Quale carcere? da Giovani per i Giovani

Del carcere sentiamo parlare dai giornali quando viene data qualche sentenza, o quando succede qualcosa ‚Äòdi grosso' dentro qualche cella, oppure quando qualcuno invoca amnistie... Ma cos'è ORDINARIAMENTE il carcere?

Quale carcere? da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 31 maggio 2006

A volte è facile, feriti dal dolore o arrabbiati dalla violenza accaduta, lasciarsi andare ad espressioni dure, a desideri di vendetta…. “Hanno sbagliato, devono pagare!”. “Devono marcire in carcere! Devono soffrire come hanno fatto soffrire gli altri!”

La domanda che l’opinione pubblica spesso si pone è sulla certezza della pena… ma non potrebbe essere più costruttivo interrogarsi su quanto il sistema giudiziario aiuta a recuperare le persone?

Questo si chiede d. Oliviero Bruno, cappellano del Carcere di Poggioreale (Napoli) nella homepage del suo sito www.solidarity-mission.it . E continua affermando che c’è la presunzione che uno nasca delinquente e che non possa cambiare. Ma a cosa giova alla società se uno quando esce, dopo aver scontato la ‘giusta pena’, anziché aver trovato un luogo di recupero ha trovato ‘una scuola del crimine’ ed esce peggiore di quando è entrato?

Nell’introduzione al libro (Cose dell’altro mondo. Voci dal carcere) che  raccoglie il racconto a più voci sulla vita carceraria quotidiana, don Marco Girardi, cappellano del carcere circondariale di Padova, scrive:

 

 “Cosa dire? Cosa fare? Di fronte a Caino che uccide il fratello o a Davide che manda a morire il suo generale: di fronte ad una classe sacerdotale che uccide il suo profeta o a un popolo intero che crocifigge il Santo: che cosa posso dire? Cosa è doveroso fare? L’uomo è fragile, l’uomo sbaglia, l’uomo non è autonomo ma dipendente. L’uomo deve essere aiutato, sostenuto, ha sempre bisogno!

Un bambino si educa con la famiglia, con la scuola, facendolo crescere dentro una comunità di valori, di bene. Ad un uomo invece è riservata la strada, la vita, la paura, la repressione, la fame il fallimento perché si crede che solo attraverso ‘l’arrangiarsi’  si possa avviare il suo processo di redenzione. Vivendo in carcere con questi nostri fratelli, ho capito che l’uomo si ammala non solo nel corpo e nella mante ma anche nell’anima. Se per il corpo abbiamo inventato gli ospedali e per la mente dei luoghi protetti di cura, per l’anima abbiamo pensato solamente al carcere  […] C’è bisogno di un pensiero nuovo sul carcere ma, prima di tutto, c’è l’urgenza di un pensiero nuovo sull’uomo, più rispettoso della sua integralità e della sua realtà”.

 

Sì, forse si tratta di ripensare all’uomo nella sua integralità, nella sua dimensione di fragilità che spesso tendiamo a negare o a nascondere in un’era in cui conta il successo e la forza. Forse dovremmo ri-conoscere che ciò che ci rende davvero liberi sono relazioni forti, calde. É troppo facile condannare! Dovremmo imparare invece che l’autonomia non va declinata con la solitudine ma con la reciprocità e la solidarietà.

Potremmo credere di più che c’è Uno che può cambiare i nostri cuori di pietra in cuori di carne. Forse… dovremmo accorgerci che siamo semplicemente bisognosi di vita, mendicanti di Amore.

Don Bosco diceva che in ogni giovane c’è un punto accessibile al bene… e ha scelto di stare con i giovani nello stile del sistema preventivo proprio dopo l’esperienza nelle carceri di Torino.

 

 

Questione di umanità !

 

Abbiamo intervistato don Marco Girardi, un prete dagli occhi profondi, segnato dai numerosi incontri con gente ‘di strada’. Un uomo semplice, come le stanze della Fraternità che ha fondato, tanto essenziale quanto evidentemente stanco di tutto ciò che è impegno solo di facciata. Gli abbiamo chiesto di aiutarci ad aprire gli occhi per guardare in modo nuovo ‘la giustizia’.

 

- Don  Marco, cosa fa il cappellano di un carcere?

Cerca di tener vivo il contatto umano. Sostenere l’umanità tra uomini reclusi è essenziale! In questo contesto curare la dimensione umana è evangelizzare. Non c’è evangelizzazione senza buona umanità. Il lavoro che si fa è incontrare, ascoltare, provocare. Tutto ciò che serve per far scattare i sentimenti, lo spirito… insomma provocare!

 

- Chi è il carcerato?

