Può Dio soffrire? di Bruno Forte

Intervento di Bruno Forte nel dialogo con il filosofo Massimo Cacciari tenutasi venerdì 10 marzo 2006 nell¬¥Università d¬¥Annunzio di Chieti Scalo. L¬¥autore presenta il percorso seguito con queste parole: 'Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente ‚Äì il Padre/Madre dell'amore della tradizione biblica ‚Äì, ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d'Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa'.

Può Dio soffrire? di Bruno Forte

da Teologo Borèl

del 15 aprile 2006

Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente - il Padre/Madre dell’amore della tradizione biblica -,ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d’Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa.

 

a) Il Dio d’Israele. In ebraico c’è una metafora pregnante per dire l’amore di Dio: “rachamim”, termine che letteralmente significa “viscere materne”. Il Dio dei “rachamim” è il Dio visceralmente innamorato dell’uomo («per viscera misericordia Dei nostri», dice la trasposizione latina): Colui che è il Padre della “hesed”, l’amore forte e fedele, è anche il Padre/Madre della tenerezza, il Dio dell’infinita misericordia. Dice Isaia 49,14-16: “Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai di te. Ecco ti ho disegnato sul palmo delle mie mani”. Questo è il Dio d’Israele: un Dio materno, che conosce tenerezza e usa misericordia, che ci tiene sempre sotto gli occhi, perché ci ha disegnato sul palmo delle sue mani.

Questo Dio non ha esitato a farsi piccolo perché noi possiamo esistere davanti a Lui: è quanto esprime la dottrina, cara alla mistica ebraica, dello “zim-zum”, del divino “contrarsi”, chiave del mistero della creazione. Un frammento anonimo medioevale afferma: “Come fece uscire e creò il mondo? Come un uomo che raccolga il respiro e si concentri in sé, affinché il piccolo contenga il grande, così Egli concentrò la sua luce… e il mondo fu nella tenebra. In questa tenebra Egli incise le rocce e intagliò le pietre, in modo da trarne le meraviglie della sapienza”. Dio si limita in se stesso per creare spazio alle sue creature, come fa una madre quando concepisce un figlio; Dio si fa piccolo perché vuole davanti a sé donne e uomini liberi. Il Suo amore giunge al punto da accettare il rischio della nostra libertà, anche della libertà di rifiutarlo. Perciò il Dio della tradizione biblica è il Dio umile: nessuno può esserlo come Lui, perché Lui solo può farsi piccolo, Lui solo può veramente “contrarsi”! Voce di una profonda esperienza mistica, Meister Eckhart dirà: “La virtù che ha nome umiltà è radicata nel fondo della deità”. E prima di lui Francesco - nelle Lodi del Dio Altissimo - si rivolge al Dio amato, verità e bellezza infinite, dicendoGli: “Tu sei umiltà!”.

Questo Dio umile si è destinato a tal punto alla Sua creatura per amore, da seguire il cammino dei suoi figli con trepidante partecipazione: è quanto esprime la dottrina della “shekinah”, la “dimora” di Dio nella storia del suo popolo. Si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekinah farà ritorno insieme a loro”. Il Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio che ha tratti di compassione e di tenerezza anche quando giudica. Il suo è il giudizio di verità e di amore di chi ti conosce e ti ama fino al punto da soffrire per te: perciò il giudizio divino è il solo che può rivelarti veramente a te stesso.

Questo Dio di luce e di misericordia chiede all’uomo una sola risposta, la “teshuvà”. SHV è la parola che noi traduciamo con convertirsi e che in ebraico significa “ritornare a casa”. Dio desidera che noi torniamo nella sua casa. Colui che ci ha creati liberi per amore, nell’amore aspetta il nostro ritorno: la Sua non è un’attesa indifferente, ma vive dell’ansia e della sofferenza dell’amore, come rivela la gioia espressa nella festa del ritorno. Qui si intravedono i tratti del Padre presentato nella parabola di Gesù in Luca 15, sintesi della rivelazione del Dio biblico come Dio della tenerezza e della misericordia. Osea 11,7-8 afferma in questa stessa direzione: “Il mio popolo è duro a convertirsi; chiamato a guardare in alto nessuno solleva lo sguardo. Come potrei abbandonarti Efraim, come consegnarti ad altri Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”. Padre/Madre della tenerezza e dell’amore, della misericordia e dell’umiltà, questo Dio ci rende liberi di esistere a testa alta davanti a Lui e di aderire o meno al Suo patto, anche se incessantemente ci chiama a tornare al suo cuore divino e aspetta il nostro ritorno, per vivere con Lui la festa dell’amore ritrovato.

