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San Filippo Neri

Sono numerosissimi i testimoni che raccontano che da quel suo cuore in certe occasioni in cui l'amore di Dio particolarmente lo afferrava e lo commuoveva, provenivano un calore bruciante, percepibile all'esterno, e un battito così violento che a volte faceva tremare perfino le pareti della stanza.


San Filippo Neri

da Testimoni della Fede

del 08 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

San Filippo Neri

(21 luglio 1515 - 26 maggio 1595)

San Filippo Neri nacque a Firenze nel 1515 in piena epoca rinascimentale e visse la sua adolescenza negli anni in cui la città lottava per liberarsi dalla tirannia dei Medici.

Dicono i biografi che tre cose dominarono allora, e per sempre, lo spirito del giovane fiorentino: un amore invincibile per la libertà, la passione per le Laudi di Jacopone da Todi (che si cantavano in Toscana più che altrove) e l'attaccamento a un libro umoristico (Le facezie del Pievano Arlotto), un testo di storielle e scherzi che Filippo terrà sempre con sè. Esso contribuirà a formare un aspetto insostituibile della sua santità, tanto che una celebre sua biografia si intitola: il buffone di Dio.

Per ora questi accenni iniziali possono sembrare di poco conto o semplicemente bizzarri, ma diventano interessanti se si scende più in profondità, se si comprende davvero la missione di questo Santo nella Roma del secolo XVI che egli visse quasi per intero, dal 1515 al 1595.

Siamo nel tempo in cui prende consistenza la Riforma cattolica, portata avanti da santi che, soprattutto a Roma, operano numerosi, nonostante la debolezza morale di certi papi e di certe istituzioni dell'epoca. Ma questa Riforma, pur ricca di vitalità e di originalità, rischiava di irrigidirsi in una «Controriforma», che traeva la sua linfa prevalentemente dalla reazione antiprotestante.

Dopo la contestazione e la lacerazione protestante, la Chiesa avrebbe dovuto affidarsi tutta ai suoi veri e santi riformatori, che allora erano numerosi; nella Spagna si contavano a decine nella sola Roma si potevano incontrare sant'Ignazio di Loyola, san Filippo Neri, san Camillo de Lellis, san Giovanni Leonardi, san Felice da Cantalice, san Pio V, san Carlo Borromeo. Alcuni cattolici, invece, credevano di far meglio reagendo all'errore con l'indurimento ascetico e dottrinale, e con la severità della legislazione.

Basti ricordare, come esempio tra tutti, il pontefice Paolo IV Carafa che passò alla storia come il papa «terribile» che considerava l'Inqusizione come «la pupilla dei suoi occhi».

Di severità e di lotta contro gli errori c'era indubbiamente bisogno, ma insistendovi troppo si finiva per dar ragione proprio a coloro che accusava­no la Chiesa di togliere al cristiano la libertà che Cristo gli ha guadagnato col suo Sangue.

Tanto è vero che spesso finivan per essere sospettati e inquisiti proprio i santi che Cristo inviava alla Chiesa per risollevarla e che non potevano adempiere questa missione senza portare una ventata di novità spirituale. Sempre nella Chiesa i riformatori che non sono santi sono pericolosi, sia che si chiamino progressisti o conservatori.

Ebbene, san Filippo Neri, nel tempo della Riforma cattolica e della più dura Controriforma, rappresenta il richiamo gioioso e intelligente alla libertà. Per molti anni, a Roma, dove si era trasferito ancor giovane, Filippo fu soltanto un laico, libero da ogni legame. Per vivere faceva il precettore di due ragazzi, in casa di un fiorentino come lui emigrato a Roma: in cambio riceveva soltanto otto staie di grano all'anno e una manciata di olive al giorno; dormiva in una soffitta. Viveva dunque quasi in solitudine, a parte qualche impegno di carità cristiana verso i più poveri.

Aveva una sua particolare devozione «la visita delle sette chiese». La sera cominciava il suo pellegrinaggio che lo conduceva dapprima a San Pietro, poi a San Paolo fuori le Mura e San Sebastiano, poi a San Giovanni in Laterano, Santa Lucia, San Lorenzo, Santa Maria Maggiore, quasi venti chilometri che aggiunti alle soste e alle lunghe preghiere gli occupavano l’intera nottata.

La sosta preferita era alle catacombe di San Sebastiano, allora quasi inesplorate, dove passò moltissime notti in preghiera.