Un carcerato è un uomo malato. La sua malattia, che è nata molto tempo prima, lo porta in carcere come ultimo gradino di un percorso patologico. La malattia è l’incapacità di vivere, di relazionarsi, di affrontare la realtà, di reagire ai fallimenti, di gestire gli affetti. É tutto ciò che è un’umanità ferita. La via migliore non è metterlo dietro delle sbarre: da questo punto di vista il carcere ci porta nella preistoria, non ha niente a che vedere con la civiltà. Dal punto di vista medico abbiamo i frutti del lavoro di millenni nella cura del corpo, siamo arretrati invece nella capacità di curare l’anima. Anche la religiosità si chiude spesso ‘nel sentirsi a posto’ nella sufficienza ‘del rito’. Gesù curava, si prendeva cura. Uno stile capito e vissuto da qualche santo, poi relegato ‘ai santi’, quindi cosa per pochi. Invece è umano! I santi della carità si dipingono sempre con un pezzo di pane in mano: è una cosa banale dar da mangiare ma è essenziale! Ma se noi riteniamo anche questo una cosa eccezionale… perdiamo proprio la dimensione umana.

 

- Quando vai in carcere?

Ogni pomeriggio, un paio d’ore. Faccio colloqui, parlo dal corridoio, un po’ con tutti. Qualcuno si confessa, altri piangono, mi raccontano di loro. Faccio dei gruppi di discussione da sui nascono anche dei libri. Il prossimo che uscirà si intitolerà ‘Antologia del Circo(ndariale)’. E racconterà le vite di numerosi di loro. Il messaggio vuole essere che i detenuti sono delle persone, e non è scontato per molta gente. Mi piace l’immagine del circo: anche il carcere è una farsa, non c’è recupero, e nel circo ci sono le gabbie…

 

- Di cosa ha bisogno un carcerato?

Ha bisogno di giustizia vera, autentica, immediata, veloce, non basata sul denaro. Solo chi può pagare buoni avvocati esce, gli altri rimangono. Giustizia equa, dove non si incarcerano solo i disgraziati, ma tutti coloro che non stanno alle regole, se vogliamo contemplare il carcere.

Un detenuto chiede giustizia. Una giustizia superiore… non quella dei farisei. Da questa ‘vecchia’ giustizia nascono contraddizioni sociali, c’è un divario sempre più grande tra i ceti alti e chi è discriminato.

 

- Cosa ti chiedono soprattutto?

Un aiuto per uscire, una casa per gli arresti domiciliari, di contattare familiari o amici. Di ascoltarli e basta. Hanno un profondissimo rispetto del prete, come uomo di Dio, come uno che rappresenta una realtà vera, autentica.

 

- Come stanno insieme perdono e giustizia?

Sono a braccetto. Il perdono nasce dalla consapevolezza di ciò che è giusto, dal conoscere le dinamiche dell’esistenza umana. La giustizia non è affittiva, punitiva, è amante della verità. E’ meno questione di tribunali e più questione di portare persone alla verità, all’ autenticità. Il perdono è alla base di un processo di giustizia. E non può essere l’inverso. Il perdono è ‘due persone che si vogliono incontrare’, solo poi può partire una relazione diversa.

 

- Alle vittime dei crimini dei detenuti cosa diresti?

É una domanda difficile. Non c’è niente da dire, niente. C’è solo da provare a guardare le cose insieme: con la vittima e con chi ha commesso il reato. E cercare di capire il perché. Non si possono separare le parti: sono vittime entrambe di una situazione più ampia.

Sono convinto che rileggendo insieme (è il tema del perdono) si possa intendere una giustizia più grande.

In certi casi, paradossalmente, quel reato può essere servito: quando un povero va a rubare da un ricco, forse poi nell’incontro entrambi proveranno reciprocamente una profonda vergogna, uno per il proprio squallore, l’altro per dover giustificare tanto possesso.

 

- É possibile rifarsi una vita? A quali condizioni?

É durissimo! Ci vuole un contesto sociale e familiare che sostenga molto. É un prezzo duplice quello che viene pagato: prima quello della detenzione, quantificato in anni, e poi quello dell’inserimento, che è un prezzo enorme, si porta sempre il marchio di ex-detenuto, e ciò condiziona le relazioni, il lavoro, la famiglia. La recidività altissima (80%) è sintomo che la società non assorbe, non vuole queste persone. E devono pur mangiare, dormire, vivere.

 

- In questi tempi si è parlato di amnistia, cosa ne pensi?

L’amnistia non risolve niente. Ma bisogna pur dare segnali di perdono. É inutile bastonare sempre. Il perdono, la fiducia, la capacità di riscommettere nella società non nascono all’improvviso. Devono partire delle politiche sociali più responsabili.

 

-I giornali hanno dato risalto in questo periodo a delitti compiuti da detenuti in semilibertà…

Si sottolineano sempre questi casi. É letteralmente un problema culturale. Non si sa vedere il bene. Si è cechi !

