Quarto Commento

QUARTO COMMENTO

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15, 1-3.12-32)

 

Il vangelo racconta che un giorno si sono avvicinati a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, e i farisei e gli scribi mormoravano su Gesù che non era giusto che lui ricevesse i peccatori e mangiasse con loro. Stare con quelli che chiaramente facevano una vita contraria a quello che Dio aveva indicato era evidentemente sbagliato, quelli andavano lasciati perdere e lasciati alla loro sorte: Dio disprezza la gente che non fa quello che Lui dice, e prima o poi li castiga. È meglio starci lontani, dare un segnale chiaro di non volerci stare insieme e soprattutto per non farsi prendere dentro quella vita cattiva (loro dicevano: non farsi contaminare; noi diciamo: non farsi tirare dentro).

Gesù mangiava con i farisei (Lc 14, 1) ma mangiava e stava volentieri insieme anche a tutti i pubblicani e i peccatori, anzi li invita a casa sua (Lc 15, 1). Questo è inaccettabile e scandaloso. I pubblicani erano ebrei traditori, riscuotevano le tasse a nome e per conto dei romani e si tenevano il “pizzo”. Diventavano molto ricchi a danno degli altri ebrei. Insomma sembrano avercele un po’ tutte, come gli altri peccatori: sono gente che ruba, imbroglia, approfitta, non rispettano gli altri fratelli, fanno prepotenze e ingiustizie, non pregano…). Uno che mangia con la gente “cattiva” non può venire da Dio. Allora per giustificare il suo comportamento Gesù racconta questa parabola.

Se siamo sinceri fino in fondo, possiamo ammettere che queste persone non sono tanto diverse da ogni persona: è difficile vincere l’orgoglio che ci fa sentire meglio di altre persone, magari diciamo che facciamo del male, ma non così tanto come altri. Alle volte abbiamo anche l’impressione di non essere cattivi, e che le cose che non vanno nel nostro comportamento o non sono gravi, o comunque sono quelle che fanno tutti. Se poi ci dicono che siamo “peccatori” (parola che non ci piace nemmeno tanto e che ci offende perché sembra esagerata e un medievale) possiamo anche arrivare a sentire giusto fare qualche cosa di cattivo ogni tanto, quando ci vuole, per non essere proprio maltrattati, per non farci mettere i piedi in testa.

Nel vangelo che stiamo leggendo i farisei e gli scribi vivono proprio questi sentimenti: si sentono comunque migliori di molte altre persone che evidentemente fanno cose sbagliate. È per loro che Gesù racconta la storia di questo padre e di questi due figli, e per mostrare com’è fatto il nostro cuore. La cosa che sta più a cuore al Signore è che quando pensiamo di essere tutto sommato giusti falsiamo completamente il nostro rapporto con Dio Padre: Lui a differenza nostra ama tutti, immeritatamente, gratuitamente e immensamente, e davanti a Lui tutti ci scopriamo sinceramente poveri peccatori e senza alcun “merito”, e visceralmente amati e sempre perdonati.

La parabola inizia. Un giorno il figlio più giovane di un ricco proprietario terriero va dal papà e pretende la sua parte di eredità. Senza dire una parola divide i suoi beni tra i suoi due figli, come dice la legge. Il papà gliela da senza opporgli alcuna resistenza. È una cosa che, se ci pensiamo bene, comincia a mettere in discussione molte convinzioni che abbiamo sul Signore. Una eredità infatti non la chiedi, ti arriva, e arriva quando il papà è morto, non quando è vivo. Il figlio che chiede al papà l’eredità è una persona che tratta il padre come fosse morto, lo tratta da morto vivente. Non ci pensiamo a questo quando leggiamo la parabola, ci passiamo sopra, perché è francamente molto difficile da reggere emotivamente: Gesù ci sta dicendo che c’è la possibilità che una persona tratti Dio Padre come un morto nella sua vita, uno da far fuori e, una volta neutralizzato, a cui “strappargli” tutte le cose che ci sembra giusto avere per la nostra vita. Siamo un po’ tutti convinti che per ottenere le cose che vogliamo ci vuole come un atto di forza, qualcosa che convinca o forse costringa Dio ad aprire mani e cuore: un sacrificio, una preghiera, un fioretto… bisogna fare delle cose per ottenere i suoi favori, altrimenti Dio evidentemente, con le semplici preghiere, non ci da niente.

La prima ragione per cui il figlio più piccolo decide dunque di abbandonare in fretta la sua famiglia è che egli “vede” nel papà una specie di tiranno, geloso dei suoi averi, che impone i suoi desideri suoi figli, e non gli permette di fare quello che si vuole. Abbiamo tanti bei desideri, vogliamo stare in salute e godere delle cose belle che la vita ci da. Il tempo è sempre breve e non vogliamo perdere le occasioni migliori, non è giusto accontentarsi se si può avere qualche momento bello e qualche piacere in più.

