Preferirei la morte del cugino Michele. La libertà come tanatofilia non mi va. Però ho orrore per la sola idea dell'obbligo di cura. Il gesto pubblico del radicale Welby è controverso, il suo privato bisogno di riposo no.
del 22 dicembre 2006
Sogno una morte diversa da quella di Piergiorgio Welby. Preferirei di no. Preferirei la fine del cugino Michele, una casa di provincia linda come non è mai stata, una stanza da letto che sembra un sacrario di specchiere e madie senza un grammo di polvere, le visite dei parenti e degli amici che sono accolti nel tinello dalle donne di famiglia e dai bambini, poi introdotti discretamente dal malato semicosciente che subisce le loro carezze, un viso sofferente e rassegnato sfiorato dall’amore al cospetto di lenzuola bianche come la luce del mattino d’estate, i cateteri nascosti con pudore, e forse anche la foto del Papa, forse anche un frate pieno di bonomia che mi sfruculia e mi dice che sono sulla via del ritorno. Il mio è un sogno laico, non credente, di chi non accetta la banalizzazione della vita anche attraverso la serializzazione della morte come sfida analgesica al significato del dolore. Ed è anche un sogno a cui non posso dire di saper corrispondere, quando la realtà si metterà ad inseguirlo. Penso anche che una società in cui si muore così come il cugino Michele ha un rapporto più stretto e fiducioso con la verità, qualunque essa sia, massima delle verità essendo quella che io agisco da uomo libero ma non sono il mio padrone. Chi sia il padrone, poi si vedrà faccia a faccia, ma ora, nell’enigma, so di non esserlo io stesso.
Tuttavia capisco il bisogno di requie, capisco il requiem laico di Welby e dei suoi compagni, compreso il medico anestesista che su sua richiesta lo ha sedato e ha staccato la spina. Sono contrario all’eutanasia per legge, che è la sostanza del problema dissimulata con grande e legittima abilità politica nella campagna di cui Welby ha voluto essere il banditore, ma non posso approvare l’obbligo di cura, che è una contraddizione in termini, e non posso negare ad alcuno le terapie sedative della sofferenza fisica quando la vita si esaurisce, per lo meno nel corpo. Vorrei che la norma giuridica se ne stesse il più possibile lontana dalla legalizzazione della morte, che ha già fatto progressi abbastanza spettacolari con il trionfo culturale e la pratica indiscriminata dell’aborto, con il protocollo di Groningen sull’eutanasia dei bambini ammalati, con lo spegnimento coatto per sentenza comminato a Terry Schiavo, con un disprezzo per il vicino che genera terrore senza fine e impone la brutta e bronzea legge della guerra giusta in soccorso del convivere e della tranquillità dell’ordine. Le uniche norme che accetto sono quelle a difesa della vita dal suo inizio alla sua fine naturale, con la depenalizzazione dell’aborto come eccezione assoluta e non come forma relativistica di controllo della riproduzione o di contraccezione ex post.
Tuttavia considererei una sciagura un processo nato dal caso Welby, e idiota il grido di “assassino” indirizzato a coloro che hanno realizzato la sua volontà, amministrando il loro culto attraverso una strana forma legale di disobbedienza civile. Il culto radicale per le libertà civili, che ormai sistematicamente si converte in battaglie religiose intorno all’idolo giacobino dei diritti dell’uomo, compreso il diritto di ordinare la propria morte o comminarla ad altri in nome della libertà di vivere come si vuole, io lo combatto. Ma se i radicali, nell’ambivalenza che è propria di ogni guerra religiosa, si fanno scudo dell’orrore che non si può non provare per la sola idea dell’obbligo di cura, abbasso la mia lancia. Tra i radicali, per la sua e per la mia dignità, annovero anche Welby. Il cui gesto pubblico è ovviamente controverso. Il cui bisogno privato di riposo, imperativi della fede a parte, non lo è.   
 
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Piergiorgio Welby è morto. L’anestesista, il dottor Riccio, e i radicali spiegano che ha ottenuto quello che voleva nel pieno rispetto della legge e della Costituzione. “Un passo avanti nella certezza del diritto”. VERSO DOVE?
