Sul riso e il sorriso di Dio. «Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso... Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza. E questo ci porta alla vera radice del ridere e del sorridere...».
del 15 aprile 2006
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio, ma è non di meno al sorriso di Dio, che scompiglia i calcoli umani e si diverte a sfidare Abramo a credere nell’impossibile possibilità del Suo amore. Una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di “purim”, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo, e perciò festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da generoso mendicante, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non sembra più esserlo…). L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
 Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un'anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo sono religioni del riso e del sorriso, la risposta può forse essere trovata nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare a metà tra prossimità e lontananza: e allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla Croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso. Il ridere può essere salvifico, come quello dell’Eterno che agisce con misericordia di fronte all’ottusa incapacità di accogliere il nuovo dimostrata da Sara e da Abramo; o conoscitivo e liberatorio, come quello di Abramo e Sara che finalmente cominciano a capire qualcosa davanti alla fantasia dell’Eterno.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano - teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza. E questo ci porta alla vera radice del ridere e del sorridere, nel gioco sempre vivo tra la prossimità e la lontananza: questa radice, linfa profonda che unisce ebraismo e cristianesimo, è il comandamento dell’amore. Amare vuol dire fare spazio all’altro, fare dei due uno: ovvero, restare lontani nella massima vicinanza e vicini nella lontananza più grande. Qui c’è spazio per il riso, perché si guarda all’altro con la lontananza del rispetto e la prossimità della tenerezza che è propria degli occhi dell’amore. Perciò, i paradossi dell’amore sono quelli del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le sue tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fa capire una curiosa leggenda rabbinica. Essa narra della lettera “aleph’ - la più eterea e volatile dell'alfabeto ebraico, la più modesta - che unica fra tutte si astenne da ogni pretesa ad essere scelta per iniziare il racconto della creazione, quando l’Eterno domandò all’intera schiera dell’alfabeto quale fra le lettere volesse essere la prima nell’opera del creato. Fra le pretendenti fu scelta la “beth” – tanto che la prima parola della Torah è ‘berešit’, ‘in principio’ - perché con essa comincia ogni benedizione del Santo (Aberakah’) e perché essa è come un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione cioè in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l'inizio non è compimento, ma domanda ed attesa. Il racconto narra che l'Eterno volle ricompensare la Aaleph’ per la sua umiltà, e lo fece dandole il primo posto nel Decalogo: AIo sono il Signore Dio tuo’ - la parola dell'eterno fondamento invisibile, che viene ad affacciarsi nel tempo grazie alla rivelazione ed a stabilire l'alleanza fra il Dio vivente e il Suo popolo -  comincia infatti con ‘io’, ‘anochì’, la cui iniziale è ‘‘leph’ (cf. L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei - I: Dalla creazione al diluvio, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, 27s).
Se dunque la storia dell'uomo e del mondo inizia con la ‘beth’ ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo e approfondimento, la verità di Dio ci viene offerta pienamente solo a partire da quell'‘aleph’, con cui inizia l'‘Io’ della Sua sovrana autocomunicazione. Il racconto viene a dirci allora che se l'avventura di ogni conoscenza inizia dall'abisso del cuore umano in ricerca, essa si compie veramente soltanto quando è raggiunta dall'offerta umile della verità, custodita nel mistero di Dio. L'‘aleph’ viene dopo, ma illumina la ‘beth’ che la precede: scherzi dell’Onnipotente che si rivela nella debolezza, dell’Eterno che entra nel tempo, dell’Infinito che nasce Bambino in una povera grotta. Scherzi da Dio, verrebbe da dire. Risi e sorrisi dell’Altissimo che sembrano voler contagiare la creatura per renderla ilare e lieta, proprio così libera e salva. Non è forse questo ciò che avvenne ad Elia? Quando lui, il profeta del fuoco, il testimone di Dio nel tempo dell’apparente sconfitta di Dio, giunge finalmente al monte santo dove vivrà l’esperienza di Dio, che cosa l’attende? L’Eterno non è dove l’avresti cercato, nel vento, nel terremoto o nel fuoco. Non è neanche in una “brezza leggera” come amano ripetere - sbagliando - le traduzioni dall’ebraico. Se leggiamo l’originale scopriamo che la via del suo passaggio è “voce del silenzio”. Elia cerca una rassicurazione, una parola, Dio sovverte tutti gli schemi e si fa silenzio. Nella prossimità si mostra come lontananza. Nella lontananza, come prossimità. È quello peraltro che fa in tutta la Bibbia, il libro della Parola, che è però anche inseparabilmente – e forse più ancora – il libro del divino silenzio. Dio, che quando dovrebbe parlare tace, e quando dovrebbe tacere parla, è sovversivo, spiazzante. In un mondo come il nostro, in cui c’è sciupìo di parole - come dimostra la retorica dei signori della guerra e dei loro partners, accecati dal fondamentalismo terrorista – c’è bisogno di ascoltare il silenzio: il silenzio eloquente di un sorriso… o il sottile rumore di un riso… o forse anche il silenzio di un’ironia carica di dolore e di amore. Come quella del saggio ebreo che scultoreamente afferma: “L’uomo pensa, Dio ride”. E di noi stessi, che dopo tutte queste serissime considerazioni, non possiamo non pensare a quante risate Egli si sarà fatto per la fatica della nostra mente intorno a un Suo riso, a un Suo sorriso…
mons. Bruno Forte
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