Il giovane parte per un paese lontano. Taglia con la famiglia e con la sua gente, si stacca dalle “tradizioni” religiose e dallo stile di vita in cui era stato educato, e va ad abitare tre i pagani, che allevano maiali (gli animali più “impuri” secondo la legge, Lv 11, 7). È l’immagine dell’allontanamento da Dio, del rifiuto, carico di sfiducia, di tutto quanto viene dal Signore, della vita morale che il Signore ispira e della scelta di una vita dove una persona è libera di fare tutto ciò che desidera.

Lontano dalla casa del Padre però il ragazzo fa esperienza che, mettere come regola della propria vita fare ciò che si desidera produce un graduale logorio dei rapporti. Per alimentare i legami e non consumarli un po’ alla volta è necessario curare le persone, mantenere le promesse e gli impegni che fanno sentire gli altri importanti e considerati, mettere a disposizione le proprie fatiche per veder fiorire le capacità e i sogni di chi ci sta vicino, impiegare il tempo coltivando interessi comuni. Quando questo non avviene perché si sta insieme con il patto che ognuno deve  poter mettersi in gioco quando se la sente e gli va bene, si può fare facilmente l’esperienza che gradualmente si indeboliscono i nostri amori e le nostre amicizie, possono diventare meno vere e meno significative, qualche rapporto rilevante può anche rompersi e produrre ferite serie e durature, e sempre meno persone hanno a cuore le une delle altre in maniera importante. Chi si allontana dall’amore donato, che è il marchio dell’amore di Dio, e si abbandona all’amore tutto umano fa esperienza, presto o tardi, dell’egoismo bruciante. Chi non inserisce l’antidoto dell’amore che dona, sperimenta con dolore che il cuore umano restituisce aridità e orgoglio. Non è un paradiso senza Dio, ma piuttosto si vive l’esperienza che senza Dio ci sono soltanto le povertà radicali del cuore umano. Il risultato di questo stile di vita è che a nessuno interessa molto di lui. Lo mettono a fare cose umilianti, pascolare i maiali, che gli tocca di fare, per restare nel giro e stare a galla. E sente fame: fa pensare che l’esito delle sue scelta sia che alla fine si è fatto terreno bruciato di relazioni vive ma lui, abituato a curarsi di sé, riesce a sentire solo i suoi bisogni e lo stomaco da riempire. Chi si abitua a pensare a se stesso non si accorge o accetta che la gente non abbia un vero rapporto con lui, gli basta qualcosa per riempirsi.

Allora rientrò in se stesso. Molti possono dare a questa espressione un taglio positivo: gli è andata male, ma gli è servito da lezione, gli è servito per rientrare in se stesso, cioè riflettere e capire che ha sbagliato, pentendosi e decidendosi di tornare a casa dal papà a chiedere scusa. Ma se leggiamo attentamente i vv. 17-19 è evidente che la preoccupazione del ragazzo non è il dolore che ha dato al padre, ma la fame. Nelle sue parole non c’è nessun pentimento e nessun dispiacere per le sue scelte e il suo stile di vita. Il ragazzo non ritratta minimamente le cose che ha fatto e non gli viene in mente di andare dal papà a chiedere scusa perché l’ha fatto stare male e lo ha preoccupato. La sua unica preoccupazione è di trovare un pezzo di pane. E anche il suo “bel discorsetto” che prepara e che ha intenzione di recitare all’arrivo a casa ha un solo scopo: commuovere e impietosire il papà e convincerlo a riprenderlo a casa per avere da mangiare. Non c’è niente di lui che ci faccia pensare che si sia pentito. Semplicemente si prepara un discorsetto e se lo ripete, come un grande attore, lungo la strada del ritorno a casa: vuole commuovere il papà e convincerlo a dargli da mangiare.

Quando lo vede da lontano, il papà non dice nemmeno una parola. La sua reazione di fronte al foglio che ritorna è descritta con cinque azioni, uno dei versetti più belli di tutta la Bibbia.

  • Lo vide da lontano. Il papà lo sta aspettando.
  • Si sentì sconvolgere le viscere. Il verbo greco spangkizomai indica una emozione così intensa e profonda da essere percepita anche fisicamente nelle “viscere”. È il sentimento di una mamma verso il figlio che porta in grembo. È la commozione più intima e più forte che c’è. Questo verbo nel Nuovo Testamento comare solo nei vangeli (12 volte) ed è sempre riferito a Dio o a Gesù: questo vuol dire che soltanto Dio è capace di provare questa forma di amore.
  • Si mise a correre. Un gesto che gli viene senza pensarci, è una reazione poco dignitosa per una persona ricca e importante, l’emozione ha fatto perdere il controllo delle reazioni, agisce ascoltando solo il cuore.
  • Gli gettò le braccia al collo. Letteralmente gli calle sul collo che è molto più che abbracciare. È un gesto scomposto, che ha perso ogni etichetta, quello che esprime è una intensa vicinanza, di chi stringe la persona a sé, la bacia e la tiene stretta.
  • Non smetteva di baciarlo. Non è il bacio composto dato all’ospite quando viene a farci visita, il bacio di cortesia, ma è il segno dell’accoglienza di una gioia incontenibile e irrefrenabile. E con questo gesto il papà impedisce al figlio di inginocchiarsi.