Un biografo racconta, con molto intuito, che con tale esperienza Filippo Neri sembrava voler toccare con mano le solide fondamenta della Roma cristiana (quelle bagnate dal sangue dei martini) in un momento in cui tutto sembrava vacillare. Si dedicò per breve tempo anche allo studio della filosofia e della teologia per poter comprendere meglio le cose divine. Ma resistette poco tempo perchè ebbe l'impressione di trovarsi in una situazione insostenibile: «Lo studio lo distraeva da Dio e Dio lo distraeva dallo studio».

Sant'Ignazio di Loyola aveva provato la stessa difficoltà all'Università di Barcellona, ma l’aveva considerata una tentazione, e tale era di fronte alla sua missione. Filippo Neri la considerò una grazia per ritrovare una maggiore libertà e un suo personalissimo stile, coltivò una straordinaria intelligenza studiando direttamente gli uomini, anche se non dobbiamo dimenticare che la sua biblioteca restò sempre particolarmente ben fornita. All'inizio, dunque, Filippo viveva quasi come un eremita.

Verso i ventitrè anni invece prese a girare per la città, soprattutto nei quartieri in cui i fiorentini come lui si dedicavano agli affari e alle banche, ponendo a tutti una domanda che li lasciava senza parole: «Ebbene, fratelli miei, quando cominciamo a essere buoni?».

In questo periodo gli accadde un fenomeno mistico di difficile spiega­zione ma assolutamente documentato. In una notte di preghiera, nei giorni precedenti la festa di Pentecoste, si sentì talmente preso dall'amore di Dio, che tale amore nella forma di un globo di fuoco gli penetrò nel petto e gli dilatò talmente il cuore fino a spezzargli due costole e deformargli visibilmente il fianco, lo constaterà il più celebre chirurgo del tempo quando gli farà l'autopsia.

Sono numerosissimi i testimoni che raccontano che da quel suo cuore in certe occasioni in cui l'amore di Dio particolarmente lo afferrava e lo commuoveva, provenivano un calore bruciante, percepibile all'esterno, e un battito così violento che a volte faceva tremare perfino le pareti della stanza. Possiamo restare increduli finchè vogliamo, ma i testimoni sono talmente numerosi e degni di fede che possiamo pensare soltanto a uno di quei miracoli con cui Dio ci ricorda che certe pagine della Scrittura (come quella dello Spirito Santo disceso sugli Apostoli come lingue di fuoco) non sono soltanto dei raccontini. Bastava che un penitente angosciato o malato poggiasse la testa sul petto di Filippo per sentirsi riscaldato e ristorato.

E quando il Papa impose a tutti i preti di indossare la cotta per ascoltare le confessioni, Filippo Neri andò dal Papa a spiegargli che quell'ordine era per lui impossibile, non avrebbe sopportato un ulteriore rivestimento sul petto. E il Papa gli diede una particolare dispensa.

Ma abbiamo anticipato i tempi, quando quel dono mistico si impadronì di lui, egli era solo un giovane laico. La sua vita scorreva tra domande, l'educazione da impartire ai due ragazzi, la preghiera e la carità. In quel tempo conobbe Ignazio di Loyola e Francesco Saverio e li stimò al punto che fu Filippo a mandare dal fondatore della Compagnia le prime reclute italiane. Lui però si defilava. Sant'Ignazio diceva che Filippo Neri «era una campana che chiamava la gente in Chiesa, ma da parte sua restava sempre sul campanile». Non pensava a farsi sacerdote, ma a volte predicava alla gente nella chiesa di un vecchio e strano prete che durante l'esposizione eucaristica invitava qualcuno dei presenti a parlare.

Nel 1550 si dedicò ad organizzare una Confraternita per accogliere pellegrini che si sarebbero riversati a Roma in occasione del Giubileo. Di fatto san Filippo Neri può essere considerato il fondatore dagli attuali “comitati per l’anno Santo”. Si presume che riuscì ad accogliere e ad alloggiare ogni giorno non meno di cinquecento persone.

Finito il Giubileo, la casa da lui organizzata venne usata per i «convalescenti», cioè per i poveri che venivano dimessi anzitempo dagli ospedali e vagavano senza saper dove andare, finendo per ammalarsi peggio di prima. Gli anni intanto passavano, Filippo ne aveva ormai trenta, e venne il giorno in cui il suo confessore, che l'aveva seguito a lungo, ruppe gli indugi e gli ordinò di farsi ordinare prete. Filippo non avrebbe voluto, ma si piegò per obbedienza.

