corpo del Signore, ma lo sono realmente e non allegoricamente. Ora, fatte le debite differenze, se guardiamo alla lavanda dei piedi in questa prospettiva potremo scoprire qual è il significato profondo del gesto. Che appunto è un gesto reale: qualcuno lava realmente i piedi a qualcun altro.

Almeno tre sono le interpretazioni possibili. La prima vede nell’atto di detergere i piedi a chi è inferiore una prova di umiltà. La seconda, qualcosa che non è esagerato definire eroico. La terza, una perfetta espressione di amore del prossimo.

Bisogna sapersi umiliare e abbassare senza riserve, per rendere un servizio tanto povero e dimesso. Ma se di umiliazione si tratta, essa potrebbe spingersi oltre. Fino all’annientamento in se stessi di qualsiasi presunzione, qualsiasi affermazione di superiorità. Ci vuole coraggio, per questo, se non di più: ci vuole eroismo.

Eppure non basta. In Gesù che senza nulla dire, con semplicità, «prese a lavare i piedi ai suoi discepoli» (Gv.13,5) c’è qualcosa che va al di là dell’umiliazione e dell’eroismo. Nella essenzialità di un gesto il cui significato è tutto interno al gesto stesso, scopriamo che là dove l’amico si prende cura dell’amico, e questo accade semplicemente perché è cosa bu ona e bella prendersi cura dell’altro, par di toccar con mano che cosa il Vangelo intenda per amore del prossimo.

 

 

Forte

Anche noi, col divino Viandante sulla strada per Emmaus

 

Oggi dobbiamo rieducare gli occhi a vedere l’Invisibile

 

Da oltre mezzo secolo, ogni giorno, da quel 2 novembre 1946 in cui celebrai la mia prima Messa nella cripta della cattedrale del Wawel a Cracovia, i miei occhi si sono raccolti sull’ostia e sul calice in cui il tempo e lo spazio si sono in qualche modo 'contratti' e il dramma del Golgota si è ripresentato al vivo, svelando la sua misteriosa 'contemporaneità'. Ogni giorno la mia fede ha potuto riconoscere nel pane e nel vino consacrati il divino Viandante che un giorno si mise a fianco dei due discepoli di Emmaus per aprire loro gli occhi alla luce e il cuore alla speranza» (Ecclesia de Eucharistia, n. 59). È questa la testimonianza personalissima che Giovanni Paolo II volle consegnare a uno dei Suoi ultimi testi: essa ci indica come e dove egli abbia imparato a usare i suoi occhi per vedere l’Invisibile, a viverne e a testimoniarlo al mondo come Amore infinito. In queste poche parole la celebrazione eucaristica ci è narrata come la memoria, la presenza e la profezia dell’amore, che vince il dolore e la morte e rende possibile il perdono oltre ogni misura umana. Proprio così, queste parole mostrano nell’eucaristia il denso compendio del messaggio di quell’impossibile– possibile amore, che Benedetto XVI ha voluto rilanciare al mondo con la sua enciclica Deus caritas est.

È la memoria del Golgota, viva e attuale nella celebrazione della Cena del Signore, che ci ricorda e ci fa sperimentare quanto siamo stati amati: «Chi vuol donare amore – afferma Papa Ratzinger – deve egli stesso riceverlo in dono». In quanto, memoriale delle sofferenze di Gesù, l’eucaristia è uno straordinario incontro con Lui, che ci ha amato 'fino alla fine'. Proprio così, è la scuola dell’amore, dove amati impariamo ad amare. In questa trasmi ssione d’amore, in questo contagio di vita operato attraverso i segni eucaristici da Colui che è in persona l’Amore incarnato, si coglie la forza della misteriosa 'contemporaneità' di cui nell’eucaristia si fa esperienza: non è un semplice ricordo, fosse pure struggente, a toccarci l’anima e a farci nuovo il cuore, ma è la presenza dell’Amato, che ci visita e ci accoglie. «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est). Questa Persona è Gesù Cristo, «l’amore incarnato di Dio», che nell’eucaristia si fa presente e si offre: alla Cena dell’Agnello si apprende così per via di trasformazione del cuore il programma della vita cristiana, «il programma di Gesù, 'un cuore che vede'. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente».

