La Fao ha richiamato i governi a riconoscere nella lotta alla fame una «priorità politica» e il suo appello è condivisibile a patto che ci si renda conto che la politica degli aiuti è indispensabile ma non sufficiente...
del 15 dicembre 2008
La fotografia della fame nel mondo scattata dalla Fao ha la peculiarità di infondere la stessa angoscia dell’Urlo di Munch ma anche quella di dissolversi, subito dopo, come un vecchio dagherrotipo.
 
L’ultima denuncia resa nota ieri – un miliardo di affamati e un fabbisogno di trenta miliardi di dollari, che si potrebbe coprire tagliando qualche 'per cento' dai sussidi all’agricoltura, o dalle spese in armamenti – è in linea con il crollo delle Borse, con i saldi prima di Natale. Nelle more della crisi si potrebbe pensare che, in fondo, è normale: stanno tutti peggio e quindi anche i poveri hanno più fame di prima.
 
Lo scriviamo con crudezza, la stessa della realtà, perché è alto il rischio che delle statistiche sciorinate ieri dal direttore generale dell’organizzazione, Jacques Diouf, tra qualche giorno resti solo questo ricordo autoassolutorio. L’urlo di Diouf ci pare angosciante quanto, purtroppo, scontato: l’analisi e la tesi sono le stesse del vertice di Roma, che lo scorso giugno si era dato questo obiettivo per disattenderlo, dopo aver già mancato il traguardo 'storico' di dimezzare la fame nel mondo entro il 2015, che era stato fissato nel ’96 ed è ormai fuori dalla nostra portata. Tutto ciò Diouf lo sa bene e se lancia un allarme stile Munch non è per processare la cattiva coscienza dei Grandi ma per evitare che la crisi globale li induca a ritenere che l’emergenza fame è un problema talmente ingovernabile che non vale neanche la pena di tentare di governarlo. Il Papa ha chiarito che questa deriva sarebbe inaccettabile per chi vuole essere «sentinella» dei diritti, ma l’esperienza di questi ultimi mesi, con l’intrecciarsi di carestia, caos e violenze, dimostra che continuare a voltare le spalle sarebbe un errore anche sul piano economico e politico. Pur avendo qualche responsabilità, in termini di diseconomie ed inefficienze che la recente riforma interna punta a superare, la Fao ha richiamato i governi a riconoscere nella lotta alla fame una «priorità politica» e il suo appello è condivisibile a patto che ci si renda conto che la politica degli aiuti è indispensabile ma non sufficiente. Quando un popolo ha fame – è chiaro – bisogna sfamarlo prima che abbia imparato a coltivare la terra, ma per rilanciare la macchina della solidarietà internazionale occorre, parallelamente, restituire un governo al mondo dell’economia, una guida legittimata a chiedere il sacrificio di qualche 'per cento' nella consapevolezza che – finalmente – raggiungerà l’obiettivo prefissato. Per quanto alla Fao usino ripetere che i due ambiti non sono interdipendenti, senza una riforma del sistema del commercio internazionale e della finanza – che hanno abbandonato il mondo tra le braccia della paura – non si restituisce al Pianeta la fiducia su cui poggiano il credito, gli scambi, la crescita e quindi anche i bilanci pubblici che finanziano la solidarietà internazionale. Le occasioni per trasformare la crisi in un’opportunità non mancano, ma vanno affrontate a viso aperto, senza nascondersi dietro vecchie bandiere ideologiche. Una di queste occasioni è il negoziato Wto sul commercio, dal cui esito dipendono tra l’altro la redistribuzione della ricchezza e riforme sociali decisive per un mondo solidale, come il rispetto dei diritti dei lavoratori e quelli dell’ambiente nei Paesi in via di sviluppo. Si sa che l’elezione di Obama rilancerà il negoziato ma non dove lo porterà, né a chi gioverà l’ulteriore liberalizzazione di dazi e tariffe che sarebbe in gestazione. Dopo aver creduto alla favola della globalizzazione e aver letto i dati della Fao, ci pare legittimo chiedere a chi ci governa cosa comporteranno questi negoziati, in termini di sviluppo sostenibile e di governance dei processi mondiali.
 
Paolo Viana
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