A quel tempo, in cui non c'erano i seminari, la preparazione di Filippo era già più che sufficiente. Fu ordinato nel 1551, e si stabilì presso la chiesa di San Gerolamo, libero da qualsiasi obbligo prestabilito. Per amore della libertà rinunciò ad ogni salario e preferì passare per un eccentrico. Quando celebrava messa, in un’ora deserta, la diceva il più in fretta possibile, altrimenti non sarebbe riuscita a terminarla tanta era l’emozione che lo prendeva.

Intanto la sua camera era diventata un punto di ritrovo frequentato da amici e penitenti, soprattutto da ragazzi. Fu costretto a tenere le riunioni in una soffitta sopra la chiesa, e qui nacque l’Oratorio.

La parola nasce da fatto che il gruppo si riuniva da Filippo per ascoltare qualche discorso (Oratio), dapprima si faceva un pò di preghiera mentale, poi si leggeva un testo scritto, poi uno dei presenti lo spiegava, un altro faceva domande, un altro obiezioni, un altro considerazioni. Dalla rifiessione si scendeva poi al racconto, qualche episodio della storia della Chiesa, della vita di Cristo, oppure della vita dei Santi. Filippo presiedeva, sorvegliava, interveniva brevemente, a volte correggeva, traeva le conclusioni.

Le riunioni duravano l'intero pomeriggio e ognuno era libero di andare o venire, c'era sempre qualcun’ altro ansioso di occupare il posto vuoto. Al termine, come sollievo veniva eseguita della buona musica, nacquero a questo scopo quelle composizioni che ancor oggi vengono chiamate «oratori», per Filippo componevano celebri maestri di Cappella, come l'Animuccia (maestro alla Basilica del Laterano) e il Palestrina (maestro a San Pietro). Ambedue morirono, si può dire, tra le braccia di Filippo.

C'è anzi un racconto molto commovente, quando il Palestrina stava morendo, Filippo gli recitò con dolcezza le parole di uno dei suoi mottetti: «Non ti rallegrerebbe andare a godere la festa che oggi si celebra in cielo, in onore della Regina degli Angeli e dei Santi?». E il morente gli rispose continuando con le parole dello stesso canto: «Sì, lo desidero ardentemente! Possa Maria ottenere per me questa grazia dal suo Divino Figlio».

Ai momenti di formazione e di sollievo, seguivano poi quelli dedicati alla carità, i membri dell'Oratorio dovevano impegnarsi nella visita agli ospedali, per offrire tempo e cure ai più abbandonati.

Così, in quel mondo dove erano rigide le distinzioni tra nobili e plebei, tra colti e i letterati, nacque una nuova e strana «fraternità» che un biografo così descrive: «... alla prima cerchia d'apprendisti e d'impiegati di banca fiorentini, si unirono poi gran signori, musici e cantori di basilica, piccoli artigiani, giovani israeliti che la seduzione di Filippo strappa al loro ghetto, domestici di prelati e perfino banditi di strada. Filippo è lo stesso con tutti eppure sa sempre come trattare ciascuno».

Con gesti improvvisi egli metteva letteralmente in pratica certe indicazioni evangeliche, come quel giorno che si precipitò a trarre dall'ultimo posto un umile e timido ciabattino, facendolo sedere al suo fianco con tutti gli onori.  

Allo stesso modo ricevette, come se fosse una sua vecchia e attesissima conoscenza, un gaglioffo dal volto patibolare che si era casualmente affacciato a quella strana assemblea.

Se questi episodi gli servivano per «dipingere al vivo», davanti allo sguardo dei discepoli, certi insegnamenti di Gesù difficili da praticare, quella più generica «democrazia», di cui abbiamo parlato, rispondeva a criteri pedagogici ancor più profondi.  

Non si trattava solo di libertà spirituale o noncuranza delle convenienze mondane, e nemmeno si trattava solo di un richiamo alla cristiana «ugua­glianza», ma di un modo nuovo di «pensare alla vita spirituale e alla santità».

