Tutti presi dai propri progetti (per lo più a breve termine) e dai propri bisogni si tende a vedere l'altro come un ostacolo (o se va bene come un mezzo) per la propria autorealizzazione. Si è sempre più chiusi alla vita: i figli sono visti prevalentemente in termini di costi e rinunce o, se va bene, come "diritti" e occasioni di "esperienza".
del 04 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          La famiglia oggi è un punto di osservazione prezioso sia per capire i grandi problemi di questo tempo, sia per immaginare una via di uscita dalla crisi, non solo economica, ma più in generale culturale, sociale e politica, in cui siamo immersi. Negli ultimi 20-30 anni il ritornello dominante è stato quello dell’individualismo estremo, illimitato (indisponibile ad accettare qualunque limite alla propria realizzazione) e assoluto (sciolto da qualsiasi vincolo), ma sono ormai evidenti i fallimenti di questo modello e la sua incapacità di realizzare le sue promesse di felicità e benessere. Per uscire dalla crisi, che è prima di tutto una crisi di senso, di giustizia, di umanità e di felicità, occorre oggi saper costruire nuove alleanze. E l’alleanza è la costruzione di uno spazio comune dove potersi scambiare doni. In un tempo di incertezza come questo, la famiglia è un luogo dove elaborare, assieme ad altri, i significati che orientano le nostre scelte e le condizioni per vivere insieme in modo umano perché libero dalle logiche strumentali e contrattuali che dominano ormai ovunque.           La famiglia è uno straordinario luogo di alleanza: tra le generazioni, tra i generi, tra chi è forte e chi è fragile. Ma non può essere data per scontata, o ridotta a una pura categoria sociologica. Né i modelli che abbiamo sotto gli occhi, per lo più fortemente inquinati dall’individualismo imperante, sono gli unici a cui guardare. Infatti, influenzati dalla pedagogia implicita della cultura contemporanea, oggi si è sempre meno disposti ad ascoltare, a dimenticarsi di se stessi, a fare spazio, ad accogliere. Tutti presi dai propri progetti (per lo più a breve termine) e dai propri bisogni si tende a vedere l’altro come un ostacolo (o se va bene come un mezzo) per la propria autorealizzazione. Si è sempre più chiusi alla vita: i figli sono visti prevalentemente in termini di costi e rinunce o, se va bene, come 'diritti' e occasioni di 'esperienza'. Tutto ciò che è vincolo impegnativo (il malato, l’anziano, lo straniero che ci vive accanto) viene rifuggito e visto solo nella prospettiva di quello che ci 'toglie'.           Non c’è da stupirsi, allora, che le vite siano ripiegate su se stesse, rattrappite e alla fine asfittiche: senza l’apertura all’esterno, all’imprevisto che mobilita risorse che non sapevamo di avere, all’altro che ci libera dalla prigione di noi stessi, l’ossigeno manca. La famiglia oggi salta anche perché si è individualizzata, si è chiusa a tutto ciò che di spirituale ma anche di relazionale può alimentarla, e così rischia di rimanere un’istituzione-guscio, sfibrata e disseccata. L’Incontro mondiale delle famiglie è quindi un’importante occasione per rigenerare la nostra consapevolezza e progettualità: ripensare la famiglia come un luogo insieme di vincoli e di libertà, all’interno del quale cercare nuove forme di sintesi originale capaci di ridare senso sia al lavoro sia alla festa (che è sempre più diventa una semplice occasione di consumo). Anche il lavoro è in crisi, una crisi di senso prima di tutto. Nella sua accezione originaria include i significati dell’opera, della fatica e dell’impegno (da labor, fatica) assieme alla capacità tipicamente umana di trasformare, orientare, far esistere.           Un dinamismo trasformativo, dunque; un fare che non è solo strumentale, ma è anche dotato di senso. Una poiesis che è anche poesia. La famiglia aiuta a sanare l’alienazione che il lavoro ha subito nella cultura contemporanea: pura funzione, strumento per avere accesso al consumo; in casi più rari, strumento per la propria autoaffermazione e per l’acquisizione di potere personale; sempre più precario e, quindi, sempre meno oggetto di investimento emotivo, di aspettative, di desiderio. In famiglia il lavoro ha certamente una componente strumentale-riproduttiva e anche ripetitiva (basta pensare al ciclo ininterrotto del lavoro domestico!), ma non è riducibile a esse. Anzi, proprio nel lavoro domestico dovere ed espressività, fatica e gioia, impegno individuale e bellezza della condivisione possono trovare spazio e sintesi. Contrastando il luogo comune che la fatica sia solo peso, e che per 'rifarsi' occorra un divertimento solo disimpegnato. La famiglia è un luogo in cui, 'lavorando' per prendersi cura degli altri, ci si educa alla relazione; è il primo ambito in cui si sperimenta la fondamentale condizione antropologica della non autosufficienza, non vissuta però come una condizione di limitazione frustrante, ma come occasione di gioiosa gratitudine.          La famiglia è il luogo in cui si sperimenta che «la relazionalità è un elemento essenziale dell’umanità» (Caritas in veritate, n. 55). In un mondo in cui tendono a prevalere sempre più l’individualismo interconnesso e, per i giovani, i fragili legami di rete, e in cui la connessione digitale ininterrotta rischia di scivolare in una cybersolitudine, la famiglia è ancora il luogo in cui sperimentare che la pienezza della relazione intercorporea resta il modello e il fine di ogni altra forma, seppur preziosa, di interazione. Il laboratorio di una alleanza intergenerazionale di cui oggi c’è molto bisogno per ritessere i legami e non rimanere intrappolati nella dittatura del dato di fatto, per la quale il presente non ci offre alcun antidoto.
Chiara Giaccardi
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