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San Luigi Gonzaga

Era una lotta durissima: il giovane marchese si rendeva conto che stava scardinando un sistema sociale e che ciò esigeva violenza. Ma non fustigava gli altri, fustigava se stesso: quella parte di sé che era solidale col potere e col lusso.


San Luigi Gonzaga

da Testimoni della Fede

del 08 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

San Luigi Gonzaga

(9 marzo 1568 - 21 giugno 1591)

I santi “vedono Dio”: non tanto perché godono a volte di qualche rivelazione o di straordinarie illuminazioni interiori, ma perchéaccolgono nella loro vita una evidenza: che Dio è; che Egli si è paternamente mostrato nel volto del Figlio suo, Gesù; che lo Spirito Santo «conosce il nostro spirito» e il nostro spirito può davvero riconoscerLo.

I santi poi vivono una loro “contemporaneità” con i misteri della vita di Cristo, e vi prendono personalmente parte: essi ne hanno una esperienza, «mistica», cioè più reale di ogni altra cosa reale. Ogni altra cosa infatti si allontana da noi assieme a quel frammento di tempo che la contiene, ma la partecipazione ai misteri di Cristo fa entrare l'eternità di Dio nei frammenti di tempo; e così «li conserva per la vita eterna».

Per questo i santi spesso ci sfuggono: essi trattano con i loro contemporanei, e noi studiamo volentieri carteggi, cronache, documenti; ma essi trattano anche familiarmente con le tre divine Persone, con Gesù, Figlio Incarnato di Dio, con Maria Vergine e con gli altri santi. Spesso, coloro che si accostano a un santo per conoscerlo e comprenderlo tengono in poco conto le sue celesti relazioni. I biografi cosiddetti «laici» le trascurano sdegnosamente per principio, quelli credenti le considerano «a parte». II risultato è che in tal modo i santi finiscono sempre per sembrare un po' strani e, nei casi peggiori, perfino ambigui.

Tutto ciò vale in modo speciale per san Luigi Gonzaga: lasciato da solo, tra regnanti e gesuiti, sembra un ragazzo introverso, nevrotico e angelicato; ma messo davanti al suo Crocifisso e alla Vergine Santa, tutto questo scenario si anima e la vicenda si fa calda e appassionante.

Un tempo il popolo cristiano queste cose le intuiva spontaneamente: Luigi Gonzaga venne beatificato prestissimo, appena quattordici anni dopo la morte, quando la mamma era ancora in vita, per una sorte di pressione popolare che lo proclamò tale irresistibilmente; e il suo culto si diffuse oltre ogni regola. Ancor prima della beatificazione il Papa dovette dare uno speciale permesso per lasciarlo ritrarre con l'aureola e per lasciar collocare in qualche Chesa il suo ritratto.

Ne si può dire che ciò sia dipeso dall'influsso del potente ordine gesuita, tutto teso a glorificare i suoi appartenenti. Basti pensare che Luigi, morto nel 1591, fu beatificato nel 1604, mentre Ignazio di Loyola, il fondatore, morto gia nel 1556, dovette attendere fino al 1609, cinquantatre anni dopo la morte. Anzi i gesuiti dovettero fare pressioni per impedire che Luigi venisse canonizzato prima del suo Padre e Maestro.

Fu a partire dalla metà del secolo scorso che l'Italia anticlericale prese a scagliarsi con inaudita violenza e antipatia contro questo Santo. Perfino Gioberti, benchè fosse un prete, riteneva che la santità del Gonzaga fosse «inutile in sè e dannosa a imitarsi» e consigliava caldamente di non proporlo alla imitazione dei giovani. Agli inizi del nostro secolo, Turati, che pure ammirò Piergiorgio Frassati, dedicò a San Luigi un sonetto blasfemo, chiamandolo «santucolo patito» e descrivendolo come un casto ipocrita che è tale solo perché «sogna nefandezze». Concludeva affermando d'aver voglia di sputacchiarti oscenamente in viso».

Una biografia scritta nel 1922 lamenta che qualche anno prima un non nominato uomo tra i più famosi del mondo»: (evidentemente si trattava di Mussolini), s'era lasciato andare a scrivere su un diffusissimo quodiano: «Noi disdegniamo la frigida purità degli impotenti: noi sputiamo in faccia ai San Luigi Gonzaga che temono di guardare in faccia la madre la vita per terrore di commettere peccato!».

I nemici della Chiesa ebbero, dunque, buon gioco nel farlo passare per «L’imbecille esaltato artificiosamente dai gesuiti, o almeno per reagire alle licenziositià del secolo XVI».

Basti pensare che Monsignor Francesco Olgiati era costretto a pubbli­care un opuscolo polemico dal titolo: 'La pretesa imbecillità di san Luigi Gonzaga'. In occasione del quarto centenario della morte (1591-1991) molti biografi hanno cercato perciò di sfatare l'immagine «di quel ragazzino dal collo storto e il giglio in mano».