Filippo, racconta uno dei suoi primi discepoli, voleva «che la vita spirituale, tenuta per cosa difficile, diventasse talmente familiare e domestica, che ad ogni stato di persone si rendesse grata e facile; ognuno di qualsivoglia stato e condizione, in casa sua e nella professione sua, laico o clerico, prelato o principe secolare, cortegiano o padre di famiglia, letterato o idiota, mercante o artigiano, e ogni sorta di persone era capace di vita spirituale».

San Francesco di Sales, che è giustamente famoso per aver approfondito e predicato questa dottrina, fino a dare un nuovo orientamento alla spiritualità cristiana, la imparò proprio dai colloqui con Filippo Neri.

E’ difficile per noi immaginare quale fervore di vita impegnasse l'Orato­rio, e quale vera riforma sapesse irradiare. Nè mancava la passione missionaria. Filippo usava dire: «datemi dieci persone veramente distaccate da sè, e con esse mi dà l'animo di convertire il mondo».

Infatti in quel gruppetto non si viveva al chiuso, tra le varie letture si ascoltavano periodicamente, con indicibile desiderio, le letture che i discepoli di Ignazio di Loyola inviavano da lontani e sconosciuti paesi. In particolare il loro cuore bruciava a sentire i racconti e gli inviti che giungevano da un certo Francesco Saverio.

Filippo stesso raccontò che un giorno si recarono tutti assieme da un vecchio monaco cistercense alle Tre Fontane per chiedergli consiglio, pen­savano di partirsene tutti missionari per il lontano oriente.

Ricevettero una risposta che divenne, da allora in poi, il loro vicendevole e fraterno richiamo al «realismo vocazionale»: «Le tue Indie sono a Roma!». E così svolsero nel centro della cristianità la loro straordinaria, «diver­tente» e generosa missione. In quegli anni venne ripristinato a Roma il carnevale, con tutta la sua tradizionale licenziosità. Filippo non si scompose, organizzò anche lui il suo carnevale fino ad accaparrarsi il maggior numero di persone. 

Si ricordò della sua antica devozione alle «sette chiese» e la fece diventare, in quei giorni, una scampagnata cui parteciparono fino a tremila persone, una visita a San Pietro, una Messa a San Sebastiano, una colazione sui prati, e musica all'aperto lungo tutto il percorso. L'avventura si ripetè per anni e rischiò di finir male, il cardinale vicario intervenne a indagare e sospese Filippo dalle confessioni.

Si diceva che se ne fosse andato in giro con la sua processione, trascinandosi dietro sette muli carichi di pasticcini. Ma c'erano accuse più gravi e meno divertenti, si sapeva per certo che Filippo era devoto del Savonarola; ne teneva un’immagine sul tavolo e, per canto suo, gli aveva anche disegnata un'aureola intorno alla testa.

Quel prete allegro e trascinatore poteva trasformare la sua gente in un branco di esaltati e di ribelli, solo se lo avesse voluto. Proprio in quel tempo il terribile Paolo IV decideva di iniziare un pro­cesso, che doveva condurre alla condanna definitiva del Savonarola e alla proibizione dei suoi scritti. L'esame durò sei mesi e due Santi (san Filippo Neri a Roma e santa Caterina de' Ricci a Prato) mobilitarono tutte le loro forze e le loro amicizie per impedire la condanna.

Il giorno in cui fu pronunciata la sentenza (che, secondo le previsioni di tutti, sarebbe stata di condanna), Filippo passò ore in preghiera, davanti al Santissimo, in estasi. Quando ritornò in sè disse ai presenti che il Signore aveva esaudito le sue preghiere. Infatti, proprio in quell'ora, la Congregazione dei Cardinali «assolveva la memoria e gli Scritti del Savonarola da ogni imputazione di eresia», vennero solo messe all'indice alcune prediche più violente.

Anche Filippo uscì bene dal suo processo, tanto che Paolo IV gli fece sapere che avrebbe gradito partecipare a qualche riunione dell’Oratorio.

Nel 1564 Filippo cominciò a scegliere, tra i suoi seguaci, alcuni da indirizzare al sacerdozio. Fondò, così, uno dei primi seminari del tempo, e diede vita a una comunità presso la «Chiesa Nuova».

Ma Filippo, anche quando la comunità fu costituita, continuò a voler abitare per conto suo, attaccato a quella libertà che era il suo più profondo carisma.

