Da più parti si vuole insinuare un dubbio: i giovani sono vuoti a perdere, inutile prendersela con la società, con la famiglia, con il mondo adulto, il problema sono loro.
del 11 settembre 2009
Da più parti si vuole insinuare un dubbio: i giovani sono vuoti a perdere, inutile prendersela con la società, con la famiglia, con il mondo adulto, il problema sono loro.
Ogni volta che un adolescente inceppa il potente meccanismo sociale, c’è qualcuno che innalza bandiere “giustificanti”, per ribadire che la generazione precedente era migliore.
Con cappa e spada e qualche artificio clownesco portiamo in scena la rappresentazione più desueta sulla vita, su come viverla al meglio, su come sopravviverle quando non è di nostro gradimento.
Nel frattempo si ripetono accadimenti poco edificanti, fatti che non posseggono alcuna attrattiva se non quella di seminare indifferenza per chi è piegato in due dalle proprie fragilità e dalle proprie rese.
Rave party e giovani alla spicciolata, un mondo capovolto, inverso, uno sparo diritto a ogni banale conformità, a ogni inconfessabile obbedienza, che pesa come un macigno, insopportabile da trascinare appresso.
Si muore nello sport, sul lavoro, sull’auto, al parco divertimenti, si muore nel rumore e nel silenzio, in modo consapevole e più impertinente verso la vita trasformata in una danza inarrestabile in onore della sordità, del rigetto, del disamore.
Si muore muovendo il corpo, ma non vedendo, non sentendo, non capendo più che c’è anche domani, si muore in gruppo, dentro il recinto, fuori da ogni reale condivisione, senza la pietà della compassione, privati di una mano amica a sorreggerti, accompagnarti, accoglierti.
Rave party e eutanasia, chi è morto dentro muore davvero, raduni organizzati illegalmente, folle della controcultura, masse della politica underground? Ci si va per curiosità, per passioni incrociate che hanno l’esigenza di incontrarsi, di conoscersi, di fondersi? Per ascoltare musica come forma di espressione futuribile, alfabeto e vocabolario per parlare finalmente alla collettività? Un tempo sarà stato così, ora c’è solo un gran bisogno di “calare giù”, per ricominciare a sopravvivere.
Forse non è il caso di demonizzare un fenomeno giovanile, però occorre avere più attenzione sulle parole d’ordine, sulle immagini, che vorrebbero possedere carisma sufficiente per un pensiero di socialità, di unità e libertà.
C’è qualcosa di ancora sconosciuto in un rave party, in quei capannoni dimessi, nelle storie anonime dei macchinari in disuso, dal basso delle mura altissime di diffusori sonori, che sparano drumm, hard, techno, jungle?
Stigmatizzare e giudicare una moda non è sempre corretto, forse c’è anche del buono da salvare, ma è necessario usare le parole con un linguaggio che non fa curve inesistenti, dichiarando che l’alcol, la droga, il sesso veloce, e qualche lama di coltello, non possono apparire come una periferia ambulante ove ognuno nel fine settimana può ritornare a “essere” qualcosa di non meglio definito.
Rave party è sgretolamento del concetto di libertà, rispetto a qualunque regola e convenzione, non è accomunabile a una discoteca, non è la trasgressione a una accondiscendenza controllata, rave è altro, il rifiuto a ogni auspicata e non più rinviabile rinascita sociale.
Rinascita sociale di relazioni intelligenti, non perché elitarie, ma perché sane e equilibrate, mai affidate a comportamenti che sbaragliano letteralmente la possibilità di continuare a crescere e migliorare insieme.
 
Vincenzo Andraous, don Gabriele Mangiarotti
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