Quali antidoti al virus del razzismo?

«Gli italiani sono diventati razzisti?»: è una domanda ricorrente in questo periodo... Mi sentirei di affermare che no, gli italiani non sono diventati razzisti. Contemporaneamente, però, vorrei segnalare quattro condizioni, quattro prospettive culturali...

Quali antidoti al virus del razzismo?

da Attualità

del 26 agosto 2008

«Gli italiani sono diventati razzisti?»: è una domanda ricorrente in questo periodo. È certo che alcuni recenti episodi hanno evidenziato il rischio di una deriva razzista di segmenti della popolazione italiana. Nonostante questo mi sentirei di affermare che no, gli italiani non sono diventati razzisti. Contemporaneamente, però, vorrei segnalare quattro condizioni, quattro prospettive culturali che, se non adeguatamente controllate, potrebbero esporre al virus sempre in agguato del razzismo e della xenofobia.

 

 1) Dimenticare il proprio passato. Da terra di emigrazione, l'Italia è diventata terra di immigrazione. Ma come evitare che si creino logiche di scontro e di inimicizia? Alla base della legislazione dell'antico Israele c'era la memoria della schiavitù in Egitto: si arrivava così a definire «obbligatorio» l'atteggiamento di protezione e di accoglienza verso l'immigrato. Fare memoria della propria sofferenza era l'antidoto al rischio di ripercuotere su altri la violenza a propria volta subita.

Dimenticare il nostro passato rende fragili le nostre identità e ingigantisce le nostre paure, mentre la memoria della sofferenza, del male conosciuto da noi e dagli altri, potrebbe consentirci di produrre una cultura di accoglienza e di solidarietà. Vivere senza memoria, quella di essere stati per molti anni un popolo di emigranti, ci espone al rischio di legittimare una visione razzista della realtà.

 

 2) Coltivare la ricerca del capro espiatorio. Si tratta di un meccanismo ricorrente nella storia dell'umanità: in tempi di precarietà e di insicurezza il sentimento popolare si concentra sull'ultimo anello della catena per scaricare su di esso paure e frustrazioni. Accadde nella Roma di Nerone, quando i cristiani furono accusati dell'incendio che lui stesso aveva appiccato. Accadde nella Milano dei Promessi sposi, quando si diffuse la notizia che la peste era causata da un gruppo di criminali untori, su cui si scatenava l'ira della popolazione. Accadde nella Germania del Terzo Reich, quando si voleva dimostrare scientificamente (!) che tutto il male veniva da una razza dichiarata inferiore, quella degli ebrei. E siccome è già accaduto, può ancora accadere.

 

 3) Emanare leggi che inducono all'abbinamento tra immigrazione e criminalità. Mentre scrivo, sono ancora vive le polemiche relative al cosiddetto «pacchetto sicurezza», con particolare riferimento al reato di immigrazione clandestina. Al di là di ogni considerazione circa la sua legittimità e la sua reale efficacia, occorre sottolineare il rischio di una semplificazione che porti ad abbinare immediatamente immigrazione clandestina e criminalità, senza tenere conto dei motivi che conducono un immigrato a essere clandestino, motivi che possono essere legati a progetti criminosi - e che dunque vanno perseguiti con severità -, ma anche alla disperazione di chi fugge da persecuzioni e miseria, se non addirittura alla farraginosa normativa italiana.

 

 4) Sostenere un concetto errato di integrazione. Il rapporto di un Paese con coloro che vi arrivano come ospiti deve basarsi su un corretto concetto di integrazione affinché i cittadini sappiano relazionarsi con l'atteggiamento giusto con coloro che, se ancora non possono definirsi formalmente concittadini, di fatto sono portatori dei diritti propri di ogni essere umano.

Quale modello d'integrazione auspichiamo dunque per l'immigrazione straniera in Italia? Non sono accettabili né il modello assimilazionista, che significa rendere gli immigrati simili a noi negando le loro differenze; né il modello sottomissorio, cioè relegare gli immigrati a svolgere mansioni ben precise, rifiutate dagli italiani; e neppure il modello tollerante (o ghettizzante), in cui non si nega l'esistenza degli immigrati, ma si auspica che ciascuno rimanga quello che è. Sostenere questi modelli espone alla diffusione di sentimenti di superiorità forieri di discriminazioni razziali.

L'integrazione che auspichiamo è quella della interculturalità, che punta alla costruzione di un mondo comune, di una sfera pubblica in cui tutte le diversità (etniche, religiose, culturali, ecc.) si ritrovino. Diventa necessario favorire l'identificazione di una «base comune», di un minimo comun denominatore che scaturisca non da un'imposizione autoritaria, bensì da uno schietto e certamente faticoso confronto culturale. L'interculturalità è un processo tutt'altro che a buon prezzo: ci costerà caro, ma francamente non ci sono altre strade ragionevoli per guardare al futuro.

don Roberto Davanzo

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