Andava parallelamente crescendo la fama della sua santità, della sua profonda saggezza e quella del suo umorismo, delle sue furbizie e perfino della sua stramberia: più passavano gli anni, più quest'ultima sembrava accentuarsi. Ancora oggi a Roma dire che uno è «un filippino» significa che si tratta di un tipo allegro e furbo.

La gente parlava delle sue estasi, delle sue messe, piene di infinita commozione, della sua capacità di leggere nel segreto dei cuori, umiltà e negazioni. Ma anche della sua incredibile originalità. Aveva ricevuto l'offerta del Cardinalato. Diceva ai suoi: «Ecco la berretta da Cardinale, che aveva Papa Gregorio XIII, il quale me la mandò per farmi Cardinale, ed io l'accettai con questa condizione, che io gli direi quando volevo esser Cardinale e così il Papa si contentò, e io me ne voglio fare una pezza da stomaco».

A volte riceveva personaggi illustri vestito in modo stravagante o con abiti rovesciati.A volte si vestiva sontuosamente e si pavoneggiava in modo ridicolo. A volte faceva di tutto per passare da sciocco, andarsene in giro con mezza barba tagliata, o portando sul capo un gran cuscino azzurro, o portando in mano un gran mazzo di fiori gialli, oppure passeggiando con enormi scarpe bianche, o con una maglia rossa fiammante sulla tonaca.

Sono episodi che ci sorprenderanno di meno se pensiamo alla pesante sontuosità dell'epoca. Filippo si umiliava, riusciva a convincere qualcuno di non essere santo ma solo stravagante e prendeva bellamente in giro i vizi del suo tempo. Un giorno intrattenne dei dignitari stranieri leggendo loro delle storielle facete. D'altra parte era quello che faceva anche prima di dir messa, per distrarsi un po', altrimenti sarebbe caduto subito in estasi. Era infatti «costretto» a tener in sacrestia cagnolini e uccellini, per giocherellare un po' prima di immergersi nella celebrazione.

A volte doveva rimandare un po' l'inizio del Santo Sacrificio, per leggersi qualche pagina di quella raccolta di facezie che amava tanto. Perfino sull'altare doveva ogni tanto fermarsi e, leggendo il Vangelo, si interrompeva a giocherellare con le chiavi o con l’orologio.

Più si avvicinava alla consacrazione, più si sentiva trascinare via da una fede e una emozione travolgenti. Quando aveva in mano il calice, il chierichetto lo sentiva sussurrare: «E’ sangue! E’ veramente sangue!».

Ma se faceva qualche predica particolarmente bella e riuscita, finiva per scendere dal pulpito barcollando e incespicando come un ubriaco, in modo che si ridesse di lui. Ogni stramberia era buona purchè non si parlasse della sua santità, ma anche per stroncare i difetti dei suoi discepoli.  

Un giorno che uno di loro si mostrava tutto fiero d'aver tenuto un sermone particolarmente ben riuscito, il santo si complimentò con lui più di ogni altro, ma poi gli impose di ripeterlo in altre sei occasioni diverse, fino a che tutti si convinsero che quel predicatore sapeva una sola predica.

Comunque l'intreccio di santità e umorismo si risolveva in un eccezionale buon senso dal punto di vista pedagogico. Un giorno si accorse d'aver davanti un penitente assai poco pentito che gli snocciolava una lista di peccati senza alcun vero «dolore». Lo lasciò continuare, poi gli disse che doveva assentarsi un istante, pregandolo di rimanere lì inginocchiato. Filippo non si decideva a tornare e intanto il  poveretto si agitava. Dapprima si distrasse, poi si guardò attorno, poi finì per osservare a lungo l'unica cosa che gli stava davanti, una immagine del Crocefisso. Quando Filippo tornò, lo trovò tutto piangente al pensiero di quanto erano costati i suoi peccati al Figlio di Dio!

Più noto e divertente è l'episodio della donna che continuava a confessarsi d'aver riempito il quartiere con le sue maldicenze, ma non si correggeva, tanto le sembravano cosa da poco. Finchè Filippo non le assegnò la penitenza di andar da lui spennando lungo la strada una gallina morta, poi le chiese di tornare indietro a raccattare una per una tutte le piume che il vento aveva ormai portato chissà dove. Non ci fu più bisogno di tante spiegazioni.

Non mancavano occasioni in cui manifestava tutta la sua paterna saggezza. A una donna che vedeva morize la sua bimbetta disse con rude tenerezza: «Chiediti, che Dio la vuole. Ti basti di esser stata la balia di Dio».