Di fronte alla reazione del papà il figlio va avanti con il suo proposito, non si scompone, non accenna minimamente a lasciarsi commuovere a sua volta, prende lucidamente la parola, e comincia a “recitare” il suo soliloquio che aveva preparato, recita la sua confessione. La cosa impressionante è che… non riesce nemmeno a concluderla perché il padre non gliela lascia finire, sul punto dove deve dire trattami come uno dei tuoi garzoni il padre lo interrompe e comincia a dare ordini. Il ragazzo, che pensa al pane da mangiare, è ancora disposto a perdere il rapporto da figlio, non gli interessa di riprendere il rapporto da padre a figlio, forse gli va anche meglio essere trattato come uno dei tanti garzoni del padre (piuttosto che chiedere scusa, mettere da parte l’orgoglio, cercare di modificare un atteggiamento che ha assunto e che mortifica il papà e riprendere a “vivere da figlio”).

Le disposizioni che il papà hanno invece un richiamo chiaro e un significato preciso.

  • Al figlio deve essere consegnata una veste lunga, la migliore quella usata per le feste, per gli ospiti di riguardo. Dio reintegra nella sua famiglia con tutti gli onori colui che ritorna.
  • L’anello al dito. Non è un anello qualunque, è l’anello che portava il sigillo della famiglia, quello con il quale si apponeva la “firma” negli atti ufficiali. Al giovane viene ridata l’autorità sui servi e il potere sui beni del padre. Altro che garzone. È come se, per il papà, nulla fosse stato sperperato: il figlio può disporre ancora di tutta l’eredità che sembra essere inesauribile.
  • I sandali ai piedi. Sono il segno dell’uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi.

Nella sua casa Dio non desidera servi, ma persone libere (Gv 15, 15). Per questo (si notino i dettagli) il papà interrompe la confessione del figlio prima che dica di essere disposto a trasformarsi in un dipendente (è inimmaginabile il dolore di un papà che si sentisse dire dal figlio una cosa del genere), poi ordina che sia consegnato al figlio la lunga veste, non quella corta usata dai servitori, e infine i sandali: davanti a Dio non stiamo da garzoni, che giravano a piedi nudi. Il papà non vuole essere temuto o servito, desidera essere liberamente amato.

La prima parte della parabola si conclude in modo scandaloso e i farisei che stanno ascoltando iniziano a capire. Agli ebrei veniva insegnato che Dio concedeva il suo perdono a chi era sinceramente pentito e mostrava il suo desiderio di cambiamento con digiuni e penitenze. Il papà invece prepara subito una festa. Il Dio di cui Gesù vive l’esperienza è ben diverso da come lo conoscevano i farisei: prepara una festa e un banchetto bellissimo per chi non lo merita. Dio fa festa per i peccatori senza aspettare che siano pentiti, anche se non sono sinceramente decisi a cambiare vita. Li accoglie senza fare domande o esigere quello che noi tutti esigiamo come minima premessa per ripartire, quando ci hanno ferito e maltrattato.

È questo il punto di scontro radicale fra i farisei e Gesù. Se i peccatori che Lui incontra fossero pentiti non ci sarebbe problema: si perdona a chi riconosce di aver sbagliato e promette di non farlo più. La reazione dei farisei è perché Gesù è amico dei pubblicani e delle prostitute che non si sono convertiti, che non hanno nessuna intenzione di cambiare. Nel comportamento di Gesù, Dio Padre mostra i suoi sentimenti: Egli non ama sono i giusti e i peccatori pentiti. Vuole bene a tutti, sempre e senza condizioni. E chiede a noi di amare anche chi ci fa del male. Non ci dice di amare i nemici che si pentono e ci chiedono scusa, ma di volere e di fare il bene anche se continuano a farci del male. Esige questo comportamento perché il Padre fa così fa (fa sorgere il sole sui giusti e i cattivi, dice Mt 5, 44).

È inevitabile che ci venga una domanda. Ci viene da chiederci se Dio vuole bene anche a chi è cattivo, perché allora impegnarci per comportarci bene.  Per rispondere a questa domanda Gesù racconta la seconda parte della parabola (vv. 25-32). Vediamo che tipo è il figlio più grande.