Per esempio a Padova ci sono stati 500 permessi di uscita e non è successo niente. E così nella maggioranza dei casi. La stampa e i mezzi di comunicazione sono un incitamento alla violenza, in modo indiretto ma costante.

 

- Cos’è la fraternità di Betlemme?

É nata sei anni fa, dopo un percorso di anni a servizio di tutte quelle persone ai margini a cui nessuno pensa. La fraternità non è la soluzione a nessun problema, è l’alternativa alla strada e all’emarginazione grave. Propone dei percorsi di vita di fraternità. Le persone che vengono sono accolte gratuitamente e vi rimangono il tempo necessario per la loro ‘ricostruzione’ interiore. Si cura l’inserimento sociale e nel lavoro. Cerchiamo che le varie fraternità siano sempre più autonome e autogestite… per favorire i nuovi ingressi e contenere i costi (che sono altissimi).

 

 

Anche la formazione professionale va in carcere!

 

Anche con Sr. Anna De Zan, presidente del Ciofs/Fp Veneto (l’ente delle Fma che si occupa di formazione professionale), abbiamo parlato di carcere, tra le sue attività si occupa infatti anche di formazione dei detenuti.

 

- Sr. Anna in cosa consistono i vostri ‘contatti’?

Attualmente, abbiamo contatti per la formazione con i carceri maschili di Padova e di Venezia e con il femminile di Venezia (corsi per ‘Operatore di legatoria’, ‘Operatore grafico desktop publishing’, ‘Editoria elettronica e serigrafia’, ‘Pelletteria e orlatura di tomaie’, per i maschili; ‘Orticoltura’, ‘Cosmetica’ per il femminile).

Questi corsi si svolgono all’interno del carcere. Per me i contatti sono indiretti perché mi avvalgo di coordinatori e tutor non dipendenti CIOFS. Questi collaboratori dipendono dalla cooperativa “Rio Terà dei Pensieri” la quale è partner del CIOFS/FP nella ideazione e nella gestione dei progetti. A Padova invece il Ciofs gestisce direttamente ogni fase del progetto: assume gli insegnanti, coordina gli interventi, si occupa del tutoraggio, fornisce l’assistenza informatica. La nostra attività nei carceri di Venezia è terminata nel mese di novembre 2005. 

 

- Perché nei carceri di Venezia non lavorate più?

I corsi si fanno ancora. La Regione Veneto, come ormai tutte le Regioni Italiane, apre i bandi di gara per l’attuazione delle attività, solo ai centri accreditati presso di Lei. La Cooperativa “Rio Terà dei Pensieri”, che da parecchi anni svolgeva attività a favore dei carcerati, con il contributo della Regione Veneto, non essendo accreditata, non poteva partecipare ai bandi. Ora anche grazie alla collaborazione con noi la cooperativa ‘Rio terà dei pensieri’ si è resa completamente autonoma.

É molto importante l’attività di questa cooperativa: infatti attraverso i corsi avvia i detenuti al lavoro interno, dando così loro la possibilità di lavorare e di ricevere uno stipendio, piccolo, ma indispensabile a chi non ha niente.

 

- Chi frequenta  i corsi?

Qui a Venezia al carcere maschile i detenuti che scelgono di seguire il corso sono per il 98% stranieri, al femminile invece sono in prevalenza italiane; anche a Padova la prevalenza è di stranieri.

 

-  Quali sono gli obiettivi?

Prima di tutto togliere i detenuti dalla cella: l’ozio e il rimanere stipati in poco spazio con altri, magari più  smaliziati e corrotti, abbruttisce e rende peggiori;  poi fornire un’occupazione utile e permettere di inserirsi in qualche attività per guadagnare qualcosa per le esigenze fondamentali. I corsi sono mirati, appunto, ad apprendere le competenze minime per essere operativi in qualche attività delle cooperative.

Le ore dei corsi non sono molte  (dalle 200 alle 270 ore per ogni corso) quindi non offrono grandi professionalità, ma rendono i volonterosi subito operativi.

 

- E i problemi pi√π frequenti?

Sono soprattutto tre:

1.           La rigidità e severità del sistema: non può essere altrimenti, trattandosi di un carcere, ma può capitare che il docente e il coordinatore arrivi e trovi gli ambienti per la formazione chiusi per una qualche punizione causata da fatti di indisciplina o altro.

2.           L’insicurezza di condurre a termine un’attività in un Carcere Circondariale per cui la condanna e quindi la detenzione non è definitiva. Oppure perché, per qualche fatto negativo capitato c’è un immediato trasferimento ad altro carcere; oppure per una liberazione inaspettata; o ancora per l’ottenimento di pene alternative al carcere o per la semilibertà per lavoro all’esterno; e altre cause ancora

3.           La difficoltà di far entrare o uscire del materiale necessario alla formazione, a causa di controlli o impedimenti vari

 

I corsi, pur abbastanza brevi come ore, si svolgono in un arco di tempo piuttosto lungo: dai primi di aprile a fine novembre, per cui, per i problemi prima esposti, su una ventina che iniziano il corso, spesso soltanto 6 o 7 arrivano al termine. Questo avviene quando il corso si realizza all’interno del carcere, l’esperienza dello svolgimento all’esterno è diversa.