 

b) Il Dio di Gesù. Il Dio d’Israele è anche il Dio di Gesù. Ebreo fedele, il Nazareno ha però introdotto una novità assoluta rispetto alla tradizione d’Israele: egli ha chiamato Dio col nome di “abbà”, parola della tenerezza con cui i bambini amavano rivolgersi al padre e che anche gli adulti usavano per esprimere la confidenza filiale. Gesù è stato il primo Ebreo che si è rivolto a Dio così: “abbà”, segno di confidenza infinita e di tenerezza filiale, è l’invocazione che sgorga dal cuore del Figlio incarnato nell’ora suprema del dolore, quando tutto sembra crollare e la solitudine è totale, perché anche i discepoli non sono stati capaci di vegliare un’ora sola con Lui. “Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice: però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 15,36). Siamo qui di fronte alla più alta rivelazione del Padre, nelle cui mani Gesù affida il suo spirito. Il Padre di Gesù è il Dio che accetta di soffrire per amore della sua creatura: non soltanto il Dio umile, il Dio della compassione e della tenerezza, ma il Dio che paga il prezzo supremo dell’amore.

Questo prezzo è espresso con un termine che ricorre di continuo nei racconti della passione: “paradìdomi”, “consegnare”. Il verbo è usato anche nella traduzione greca della Bibbia ebraica, detta dei Settanta, ad esempio in Genesi 22 nel racconto del sacrificio di Isacco, per indicare la consegna del figlio amato da parte del padre. Come Abramo consegna Isacco per  amore di Dio, così il Padre di Gesù consegna l’Isacco della nuova ed eterna alleanza per amore degli uomini. Commenta Origene: “Dio gareggia magnificamente in generosità con gli uomini: Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale senza che questi morisse; Dio ha consegnato alla morte il Figlio immortale per gli uomini” (Homilia in Genesim, 8). In questo mistero della “consegna” si rivela la Trinità di Dio nell’unità dell’eterno amore: all’autoconsegna del Figlio, “che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20), come dice Paolo, corrisponde la libera, dolorosa consegna d’amore del Padre, che “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (Rom 8,32). Nella relazione del loro amore sofferente, rivelata sulla Croce, agisce lo Spirito, vincolo e dono dell’amore dei Due: “Chinato il capo consegnò lo Spirito” (Gv 19,30).

Si comprende allora come il Dio di Gesù sia capace di soffrire per amore, perché è amore: lo ha evidenziato con parole intense Giovanni Paolo II nella Dominum et vivificantem: “Il Libro sacro sembra intravvedere un dolore, inconcepibile e inesprimibile nelle ‘profondità di Dio’ e, in un certo senso, nel cuore stesso dell’ineffabile Trinità... Nelle ‘profondità di Dio’ c’è un amore di Padre che, dinanzi al peccato dell’uomo, secondo il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire: ‘Sono pentito di aver fatto l’uomo’... Si ha così un paradossale mistero d’amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura... ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all’uomo e alla creazione fin dall’inizio. Nel profondo del mistero della Croce agisce l’amore”  (nn. 39 e 41). È il dolore dell’amore divino che faceva osare ai Concili della Chiesa antica di pronunciare le parole: “Deus passus est” – “Dio ha sofferto”. È la rivelazione dell’abisso della divinità che faceva dire ad Agostino: “Deus crucifixus” - “il Dio crocefisso”. Sta qui il fondamento di quanto affermava ancora Origene: “Neppure il Padre è impassibile! Dio piange persino per Nabucodonosor!”.

La sofferenza di Dio è dunque il segno del suo amore umile, non della sua debolezza o del suo limite: non si tratta di una sofferenza passiva, che si subisca in quanto non è possibile farne a meno. È invece la sofferenza attiva, liberamente scelta ed accolta per amore verso la persona amata. Diversamente dall’opinione diffusa nella tradizione greco ‑ occidentale, secondo cui non c’è altra sofferenza che quella subita, segno di imperfezione e tale perciò da far postulare a molti l’impassibilità di Dio, il Dio cristiano rivela un dolore attivo, liberamente accettato, perfetto della perfezione dell’amore: «Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Il Dio di Gesù, in quanto è “agàpe”, gratuito e liberissimo amore, non si chiama fuori della sofferenza del mondo, quasi spettatore impassibile di essa: egli la assume e la redime, vivendola dal di dentro come dono e offerta per noi, da cui sgorghi la vita nuova del mondo. La rivelazione del cuore di Dio sta tutta qui: Egli è colui che soffre perché ci ama, perché ci ha creati liberi e dunque si è esposto al rischio della nostra libertà ed è pronto per noi a pagare il prezzo dell’amore, attendendo con ansia e speranza il nostro ritorno, come il Padre della parabola che soffre per la lontananza del figlio amato e perduto.

