REALIZZARE LA MEDITAZIONE1. La presenza

Alcune cose su questo tema le abbiamo già accennate, ma ora bisogna entrare nel fulcro. Quando consideriamo una parola o una scena del Vangelo non consideriamo un testo ma colui di cui il testo parla e a cui si riferisce: la persona di Gesù.

REALIZZARE LA MEDITAZIONE1. La presenza

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Indicazioni per l'attuazione della meditazione sono piuttosto rare nella letteratura. Esse saltano di solito il decisivo momento centrale, si occupano largamente della introduzione, dei diversi atti introduttori e poi di nuovo della fase finale, dove si tratta delle acquistate e infuse visioni e della loro reciproca delimitazione. Per la «meditazione» di verità di fede più astratte gli Esercizi Spirituali ci offrono delle indicazioni: rendersi presente l'oggetto che abbiamo in mente, illuminarlo poi con il nostro intelletto (ma come ciò debba avvenire raramente è spiegato), e poi applicare al nostro personale comportamento, attraverso la volontà, ciò che abbiamo trovato (Esercizi Spirituali, n. 50). Ma se guardiamo più da vicino, scopriamo che nell'indicazione preparatoria per la «contemplazione» di trasferirci vivamente nella scena da contemplare, si trova già qualcosa che condetermina nel suo complesso l'attuazione della contemplazione. E di ciò vogliamo ora parlare come primo punto.

Alcune cose su questo tema le abbiamo già accennate, ma ora bisogna entrare nel fulcro. Quando consideriamo una parola o una scena del Vangelo non consideriamo un testo ma colui di cui il testo parla e a cui si riferisce: la persona di Gesù. Ciò significa più di quanto detto prima: ossia che lo Spirito attualizza per noi attraverso i secoli detta scena; significa piuttosto che Gesù Cristo - in concomitanza con questo testo - si offre a noi come il Presente e Interloquente ed è proprio attraverso questo testo che parla, attraverso questa parola da lui espressa o questo miracolo. Dunque non solo sulla base di una generale onnipresenza di Dio, ma della presenza concretizzata proprio in questa parola, gesto o atteggiamento. Questo passaggio dalla lettera scritta non al Spirito ma al Signore vivente sembra a molti difficile, sebbene in fondo sia la cosa più facile. Io sto di fronte al mio Signore ed egli si rivolge personalmente a me. Egli stesso si rivolge a me nella misura in cui è la Parola, la Parola del Padre in tutte le sue forme umane, sia il parlare che il tacere, sia il grido di esultanza verso il Padre che il pianto su Gerusalemme, sia il monito che la consolazione, sia il gesto umile che quello imperioso. Parola Lui lo è sempre. E Parola ora proprio per me.

Ma già tra uomini il discorso non è mai solubile dall'aprirsi della persona: essa vuole esprimersi, essere sentita e presa in considerazione. Cosi in ogni modalità del parlare di Gesù è presente lui stesso che si vuole annuncia - r - è e donare come persona, come Parola del Padre. La parola concreta, parlata (o taciuta) non divisibile dalla Parola che Lui stesso è. E questa Parola che è lui stesso non vuole solo avvicinarsi a noi, magari fino al nostro orecchio sensibile o spirituale, ma con la sua interpellanza vuole colpire la nostra persona nel suo nocciolo più profondo. Ecco perché più sopra, quando Parola ed Eucaristia furono così intimamente accostate, potevamo paragonare la meditazione alla comunione. Cristo, che sembra stare davanti a noi, esige ingresso nella nostra vita per un pasto in comune: «Ecco, io sto davanti alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e apre, entrerò da lui e cenerò con lui e lui con m'e» (Ap 3,20). Ciò che significa í per Gesù questa reciprocità del desinare lo sappiamo bene: si tratta di uno scambio dell'essere più profondo: ognuno diventa cibo per l'altr