 

 

- Ci sono state altre esperienze?

L’esperienza più significativa l’abbiamo realizzata negli anni 1999-2000 quando abbiamo realizzato un corso qui nella nostra sede di Mestre che permetteva ai detenuti di venire a lezione, frequentare gli stage e poi inserirsi nel mondo del lavoro. È stata un’esperienza faticosa ma molto bella sia per noi gestori che per gli utenti. In quel caso, nessuno ha lasciato il corsi: per quelli che sono rimasti in carcere, perché approfittavano del vantaggio di trascorre tutto il giorno con i liberi da ‘quasi-liberi’ cioè senza poliziotti alle calcagna; per quelli che nel frattempo hanno terminato la pena perché venivano da liberi.

La riuscita di quel corso mi pare buona: il 50% si è recuperato.

 

- Non è possibile, per chi viene scarcerato terminare un corso in carcere?

Assolutamente no. A parte che nessuno tornerebbe spontaneamente in quell’ambiente sia pure per terminare un corso. Dal momento in cui il giudice sancisce il termine della pena al momento del rilascio deve passare pochissimo tempo. Se non hanno provveduto prima a cercarsi una sistemazione, rischiano di trovarsi sulla strada senza sapere a chi rivolgersi (se sono italiani, se invece sono extracomunitari che non hanno un lavoro e un alloggio il trattamento è più duro).  Anche a me è capitato di ricevere una telefonata in una sera d’inverno, di un ragazzo che conoscevo, che  era appena stato scarcerato e che chiedeva di essere ospiatto per la notte perché non sapeva dove andare.

 

- Ci può raccontare un’esperienza significativa di ‘recupero’?

Ce ne sono diverse, in particolare quella di Fatima, una ragazza extracomunitaria che ha frequentato qui il corso del ‘99-2000 in seguito al quale ha avuto un contratto a tempo indeterminato e un alloggio dignitoso, cosa che le ha permesso di non essere rinviata nel suo paese e di ottenere il permesso di soggiorno. Ora lavora, segue felicemente i figli, si è creata un giro di amicizie. Con lei è stato ‘più semplice’ che con altri: non era tossicodipendente (è quasi una costante il fatto dell’uso della droga: i ‘miei’ 12 corsisti erano tutti tossicodipendenti tranne lei) ma solo spacciatrice che, come tantissime altre, faceva quel lavoro, ingannata dai connazionali e per poter mantenere la famiglia.

 

Ripeterebbe le esperienze fatte fin’ora?

Si e no. Sì, perché stare accanto e servire i detenuti è molto importante, e ne hanno davvero bisogno. E anche noi abbiamo bisogno di vedere e capire come certe persone molto più sfortunate di noi pagano i loro sbagli. No… perché bisognerebbe non fare altro, dedicarsi a tempo pieno…

- Quali prospettive per il futuro? Qualche sogno?

Può essere che quando sarò in pensione mi dedichi a queste attività, me ne occuperei volentieri.

 

 

 

L’arrivo in carcere:

Mi ricordo che era troppo buio… un momento che voglio dimenticare.

Fan

 

Delusione per l’immagine che la mia famiglia avrà di me.

Stanley

 

Dove sono finito? Signore perdonami.

Indrit

 

In cella:

Non fai nulla! Tempo e uomini persi! Non più recuperabili, secondo me. Per i tempi che viviamo, siamo condannati a morte, o meglio, a  vita!

Indrit

 

Trascorro 20 ore chiuso in una cella 2x4. Siamo in 3 persone… ognuno di noi impara a gestire i suoi spazi e i suoi svaghi.

Giovanni

 

… anche i servizi igienici sono nella cella

Ho perso la mia intimità non posso nascondere niente.

Fan

 

Purtroppo vuoi e non vuoi, è una cosa alla quale ti devi abituare, e questo ti incrudisce dentro.

Giuseppe

 

La partecipazione alla Messa

Ogni sabato vado a Messa per ascoltare la parola di Dio che mi fortifica nella fede. Ho capito che l’uomo non vive di solo pane.

Fernandes

 

Pregare è la chiave per la nuova vita. Padre nostro che sei nei cieli, venga il tuo regno in tutto il mondo.

Michael

 

 

Da: Cose dell’altro mondo. Voci dal Carcere, a cura dei detenuti della casa circondariale di Padova.

 

sr Francesca Venturelli

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