La conseguenza di questa vulnerabilità divina nell’amore è dunque che il peccato dell’uomo non è indifferente per il cuore divino. Dio soffre per ciascuna delle colpe dei suoi figli: in quanto questa sofferenza è attiva e non passiva, è cioè una sofferenza che Dio accetta liberamente per noi, allora l’altro nome di essa è “agape”, carità. “Deus caritas est”: Dio, il Padre, è amore. Sta qui il centro e il cuore del Vangelo, come ci ha ricordato Benedetto XVI nell’Enciclica “Deus caritas est”: il Dio di Gesù è Colui al quale possiamo rivolgerci dicendo con tenerezza di figli: “Padre nostro…”. L’accoglienza con cui Egli ci risponde è l’amore sofferente e ospitale, l’amore fedele e speranzoso di chi attende sempre il nostro ritorno, quell’amore rivelato nel Dio fatto uomo per noi, Gesù, l’amore incarnato. Dal Venerdì Santo del Figlio crocifisso per noi sappiamo che la storia delle sofferenze umane è anche storia del Dio con noi: Egli vi è presente, a soffrire con l’uomo e a contagiargli il valore immenso della sofferenza offerta per amore.

La «patria» dell’Amore è entrata, dunque, nell’«esilio» del peccato, del dolore e della morte, per farlo suo e riconciliare la storia con sé: Dio ha fatto sua la morte, perché il mondo facesse sua la vita. «Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare. In questo senso si può dire che l’evoluzione verso la maggiore età del mondo, con la quale si fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio, apre lo sguardo verso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, a cura di A. Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 440: lettera del 16 luglio 1944). Il Dio biblico non è l’occulta controparte contro cui lanciare le bestemmie del dolore umano, ma è in un senso più profondo «il Dio umano, che grida nel sofferente e con lui e interviene a suo favore con la sua croce quando egli nei suoi tormenti ammutolisce» (J. Moltmann).

Questo Dio sofferente per amore, libero della libertà dell’amore e vulnerabile nel dolore d’amore, è il Dio che può dare senso alla sofferenza del mondo, perché l’ha fatta propria e redenta: questo senso è l’amore. La morte della Croce è la morte della morte, perché sull’albero della vergogna il Figlio di Dio si è consegnato alla morte per darci la vita e renderci capaci di trasformare con Lui il dolore in amore, la fine in nuovo, sorprendente inizio. Nel silenzio del Sabato Santo Gesù abbandonato ha raggiunto le profondità della vittoria della morte e le ha inghiottite: la sua «discesa agli inferi» è «annunzio di salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione» (1Pt 3,19), garanzia che Egli ha riconciliato col Padre l’universo intero, e perciò anche i protagonisti della storia precedente alla sua venuta, in quanto aperti e disposti nella speranza all’alleanza con Dio. La possibilità di salvezza offerta a tutti è il Vangelo liberante della Croce e del Sabato Santo: la sofferenza di Dio è l’altro nome del Suo amore salvifico, aperto a tutti, possibile per ciascuno oltre ogni misura di stanchezza, nonostante e al di là di ogni incapacità o umana impossibilità di amare.

 

c) Il Dio della Chiesa. Dal dono di questo possibile, impossibile amore, offerto dal Figlio sulla Croce, nasce la Chiesa, la comunità dei figli resi tali dal Figlio, l’Amato. Che la Chiesa sia la Chiesa dell’amore non è un’affermazione retorica, ma ha un fondamento reale, come mostra una parola usata nel Nuovo Testamento soprattutto in Giovanni: “kathòs”, “come”. “Amatevi come io ho amato voi” (Gv 15,12; cf. 13,34). “Che essi siano uno, come noi siamo uno” (Gv 17,21. 22), sono frasi in cui si evidenzia il triplice senso di questo “kathòs” - “come”: la Chiesa viene dalla Trinità, dall’amore che lega il Padre e il Figlio nello Spirito; è immagine della Trinità; e tende verso la Trinità. Il “kathòs” sta a dire che i discepoli vivono nello Spirito uniti al Figlio crocifisso e risorto alla presenza del Padre. Il cristiano non è che il discepolo partecipe dell’amore sofferente di Dio: «Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo»!( D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, o. c., 441: lettera del 18 luglio 1944). L’“agape” è la legge fondamentale della comunità di quanti credono nella rivelazione dell’amore sofferente del Padre avvenuta in Gesù.