Ad una penitenze inquieta della sua sorte eterna, a causa dei suoi molti peccati, obiettò: «'Dimmi un poco: per chi e morto Cristo?'. 'Per i peccatori!', quella rispose. 'E tu chi sei?'. 'Una peccatrice!'. 'Allora il paradiso e tuo, tuo, tuo!'».

A chi, invece, era ostinato nell'errore, rifiutava sempre di far discorsi. Diceva: «Questi uomini superbi, non bisogna convincerli, con scritture profon­de e dispute, ma con cose semplici e da santi».

Celebri sono rimaste certe sue espressioni, ancor oggi utilizzate come slogan educativi: «Scrupoli e malinconia, fuor di case mia». «La santità dell'uomo sta in tre dita di cervelio». «Signore, fammi arrivare in fondo a quest'oggi, e non mi fa paura il domani». «La povertà e amore, ma il sudiciume noi». «II paradiso non e fatto per i poltroni». «Come lo sai e vuoi, cosa fa' con me Signore!». «Nulla trovo in questo mondo che mi piaccia, ma mi piace che sia così».«Lo Spirito Santo abita nelle menti candide e semplici».

E, per finire, anche Filippo da «buon romanaccio» d'adozione, usava le sue imprecazioni, ma le modificava a modo suo: «Possi morì ammazzato per la fede!». Non dobbiamo mai dimenticare, tuttavia, che tanto scintillio di battute e freschezza infantile, nasceva da un cuore innamorato di Cristo.

Scriveva: «Concentriamoci tanto addentro nel divino amore, ed entriamo tanto addentro nella piaga del costato, nel vivo fonte della Sapienza del Dio umano, che ci anneghiamo noi stessi e non ritroviamo più la strada di uscirne fuori».

Celebri sono rimasti questi affermazioni: «Chi vuol altro che Cristo, non sa quel che si voglia; chi domanda altro che Cristo, non sa quel che domanda; chi opera, e non per Cristo, non sa quel che si faccia».

Percio, a un giovane che voleva abbandonare la sue Congregazione, Filippo scrisse un giorno con dolcezza, ma anche con tanta severità: «Orsu che in te sta lo stare o tornare che qui non vogliamo gente per forza!... Insomma, senza Cristo non avrai mai bene, che sì vero bene».

Dobbiamo soprattutto ricordare che il suo quotidiano impegno e lavoro consisteva nell'amministrare il sacramento della penitenza. Vi dedicava lunghe ore, e sempre, fino a tarda notte, egli restava a disposizione ad accogliere peccatori bisognosi di perdono e figli desiderosi di guide spirituali e di conforto. Egli li riscaldava stringen­doseli al cuore, quel cuore che, è della prima esperienza mistica che abbiamo sopra descritto, sembrava bruciare davvero molti testimoniaro­no d'aver sentito fisicamente quel fuoco che irraggiava dal suo petto.

Ecco come egli spiegò un giorno, con un apolago, che cosa significa veramente offrirsi per la conversione dei peccatori. 

«Dicono che il pellicano, quando vuol nutrirsi, stando intorno alla riva del mare, ingoia delle conchiglie marine, che stanno serrate come sassi duri, e dentro vi e l'ostrica e la tellina, e cuocendole nello stomaco, le riscalda, e s'aprono da quella per durezza, e le vomita e così si nutrisce il pellicano di quella carne dell'ostrica che stave prima duramente serrata. Voi questi duri ed ostinati peccatori metteteveli nel cuore, e colla cariti gridate a Dio, e fate per loco, qualche penitenza... e Dio gli mandii la compassione e si apriranno al lume della grazia, e voi anime, che vi liquefarete tutte in lacrime di dolcezza, pensando al gaudio che ne fa in cielo da Dio e dagli angeli...». 

Egli non scrisse quasi nulla, solo alcune Lettere, tra cui quella dell' 11 ottobre 1585, che abbiamo appena citata. Ma il ricordo lasciato da Filippo fu così forte che perfino Goethe, nelle cronache del suo Viaggio in Italia, gli dedica alcune pagine, chiamandolo «il rnio Santo».  