Arriva dal lavoro dei campi e trova una sorpresa: musiche e danze, una festa in corso. Non è stato avvisato e non ne sapeva nulla. Chiama un servo e si fa dire ciò che sta capitando (il greco usa l’imperfetto si informava, che indica una azione prolungata). Il servo gli spiega per bene, nei dettagli la cosa. È così allibito che non crede ai suoi orecchi. Non sono non ne sa niente, non solo non è stato nemmeno invitato, ma è allucinante chi si sta festeggiando e il modo fantastico in cui viene festeggiato. Si arrabbia molto e la sua arrabbiatura sembra più che motivata: è la reazione logica di una persona fedele e che ha avuto un comportamento impeccabile e che si trova davanti ad una situazione di palese ingiustizia.

Il padre esce a supplicarlo (anche qui il verbo è all’imperfetto, lo supplicava più e più volte, con insistenza) chiedendogli di entrare. Allora il figlio più grande gli rinfaccia i suoi “meriti”: non ha mai trasgredito un comando del papà, ha sempre fatto tutti i servizi che gli ha chiesto. Sono parole dette senza rispetto, ma sono tutte giuste e vere. Nessuno di noi non le condivide. Così ragionavano i farisei e gli scribi, ma così ragioniamo anche noi. Dal punto di vista teorico pensiamo che Dio ha il diritto di fare quello che vuole delle sue cose, si riceve tutto da Lui e gratuitamente, ma in fondo si continua a pensare che i giusti abbiano “diritto” ad una “ricompensa” da parte di Dio, che i premi Dio deve darli a chi si impegna e se li guadagna e chi non li merita va messo fuori.

L’attesa della punizione di chi fa il male nasce dalla convinzione che chi fa i peccati è un furbo che se la gode: per questo è invidiato, suscita gelosie e ci si aspetta che venga punito. Non si pensa che la sua vita sia carica di sofferenza. Seguire la realizzazione de i propri desideri come principio di vita fa sperimentare l’angoscia e la disperazione, non la vita gioiosa, focalizza sulla povera attenzione ai propri bisogni (“io qui muoio di fame”), non all’impoverimento della vita relazionale e dello scambio amoroso.

Questo fratello più grande è impeccabile. Non sbaglia mai. Non commette mancanze. Purtroppo però non ha sperimentato che il papà non vuole servi che non commettono mancanze ai suoi ordini, ma figli. Il figlio minore per 5 volte usa la parola padre, sa di aver ricevuto gratuitamente e senza nessun merito, è convinto di non poter avanzare pretese di nessun tipo. Non si pente di niente, ma sa che non è giusto. Il figlio più grande non usa mai la parola padre. Mostra così di non sentirsi figlio, ma piuttosto un “servo”, uno “schiavetto” che si sente usato a piacimento dal papà per fare i lavori. Il papà per lui è come un capo. Questo modo di vedere il papà gli fa vedere male anche il fratello minore (“questo tuo figlio”, lo chiama, non “mio fratello”). Il papà resta male di questo modo di vivere il rapporto con lui, ma con molta finezza, senza farglielo pesare, lo corregge: “questo tuo fratello”.

La parabola non ha una conclusione. Gesù non conclude infatti, non ci fa sapere cosa è successo alla fine di questo dialogo. Non sappiamo se il figlio più grande sia entrato alla fine a festeggiare e se il figlio più piccolo si è poi pentito, o sia invece peggiorato. Siccome la parabola racconta la nostra storia e in ognuno di noi sono presenti i due figli, non è difficile immaginare ciò che è successo. Il figlio più grande è di sicuro entrato alla festa. È troppo abituato ad obbedire. Non gli viene di opporsi a un desiderio del papà, anche se nel suo intimo c’è la segreta speranza che presto tutto torni come prima. Da un lato intuisce che è vissuto per tanti anni accanto a suo papà e non lo ha capito, dall’altro non riesce ad accettare la novità, non riesce a rinunciare alla sua convinzione che va premiato chi se lo “merita”. È difficile per lui rinunciare anche al compiacimento per i suoi “meriti”, sentirsi tutto sommato a posto perché non sgarra tanto. Continuerà a pregare e fare le buone azioni, ma criticherà sempre nel suo cuore duramente coloro che parlano della gratuità dell’amore di Dio e della salvezza di tutti gli uomini: sentirà questo qualcosa di “ingiusto” verso chi si comporta come Dio comanda. Il figlio più piccolo invece sarà sempre attratto dal pensare che si può godere di più se si lascia stare il padre e la sua vita. Sarà sempre per questo guardato con disprezzo e supponenza dal fratello più grande, e sempre accolto dal papà con tenerezza. Ogni volta che uno dei due fratelli “esce”, la festa si interrompe, e può continuare solo quando tutti i figli sono dentro.


 

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