La grande differenza fra l’atteggiamento religioso, semplicemente pagano, e il cristianesimo si misura precisamente su questa partecipazione alla sofferenza di Dio: lo ha espresso in modo mirabile in una poesia del tempo della prigionia Dietrich Bonhoeffer: «Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione / piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, / salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte. / Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani. / Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione, / lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, / lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte. / I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (Cristiani e pagani. Poesia, in Resistenza e resa, o.c., 427). Il “kathòs” ci fa dunque comprendere che la Chiesa vive della legge fondamentale dell’accoglienza e del dono: lasciarsi amare dal Padre per Cristo nello Spirito sulla Croce, per amare poi il Padre per Cristo nello Spirito amandoci gli uni gli altri. Fare compagnia al dolore di Dio per l’altro: è questo il senso dell’amore rivelato e donato da Gesù. Perciò, “allelon – allelous” – “gli uni – gli altri” è la formula che nel Vangelo di Giovanni corrisponde al “kathòs”: se il “come” dice il rapporto tra noi e la Trinità, “allelon-allelous” dice il rapporto della reciprocità fra di noi. È la carità di Dio a fondare la carità fraterna!

L’interrogativo essenziale, allora, diventa quello di entrare nel cuore del Padre perché il frutto di riconciliazione e di vita nuova che sgorga dal suo amore sofferente si esprima nella nostra esistenza e nella storia e il possibile, impossibile amore ci abiti. La grande tradizione della fede ha una risposta tanto netta, quanto ininterrotta a questo interrogativo, proclamata come un “canto fermo” con la testimonianza vissuta dei santi, prima che con i concetti e con le parole: il luogo dell’incontro, la porta che introduce nel cuore paterno e fa fare esperienza della sofferenza misericordiosa di Dio, è la preghiera e in particolare il suo vertice e la sua fonte, la liturgia. È questa la grande scuola dell’amore, dove il Padre accoglie i Suoi figli e la Sua misericordia li rende creature nuove, libere e liberanti nella storia. Nella liturgia il cristiano non sta davanti a Dio come uno straniero, ma entra nelle profondità di Dio, prega “in Dio”, lasciandosi avvolgere dal mistero della Trinità, facendo compagnia alla sofferenza di Dio e partecipando alla Sua vittoria sulla morte e sul male.

Celebrare, pregare, perciò, non significa tanto amare Dio, quanto lasciarsi amare da Lui: in tal senso, la preghiera ci introduce nel cuore del Padre rendendoci capaci anzitutto di ricevere, di attendere il dono dall’alto nella pazienza e nella perseveranza piene dello stupore dell’amore. La preghiera cristiana, personale e liturgica, è perciò esperienza notturna più che solare di Dio: il Padre non lo vedi, né lo catturi; ti lasci piuttosto contemplare da Lui. Celebrare è lasciarsi amare da Dio, è “passio” prima che “actio”, accoglienza del mistero, prima e più che impresa umana: “pati divina”. Ed è alla scuola della liturgia - “memoria passionis et resurrectionis Domini” - che si comprende come la condivisione dell’umanità del Dio sofferente non ha nulla del dolorismo pessimista, è anzi affermazione decisa della potenza della resurrezione: «La vittoria sul morire rientra nell’ambito delle possibilità umane, la vittoria sulla morte si chiama resurrezione. Non è dall’ars moriendi, ma è dalla resurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore... Vivere partendo dalla resurrezione: questo significa Pasqua» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, o.c., 314: lettera del 27 marzo 1944).

Chi sta davanti al mistero del Padre nel grembo della Trinità Santa, nascosto con Cristo in Dio (cf. Col 3,3), dimora anche nel seno della storia: è così che nella liturgia la Trinità e la storia giungono ad incontrarsi. La preghiera, personale e liturgica, è il terreno d’avvento della Trinità nella storia, il luogo di alleanza fra la storia eterna di Dio e la storia degli uomini, il pegno della speranza che fa pregustare il giorno in cui il mondo intero sarà la patria di Dio e Dio sarà tutto in tutti. È nella preghiera, personale e liturgica, che la sofferenza del mondo incontra la sofferenza divina e ne viene redenta: è in essa che ciascuno può aprire la porta all’Agnello che bussa (cf. Ap 3,20) e gustare con Lui la Cena delle nozze. Esprime questo incontro dell’amore divino con la passione del mondo e della passione di Dio con la ricerca del cuore umano inquieto, il poeta mistico per eccellenza, San Giovanni della Croce (Cántico espiritual, Strofa 15), con parole che - nel succedersi degli ossimori - evidenziano il paradosso del Dio che viene (Mi Amado…), il paradosso della finitudine e del dolore umani (“la noche… la música callada, la soledad sonora”) e il loro abbraccio nell’amore “compassionato”, donato dall’alto e accolto dalla fede nella cena che ricrea ed innamora:

 

¬´Mi Amado...

la noche sosegada

en par de los levantes de la aurora,

la m√∫sica callada,

la soledad sonora,

la cena que recrea y enamora»

 

¬´Il mio Amato...

placida la notte

prossima al levarsi dell’aurora,

la musica taciuta,

la solitudine sonora,

la cena che ricrea e innamora».

mons. Bruno Forte

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