Dopo le recenti vicende di cronaca registrate in varie scuole... Non deve perciò sorprendere se è emersa come prima emergenza nazionale non il debito pubblico o la riforma della legge elettorale, o qualche altro annoso e gravoso problema economico o politico, ma proprio l'educazione.
del 16 marzo 2007
La fila degli episodi di violenza che da tempo si segnalano nelle scuole italiane è ormai lunga e di difficile ricostruzione. Se la violenza registrata è avvenuta finora tra alunni e coetanei, dando luogo ad un ampio dibattito sul fenomeno del bullismo (cf. Sett. n. 43/06, p. 7), quella apparsa sulle cronache delle recenti settimane ha visto protagonisti gli adulti. Come il preside di una scuola di Bari picchiato dai genitori a causa della brutta pagella consegnata a una ragazzina di 14 anni incinta e a cui egli aveva consigliato di partecipare a corsi serali per non perdere troppe ore di scuola.
Un episodio affatto isolato, che sempre di più si ripete nelle scuole italiane, indice di un malessere molto diffuso non solo nella scuola anche se è da essa che emerge il segnale di maggiore preoccupazione. «Una crisi del vivere civile», l’ha definita il ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni, dovuta a un totale mancato riconoscimento di norme e valori condivisi che, soli, pongono le premesse della convivenza.
 
 
Una scuola inadeguata
 
Siamo dunque di fronte a un “grado zero” del vivere civile? O è “solo” il segnale di un malessere profondo che da tempo investe il mondo educativo? Molto probabilmente entrambe le cose. Anche perché l’ambito educativo, per sua natura, ha a che fare moltissimo con i comportamenti civili, con la capacità di dar luogo ad atteggiamenti virtuosi in grado di fare da collante sociale. Tali comportamenti entrano in crisi perché entrano in crisi, cioè non sono riconosciuti più come tali, i valori su cui essi si fondano.
Non deve perciò sorprendere se, nel primo rapporto nazionale sullo stato dell’educazione italiana promosso dalla Fondazione per la sussidiarietà, presentato in un convegno a fine gennaio a Roma alla presenza del ministro Fioroni, è emersa come prima emergenza nazionale non il debito pubblico o la riforma della legge elettorale, o qualche altro annoso e gravoso problema economico o politico, ma proprio l’educazione. È il 61% degli intervistati ad affermarlo, mentre un altro 35% la colloca ai primi posti tra le emergenze. Una scuola di qualità viene ritenuta fondamentale per colmare i vuoti causati da questa emergenza. Il fattore vincente per avere una scuola di qualità sta nei docenti per il 55% delle famiglie. Lo stesso pensano imprese e istituzioni che, all’incirca nella stessa percentuale, indicano nella preparazione dei docenti l’aspetto principale per avere una scuola di qualità.
Obiettivo della scuola dev’essere “istruire ed educare”: lo pensa l’82% degli intervistati e l’84% delle imprese coinvolte nella ricerca, che affidano alla scuola questo doppio obiettivo; un dato, quest’ultimo, che indica come anche dal mondo produttivo arrivi la richiesta di una scuola che formi cittadini e non solo lavoratori per il mercato del lavoro. Solo l’11% delle imprese e il 13% degli intervistati ritiene che compito primario della scuola sia “addestrare a un lavoro”. Interessante sono anche le risposte date alla domanda sui principali difetti del sistema. Per il 43% delle famiglie stanno nella scarsa qualificazione dei docenti e, per il 20%, nell’assenza di incentivi.
Dal rapporto emerge una percezione della scuola come “inadeguata alle esigenze dei giovani e della società”. Una inadeguatezza cui concorre anche un'altra caratteristica della scuola italiana, quella di avere docenti molto avanti con l’età. Solo lo 0,6% – praticamente nessuno – ha meno di trent’anni. La media si attesta sui cinquant’anni, la più alta a livello europeo. Una questione anagrafica che ha certamente un suo peso nel segnare la distanza tra la scuola e gli adolescenti che la frequentano.
Stanchezza, frustrazione e incomunicabilità con le nuove generazioni sono pane quotidiano per migliaia di docenti che, quando va bene, giungono solo alla soglia dei quarant’anni ad avere un posto fisso in una sede vicina a casa, dopo anni di precariato e di spostamenti di ogni genere. Si arriva stanchi ad un appuntamento in cui lo stimolo e la passione per un lavoro che si è scelto dovrebbe vedere insegnanti appassionati. Questi sono elementi strutturali della scuola italiana che, anche le più recenti riforme, non sono riuscite ad eliminare del tutto.
Il problema che oggi si pone con urgente attualità è la crisi della funzione educante della scuola, proprio quella che si vorrebbe vedere pienamente realizzata. Non è, cioè, tanto il “come” si fa scuola, ma il “perché” la si fa. Chi vi lavora quotidianamente e vi ha investito la sua vita professionale, da tempo denuncia questa situazione. La lettera di un insegnante di liceo della periferia di Milano, pubblicata il 6 marzo su Avvenire, è rappresentativa di un malessere diffuso, è la stessa che potrebbe scrivere chiunque svolga questo mestiere.
 