Ed è così che la memoria viva e attuale si fa profezia, dono e inizio di nuovo futuro: veramente, il divino Viandante – venuto a mettersi al nostro fianco – apre i nostri occhi alla luce e il cuore alla speranza! Il pane mangiato, presenza viva di Lui, ci fa 'corpo donato'. Dove non riusciva a nascere amore, si fa strada la misericordia e il perdono. E l’impossibile diventa possibile. Quanto abbiamo bisogno tutti di questa esperienza del domani di Dio che entri nel nostro presente e ci renda capaci di nuovi legami di amore! Un solo, bruciante esempio mostrerà l’attualità di questo Vangelo dell’impossibile, possibile amore, che ci è offerto nell’eucaristia: di fronte alla tragedia dell’assassinio del piccolo Tommaso, chi non ha provato in se stesso un moto di sdegno e di rifiuto verso i colpevoli? E chi - ascoltando la parola evangelica «perdonate e vi sarà perdonato» – non si è chiesto come questo sarebbe stato possibile davanti a un simile male? Perdonare è donare all’infinito: è dunque vero che da soli non ne saremo mai capaci, finiti come siamo. È solo alla scuola dell’Amato che fiorisce il perdono e l’umanità riconciliata del domani di Dio si affaccia nel nostro presente. Dove troveremo questa forza di amore e di perdono se non nel pane venuto dal cielo? Occorre aprire la porta del cuore e gustare la Cena dell’Agnello: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

 

 

 

Mannuzzu

Quel piatto di grano da cui rinasce la nostra salvezza

 

 

«Sepolcri» erano detti i luoghi ove il chicco cresceva

privato della luce

 

 

Quand’ero bambino, circa settant’anni fa, durante la quaresima seminavamo del grano in un piatto colmo d’acqua (o di terra?), che poi tenevamo al buio, dentro una cassa. Il grano nuovo germogliava e cresceva senza clorofilla: con degli steli pallidissimi, erti e lunghi, fitti. Che alla fine legavamo insieme con un vecchio nastro e decoravamo, magari, con un povero fiore: quei piatti gravati del loro strano trionfo vegetale si chiamavano 'sepolcri' ed erano destinati alla cappella dove, il Giovedì santo, veniva deposto il sacramento.

Ricordo le donne avvolte negli scialli, che li portavano in chiesa per i vicoli del paese: donne e bambini. È un’usanza di cui rimangono poche tracce (dove rimangono); ma continua a confortarmi la memoria, col suo misterioso sapore di rito contadino. Che vuol dire, ancora? Il tema è l’ostia consacrata: fatta di questo grano, del grano che deve morire se vuol dare frutto. Ma il tema è anche il sepolcro, nella cui oscurità il grano nuovo è nato e cresciuto: e da cui viene un annuncio del Calvario imminente, un anticipo della croce e della deposizione. Il sepolcro del Giovedì santo significa che ostia di pane e uomo-Dio crocefisso sono la stessa cosa, anzi la stessa persona: la stessa dedizione infinita.

Di questa dedizione infinita il mondo non può fare a meno, se non vuole perire. Basta la violenza a un bambino a tingere di iniquità tutto il nostro mondo: a gu astarlo irrimediabilmente, a renderlo dannato. E io – all’età che ho – proprio non capisco quale posto abbia nelle logiche della creazione una violenza tanto terribile. Se è un male che non serve a purificare: il bambino è troppo piccolo per avere peccato; se è un male che non mette alla prova: il bambino è troppo piccolo per affrontarla.

E mi domando come il mondo – l’universo, l’universo intero – può salvarsi da un simile strazio dell’innocenza. La risposta è nel piatto di grano: possiamo salvarci solo se affidiamo il bambino violentato al Sepolcro da cui si resuscita vivi per sempre. Perché così il bambino diventa parte – comunione – del corpo e della misericordia di Dio.

Sergio Givone, mons. Bruno Forte, Salvatore Mannuzzu

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