Fare l'insegnante vuol dire avere come strumento di lavoro se stesso: sono la propria voce, la personalità, il volto, il sorriso, che comunicano all'altro. Ciò che tu sai, nel momento in cui lo trasmetti ad altri, lo veicoli tramite il tuo io...
del 29 agosto 2006
Mentre mi trovavo in ospedale per una lunga degenza, dovuta alla gravidanza problematica del mio terzo figlio, la lettura dei primi due numeri della rinnovata “Libertà di Educazione” mi ha provocato e spinto a scrivere questa riflessione sull’essere insegnante.
Fare l’insegnante vuol dire avere come strumento di lavoro se stesso: sono la propria voce, la personalità, il volto, il sorriso, che comunicano all’altro.
Ciò che tu sai, nel momento in cui lo trasmetti ad altri, lo veicoli tramite il tuo io: proprio per questo è impossibile dare una vera e propria oggettività ad una lezione in classe.
Se per strumento del mio lavoro intendessi i libri, e li facessi “parlare” al mio posto (come molto spesso accade anche all’insegnante più accorto, vuoi per stanchezza, vuoi per sua comodità e convenienza), allora la lezione diventa tecnicismo, un do ut des (“ti faccio leggere il libro con me, poi tu me lo ripeti”), un procedimento meccanico in cui manca la libertà dell’umano, perché il mio io non entra in gioco di fronte alla classe.
La lezione, invece, dovrebbe non essere meccanica o tecnica (fattori che spengono l’interesse e l’entusiasmo del discente), ma una traditio - una consegna da un’umanità (il docente) ad un’altra (la classe) -, non solo di un apprendimento, ma anche della modalità umana con cui si è giunti a tale apprendimento.
Ciò che l’insegnante veicola maggiormente con la sua persona è l’approccio alla materia dell’apprendimento, come io mi pongo di fronte ad essa e come agisco: in una parola il metodo.
Non esistono formule, più o meno “magiche”: per insegnare-imparare a studiare non c’è un aggettivo valido per tutti, perché il metodo è personale.
Tanto più importante diventa allora la modalità con cui l’insegnante trasmette il proprio metodo, guidando ciascuno nella classe alla ricerca del proprio, instaurando un confronto aperto, nel vivo del lavoro, sul “come fare a…”.
E’ solo tramite un’interazione personale che avviene la trasmissione di tutti i fattori determinanti per l’apprendimento.
Quindi fare l’insegnante vuol dire essere continuamente chiamato e ri-chiamato ad esprimere se stesso, la propria libertà, il proprio sapere e metodo; ad essere attento e vigile sulla realtà di chi ci sta di fronte, perché se la mia umanità non tiene conto dell’altra che ho di fronte, la traditio (cioè la consegna tramite interazione) non è possibile. Solo l’umano veicola il sapere.
Dice Hannah Arendt: “L’insegnamento è una tradizione che tu comunichi in modo sempre diverso”.
Attenzione, interesse, partecipazione, intraprendenza (1) sono solo alcuni dei fattori dell’apprendimento legati all’essere umano: solo se aderisco alla realtà di ciò che si sta proponendo, posso imparare, perché io stesso mi sono messo in gioco di fronte alla realtà.
L’insegnante è anche, quindi, colui che ti insegna a porti di fronte alla realtà, anche se di un oggettivo, come una lezione di storia, e ti richiama, con la sua, alla tua umanità. Dice Julian Carron (2): “Le cose non diventano familiari soltanto con delle spiegazioni, ma rischiando… un’esperienza…, perché altrimenti queste cose non si capiscono. L’inizio della conoscenza è un avvenimento; le cose si capiscono quando accadono”.
Ciò che Carron dice vale anche per l’ambito scolastico. Rischiare un’esperienza è fondamentale per conoscere, perché se non “rischio” una parte di me, se non scatta l’adesione della persona, “non capisco”; questo vale per chi apprende, ma lo è altrettanto per chi insegna (se il docente non “rischia” se stesso, insegnare non diventa esperienza, e quindi nemmeno possibilità di conoscenza effettiva).
Questo tipo di posizione umana nel proprio lavoro di insegnante (anche se non si può propriamente definire l’insegnamento “un lavoro” tout court, viste le implicazioni umane che ha insite in sé, ma assume più i caratteri di un’avventura umanamente condivisa) si trova ad essere quasi in contrasto con quelli che sono oggi i leitmotiv della discussione ufficiale sulla scuola: tecnicismo, professionalità, autovalutazione/valutazione del docente.
Gli ultimi anni hanno visto - con crescente insistenza - porre l’accento sulla necessità di una professionalità del corso docente che si dovrebbe sempre più caratterizzare per competenza e conoscenze specifiche.
L’insegnante deve essere tecnico nel suo compito a casa: il lavoro di programmazione, ricerca e verifica che quotidianamente il docente svolge al di fuori delle ore curricolari, è il vero luogo in cui si estrinseca la professionalità, l’essere tecnici ed esperti; in classe deve saper cogliere le emozioni dell’alunno, farle proprie e saperlo far appassionare ed entrare in empatia con quanto deve apprendere.
Ben sintetizza Gianni Mereghetti: “I giovani si annoiano a scuola quando essa diventa un meccanismo, ne sono invece affascinati quando trovano ogni mattina in classe un docente che comunichi la sua umanità, la sua cultura, la sua ipotesi e muove la loro libertà a cercare la risposta ai loro perché”. (3)
 
 
1 Cfr. R. Mazzeo, Un metodo per studiare, ed. Il Capitello
2 Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini 2002, p. 42
3 G. Mereghetti, Libertà di Educazione, 1/2002, p. 39
Chiara Galbiati
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