 
 
Attorno alle undici e trenta del mattino, nonostante lo sciopero dei giornalisti, all’ingresso della sala stampa di Montecitorio c’è la fila. Nella notte tra mercoledì e giovedì è morto Piergiorgio Welby. Lo ha detto Marco Pannella a Radio Radicale, alle sette e mezza di ieri mattina, annunciando la conferenza stampa per le undici e un quarto. E nella sala stampa della Camera dei deputati, dietro il lungo tavolo rettangolare, all’ora indicata siedono tutti i protagonisti di quella strana cerimonia: il medico anestesista (Mario Riccio), la segretaria del partito (Rita Bernardini), il parlamentare europeo (Marco Cappato), il ministro (Emma Bonino), la sorella dello scomparso (Carla Welby), il presidente del partito (Maria Antonietta Farina Coscioni, vedova di Luca) e il leader storico del movimento, Marco Pannella. “Questa conferenza stampa si svolge, come sapete, dopo che Piergiorgio Welby ci ha lasciato”, dice Marco Cappato, prima che la commozione gli impedisca di proseguire. Ricomincia da capo e arriva subito al punto: Welby ha ottenuto quello che voleva, dice, e l’ha ottenuto “nel pieno rispetto della Costituzione e della legge”. Ma aggiunge: “E forse ha ottenuto qualcosa di più, un passo avanti nella certezza del diritto… un diritto che veniva riconosciuto sulla carta e negato nella pratica”. Quale sia precisamente questo diritto, se sia il diritto di sottrarsi all’accanimento terapeutico o il diritto all’eutanasia, Cappato non lo dice. Lo dirà poco dopo il medico, e lo ripeteranno in molti: niente altro che il diritto di rifiutare una terapia, nel pieno rispetto della Costituzione e della legge. Eppure, nelle parole e nei toni, rimane un’ambiguità di fondo. Chi sta parlando in quel momento, con la voce spezzata, dietro il tavolo della sala conferenze della Camera dei deputati? Il leader di partito che rivendica un’iniziativa politica o l’amico dello scomparso che ne recita l’orazione funebre? Dietro lo stesso tavolo si confondono il ministro del governo e la sorella dello scomparso, il medico anestesista dell’ospedale di Cremona e la segretaria di Radicali italiani.Il dottor Mario Riccio spiega che Welby è morto per insufficienza respiratoria. Spiega di avere staccato il respiratore e di avere contestualmente sedato il paziente, per via endovenosa, alle ore 23.40. “Un tempo si diceva che c’è un giudice a Berlino – lo elogia Pannella – oggi possiamo dire che c’è un medico”. Il dottor Riccio lo guarda senza tradire alcuna emozione. Pannella, però, comincia un discorso che potrebbe portarlo lontano. Parla della “legge del tiranno” e di quello che dovrebbe fare il popolo, dinanzi a una legge tirannica. E’ un tema classico della disobbedienza civile. Ma il leader radicale non arriva alla conclusione, passa oltre e ripete: “Nel pieno rispetto della Costituzione e della legge”.
Perché allora il segretario di partito e il ministro? Perché questa solenne conferenza stampa, a Montecitorio? Perché mai l’intero stato maggiore radicale dovrebbe rivendicare di avere semplicemente rispettato la legge? Forse perché Piergiorgio Welby era un dirigente politico, come ripetono i radicali, insieme compagni orgogliosi della sua iniziativa e amici addolorati della sua scomparsa. La tortura che ha sopportato per 88 giorni, spiegano, è stata una battaglia per i diritti di tutti. Come la sua battaglia per il diritto di voto dei malati gravi, ricorda Emma Bonino. Come tante altre battaglie per i diritti di tutti i malati, ricorda Rita Bernardini. Ma quale diritto sia stato affermato ieri non è chiaro, in una conferenza stampa che sembra rivendicare un atto di disobbedienza civile e insieme di obbedienza alla legge. Un’iniziativa che si muove lungo un confine sottile, nell’intervallo tra il distacco del respiratore, l’effetto del sedativo e l’azione della malattia.
Cappato ricorda le parole di Welby: “Devo concentrarmi sulla mia morte, non è uno scherzo, è la prima volta che muoio”. Racconta che in quel momento erano con lui i familiari, alcuni compagni radicali e “gli amici passati per salutarlo”. Pannella ricorda di avergli detto, abbracciandolo per l’ultima volta: “Hai visto, pensavi che scherzassimo, eh?”. Sembra il copione del film “Le invasioni barbariche”, che racconta gli ultimi giorni di un malato di cancro. Di quell’uomo che “soltanto grazie al pragmatismo e all’apparente cinismo del figlio riuscirà ad avere quella morte dolce, che arriva lievemente con un’overdose somministrata all’alba mentre è contornato dagli amici in una casa di campagna”, come ricorda un articolo sul sito Internet di Radio Radicale.
Giuliano Ferrara, AA.VV.
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