 
Riscoprire il  “fare scuola”
 
«L’origine di queste reazioni violente non è la decisione di non rispettare le regole, ma il fatto che dentro la scuola ci si abitua a fare tutto senza un perché, senza una passione, senza un interesse – scrive questo docente, andando senza infingimenti al nucleo della questione –. Il dramma è che questo non riguarda solo le situazioni dove accade qualcosa di grave, ma anche dentro le scuole dove tutto sembra normale accade di far tacere i desideri di ogni ragazzo». È dalla mancanza di tener vivi ogni giorno l’interesse e i motivi più profondi per quello che si fa che nasce, silenziosamente ma sempre più diffusamente, un malessere destinato, se non adeguatamente prevenuto e arginato, a divenire sistema. «La violenza è solo la punta dell’iceberg – continua il nostro professore –. Ciò che si fa in classe non interessa la vita. È questo il grande problema della scuola». Occorrerebbe, dunque, affrontare la grande domanda di senso che emerge dal contesto attuale e che gli alunni, anche se non esplicitamente, chiedono.
Ancora una volta la responsabilità ricade sugli adulti, non consapevoli o volutamente non disponibili a mettersi in gioco, a interrogarsi sul loro operato, a rivedere i motivi di base che li hanno spinti a quella professione. Se, dentro la scuola, chi vi lavora è chiamato a questa seria introspezione, gli adulti che sono fuori, cioè i genitori, sono chiamati a fare altrettanto, a responsabilizzarsi, a svolgere la funzione educante che è loro propria, ma anche a interagire in maniera sostanziale con la scuola.
Accade invece il contrario, e cioè che «più la famiglia è in crisi, più si mostra esigente nei confronti del sistema dell’istruzione». Ne è convinto Gaspare Barbiellini Amidei (La Nazione, 5/03/2007), che evidenzia come di fronte a qualsiasi autorità con cui il giovane viene a scontrarsi (il docente a scuola ma anche il vigile per la strada, solo per fare un esempio) il genitore dà sempre ragione al figlio, lo giustifica, lo dipinge sempre come “un bravo ragazzo”. Non siamo, dunque, di fronte a una famiglia capace di far crescere i propri figli anche attraverso dei sani “no” ma di fronte a una sua deriva, a un «familismo deteriore – continua il giornalista – che danneggia le giovani generazioni, sottrae ad esse il radicale diritto di avere delle guide, e non solo delle pasticciate amicizie. Sono relazioni pasticciate perché un padre che si maschera da amico-complice impedisce al giovane una crescita serena ed equilibrata».
 
 
Comunicare tra scuola e famiglia
 
Un’opinione condivisa soprattutto da chi nella scuola vi lavora credendoci. Come Giorgio Rembado, responsabile dell’Anped (Associazione nazionale dei presidi e dei dirigenti scolastici), convinto che «buona parte degli atti violenti è generata dalla disgregazione familiare, a genitori, spesso single, in affanno, che cercano di conquistare l’affetto dei figli assecondandoli anche nelle cose più assurde».
La crisi dell’autorevolezza scolastica si risolve riattivando un confronto con le famiglie circa gli obiettivi formativi, che anche le famiglie devono far propri.
Se, da sempre, si auspica una collaborazione stretta tra scuola e famiglia, mai come oggi ridefinirne gli obiettivi condivisi diviene una urgente necessità. Invece, dopo la fiorente stagione degli organi collegiali, i genitori partecipano in maniera residuale alla vita che si svolge all’interno degli istituti. Riattivare i canali di reale comunicazione tra scuola e famiglia è dunque un intervento urgente e doveroso per il costituirsi di una “comunità educante” che ogni istituto dovrebbe realizzare. Una comunità in grado sia di condividere valori educativi che di riscrivere le regole del vivere civile. L’adulto, infatti, che si fa “bullo” in più occasioni – verso l’insegnante scolastico, verso l’arbitro della partita del figlio ecc. – ha bisogno di ritrovare delle regole che lui stesso ha perduto. «L’alleanza possibile – scrive Franco Vaccari su Avvenire – è dunque per rifondare e riscrivere insieme le regole della vita civile. Un’alleanza praticata a scuola e a casa per capire come il processo normativo sia fondamentale per la vita personale e comunitaria. Un percorso non teorico ma che consenta a chi lo vive di sperimentare il gusto di una conquista realizzata insieme».
Tale alleanza non è solo auspicabile ma doverosa. Ne è convinta anche il ministro della famiglia Rosy Bindi che, ai primi di marzo, ha annunciato una serie di iniziative volte a consolidare questo rapporto, che verranno rese pubbliche in occasione della prima Conferenza nazionale sulla famiglia annunciata per il mese di maggio. Sono previste iniziative per il sostegno e la formazione degli adulti, al fine di aiutare i genitori nel loro difficile compito educativo, in cui spesso sono lasciati soli, oltre ad una riforma dei centri per le famiglie, allo scopi di renderli un punto di riferimento anche per i giovani. Per prevenire il disagio intergenerazionale che, quasi sempre, nasce da situazioni di conflitto all’interno del nucleo familiare, è prevista anche una serie di interventi volti a recuperare e a riabilitare il nucleo stesso, e non solo la coppia, attraverso un sostegno all’associazionismo e alle iniziative che vengono dalle famiglie stesse.
Sabrina Magnani
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