Mi sembra bello citare qui altre due di queste lettere che mostrano tutto il suo stile, il suo cuore, il suo dolce e santo umorismo. A una certa «Madonna Fiora Ragni, di Napoli», scrisse: «Ancorca io non scrivo a nessuno, non posso mancare alla mia quasi figliola primogenita, Madonna Fiora, la quale desidero fiorisca, anzi che dopo il fiore produce il buon frutto, frutto d'umiltà, frutto di pazienza, frutto di tutte le virtù,albergo e ricettacolo dello Spirito Santo, e così vuol essere chi si comunica spesso, il che quando non fosse, non vi vorrei per figliola; e se più figliola, ma figlia d’ingrata, ed sorta che al giorno del giudizio vorrei esser contro di voi. Dio ciò non permetta, ma se bene vi faccia fiore fruttuoso, come di sopra ho detto, e tutta fuoco, onde il povero vostro padre si posse riscaldare, che il muore dal freddo. Non altro. Tutto vostro». Roma il  27 giugno 1572. Filippo Neri.

Amor di Dio e tenerezza umana sono mescolate in questa lettera, con un equilibrio che e solo la grazia può raggiungere.

Quasi ancor più bella è una lettera che egli scrisse a papa Clemente VII, rimproverandolo perchè non andava a trovarlo. Gli dice, confidandogli tra l'altro le sue più personali grazie mistiche: «Gesu Cristo a sette ore di notte si venue a incontrarsi con me; e vostra Santità guardi che Ella venisse pure una volta nella nostra Chiesa. Cristo è uomo e Dio, e mi viene a visitare ogni volta che io voglio; e vostra Santità e uomo puro, nato da uomo santo e dabbene. Esso è nato da Dio Padre, Vostra Santità nato da donna Agelica, santissima donna; ma Esto e nato dalla Vergine delle vergini. Avrei da dire, se volessi secondare la collera che ho».

E continuava, chiedendogli un particolare favore con questa formula: «Comando alla Santità vostra che faccia la mia volontà». Anche se poi, la lettera si concludeva tradizionalmente: «Con quella maggiore umiltà che devo, bacio i santissimi piedi».

Papa Clemente gli fecer estituire il memoriale dopo avervi fatto aggiungere questa postilla, piena di affetto: «Del non esser venuto a vederla dice che Vostra Reverenza non lo merita, perchè non ha voluto accettare il cardinalato. E quando Nostro Signore lo viene a vedere, lo preghi per lui e per i bisogni urgenti della cristianità». Nel 1592 sembrò che Filippo stesse per morire.

Ormai i medici avevano chiuse le cortine del suo letto e invitato i presenti ad attendere in pace la fine imminente, quando a un tratto tutti lo udirono esclamare: «Oh mia Madonna Santissima! Mia bella Madonna! Madonna mia benedetta».  

Aprirono i tendaggi e lo trovarono inginocchiato, con le mani alzate, sospeso per aria, che ripeteva piangendo: «Non sono degno! Chi sono io, o mia cara Madonna, perche voi veniate a me? Chi sono io? Oh Santissima Vergme! Oh Madre di Dio! Oh benedetta tra le donne!».

Quando si risvegliò da quell'estasi disse ai presenti: «Non avete visto la Madre di Dio che è venuta a trovarmi e a portar via le mie sofferenze?». Poi s'accorse d'esser in ginocchio, e si rifugio nel letto, si tiro le coperte sul capo e scoppio a piangere. Quindi si alzo a sedere sul letto tutto contento e disse ai medici: «Non ho più bisogno di voi! La Madonna mi ha guarito».

Aveva settantasette anni. Vivrà ancora tre anni, in una sorta di continua preghiera. Ciò che desiderava ogni giorno di più era la Santa Comunione. Quando non riusciva a dormire, invece di far chiamare il medico, chiedeva: «Datemi il mio Signore e poi mi addormenterò!». Morì nella festa del Corpus Domini del 1595.

Fu canonizzato assieme a sant' Ignazio di Loyola e san Francesco Saverio che egli aveva conosciuto e amato; assieme a santa Teresa d'Avila (che era nata nel suo stesso anno) e assieme a sant'Isidoro Agricola, tutti spagnoli.

In quel giorno i romani che allora avevano un po' di rabbia nei confronti degli iberici, dissero che il Papa aveva canonizzato «quattro spagnoli e un Santo». In Italia, quando ancora il Neri viveva, già girava un libro in latino che aveva questo titolo: Philippus, sine de Laetixia cristiana. Filippo, cioè la gioia cristiana.

Antonio Sicari

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