Nella meditazione questo scambio non ha l'uniformità (solo apparente) del sacramento, ma mostra la sua ricchezza inesauribile attraverso tutte le variazioni della parola evangelica. Infatti in tutte le espressioni di Gesù nel Vangelo possiamo e dobbiamo comprenderci come accoglitori della Parola, non solo nelle parole di esortazione o di consolazione o anche in quelle di monito rivolte ai discepoli, ma certamente anche nelle dure parole di rifiuto dirette ai Farisei (Mt 23). Anche queste parole non hanno un semplice valore passato ma valgono al presente per la Chiesa, per noi. Non c'è nessuna scena in cui anche noi non siamo implicati: la scena in casa di Simone fariseo, nella quale dobbiamo ascoltare sia la parola rivolta a questi, sia quella rivolta alla peccatrice ai piedi di Gesù: entrambe ci interessano. E così sempre. E ogni volta la singola parola non è un'espressione occasionale, ma annuncio dell’essere di Gesù. Del suo essere infinitamente ricco e mai contraddicentesi, sempre unitario, mentre dalla nostra parte esiste quella molteplicità di contraddizioni generate dall'annuncio di Gesù: noi siamo , gli ingrati, i lontani, impenitenti, noi coloro che cercano conversione e accoglienza, noi i chiamati che non possono mai essere tanto sicuri di sé, che Gesù non li possa interpellare con le parole: «Volete andarvene anche voi?» (E non sono scappati tutti, quasi tutti, nell'ora decisiva?). Così non c'è parola o gesto di Gesù di cui possiamo dire: non mi tocca.

Dobbiamo però fare attenzione che in quanto cristiani possiamo meditare solo secondo il Nuovo Testamento, ossia non possiamo immaginarci altro giudice della nostra colpa se non colui che, portando i nostri peccati, è anche il nostro salvatore. Le cinque meditazioni sui peccati nel libretto degli Esercizi Spirituali sfociano tutte in un «dialogo» con il Crocifisso; anche l'ultima severa meditazione sull'inferno si conclude con un'azione di grazie al Redentore che non mi ha fatto cadere nel pericolo della dannazione con «l'interruzione della mia vita» e che anzi «mi ha rivolto continuamente una così grande pietà e misericordia» (Esercizi Spirituali, n. 71). Naturalmente «l'amore perfetto scaccia la paura» (1Gv 4,18), ma un tale amore non potremo mai attribuircelo. «Il timore rimane ordinato alla punizione» e noi sappiamo che l'abbiamo meritata. Ma possiamo comprendere questa punizione come una forma della misericordia di Dio che ci vuole purificare e affermare che siamo pronti a riceverla da Lui in questo senso. Questo è un tema molto ampio, perché disponibilità al castigo per la nostra colpa è inseparabile dal patire con Gesù per tutte le colpe e perciò anche nascostamente legata alla disponibilità ad espiare per la colpa di altri, conosciuti e sconosciuti.

Gesù ci viene incontro nel modo più immediato come Parola di Dio nei Vangeli, perciò le nostre meditazioni si atterranno con preferenza a questi. Ma anche le lettere degli Apostoli non ci rendono presente altro se non Lui, sia che parlino direttamente di Lui o della sua autopresentazione nella vita dei cristiani - così direttamente come nella vita di Paolo, che spiega se stesso totalmente in rapporto a Cristo. O l'eco del Vangelo negli Atti degli Apostoli e tutto ciò che anche nell'antica Alleanza è espresso con riferimento al futuro compimento nel Messia. «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in loro vita eterna, ma non volete venire da me per avere la vita… Se voi credeste a Mosé, mi credereste, perché di me egli ha scritto» (Gv 5,39 ss.46). Una meditazione su parole ed avvenimenti veterotestamentari non sarebbe cristiana se non fosse attuata nella presenza del perfezionatore e con lo sguardo verso la sua pienezza.

Un'ultima cosa: non si può contemplare il Signore presente come un oggetto o un'idea, ma solo come colui che è il dono del Padre a noi e perciò ci rivolge un'interpellanza. Infatti ogni grazia contiene l'esigenza di corrisponderle, ogni contemplazione (theoria) contiene in sé già il momento della conversione (praxis). Perciò non esiste nella meditazione una precisa delimitazione tra gli atti dell'intelletto e quelli della volontà. Paolo, sopraffatto dalla visione del Signore, gettato a terra, ha un'unica risposta: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (Atti 9,6). Non che lo sguardo del meditante si debba prematuramente distogliere da Gesù per applicare a se stesso considerazioni morali; ma nella contemplazione stessa e per vedere e comprendere meglio e più profondamente, bisogna intraprendere anche e sempre una trasformazione del proprio stato. Una trasformazione che ultimamente non procede dal mio sguardo su me stesso o anche solo dal mio sguardo su Gesù, bensì dal suo sguardo su di me, lui che è «un giudice dei pensieri e dei sentimenti del cuore... Tutto giace nudo e aperto davanti agli occhi di colui cui dobbiamo rendere ragione» (Ebr 4,12 ss.).

Hans Urs Von Balthasar

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