In cambio è stata offerta una nuova immagine, più alla moda: quella del contestatore d'ogni privilegio sociale e quella del «martire del volontariato», fissando il Santo in quell'ultimo gesto che lo rappresenta come  un giovane gesuita emaciato mentre si trascina sulle spalle il suo appestato che gli trasmette il contagio mortale. Lo si è anche proposto come «patrono dei malati di aids: cosa ottima se per indicare loro la dolcezza della carità ecclesiale e l'universale vocazione alla santità; cosa sciocca e ridicola se si dimentca che Luigi è esempio e patrono di coloro che a questi infelici dedicano caritatevolmente la vita. Non si dimendchi, inoltre, che il suo resta un messaggio di innocenza, anche fisica. Resta, tuttavia, il rischio di far nascere una nuova devozione, senza che venga nuovamente e meglio compresa quella «parola di Dio» che ogni santo è e vuol essere per la Chiesa.

Ritorniamo perciò alla nostra persuasione iniziale: per comprendere un santo bisogna collocarlo nel suo ambiente vitale: dove, però, a «vivere» e a «fargli compagnia» non furono soltanto i personaggi del tempo, ma Gesù, e la Madre sua Maria, gli angeli e i santi che vivono in cielo e popolano, tuttavia, la terra.

Cominciamo pure a parlare degli uomini. Luigi nasce nel 1568: è un Gonzaga dei marchesi di Castiglione. Nel palazzo ducale di Mantova, nella celebre «Camera:degli Sposi» affrescata dal Mantegna ne11474 e raffigurato il giovane Rodolfo, il bisnonno del nostro Santo. : . .

Ferrante Gonzaga, il papà, è un uomo orgoglioso, dalle collere tempestose, incline al vizio del gioco, ma attaccato alla famiglia e alla sua fede. In quegli anni ottiene l'ambito titolo di «Principe dell'Impero». La mamma, Marta di Santena, è una contessa piemontese (una Delta Rovere, per paste di madre): e resterà sempre una Santa donna che lascerà sul figlio Luigi un’impronta indelebile, fin dalla primissima infanzia. I due, Ferrante e Marta, si sono conoscuti  e sposati giovanissimi alla corte di Madrid. Si dice che il loro sia stato il primo matrimonio celebrato secondo le nuove disposizioni del Concilio di Trento

Quando Marta rimane incinta i medici le preannunciano un parto difficile, tanto che ella consacra il bambino alla Madonna di Loreto, e il piccolo venne battezzato prima ancora che sia completamente uscito dal grembo materno.

Gli antichi biografi annotano dunque compiaciuti; «il bimbo non fu prima nato al Mondo che in grazia di Dio e a Dio rinato, il che a singolare favore di Dio si deve attribuire che fin dal ventre della madre lo volle possedere».

Dei Gonzaga si diceva che avrebbero potuto primeggiare in Italia per ricchezze, valore e relazioni se non si fossero via via distrutti da se stessi con la violenza, la prodigalità e l’esasperata lussuria. I predicatori di un tempo usavano presentare il nostro santo con questa lapidaria definizione: «casto, benche Gonzaga».

In verità Ferrante e Marta si distinsero per provata fede, ma anche la loro famiglia non fu risparmiata dal sangue e dalla sventura.

Già il nonno Luigi era stato accusato d'aver avvelenato il duca di Urbino e di aver intrapreso un tentativo simile contro Pierluigi Farnese. Più tardi, dopo la morte di Luigi, Rodolfo, il fratello che da lui ricevette in dono il marchesato, sarà accusato d'aver avvelenato uno zio per impadronirsi di Castel Goffredo: e sarà per questo assassinato sui gradini della chiesa. Anche la mamma di Luigi scamperà a stento alla morte, pur ricevendo sette pugnalate, mentre il figlioletto Diego (fratellino di Luigi) le sarà ucciso in braccio.

Ciò basta almeno a far comprendere quale sangue scorresse nelle vene del marchesino Luigi Gonzaga; e quale fosse l’atmosfera che si respirava nelle corti del Cinquecento.

Luigi, nella sua breve vita, dà prova di un carattere piuttosto ostinato e di una determinazione così inesorabile - e lo vedremo quando bisognerà parlare della sua scelta vocazionale, delle sue preghiere e penitenze - che non è ozioso chiedersi che cosa sarebbe diventato se non avesse ceduto al richiamo di Dio.

Da ragazzo, nella Chiesa dell'Annunciata a Firenze, volle fare un giorno la sua confessione generale: aveva sulla coscienza solo qualche marachella infantile, e tuttavia i biografi raccontano che «svenne al pensiero di quello che sarebbe stato di lui se avesse continuato come nei suoi priori anni». Più avanti negli anni lo udranno dire: «sono un pezzo di ferro contorto che dev'essere raddrizzato». Era solo indice di una coscienza scrupolosa o era il dono di una impressionante lucidità interiore?

I santi, quando si tratta di peccati si noti bene - soprattutto di quelli che avrebbero potuto commettere, se la grazia di Dio non li avesse prevenuti­ - sono di una acute sensibilità, strana, forse, solo per la nostra mediocrità. Nel 1578 Luigi e Rodolfo vennero mandati alla corte fiorentina dei Medici sia per provvedere convenientemente alla loro educazione sia per allontanarli dal rischio della.peste che devastava i territori vicini a Castiglione.

Così a dieci anni il nostro marchesino giocava nei giardini di palazzo Pitti, con le principessine Eleonora (futura duchessa di Mantova) e Maria (futura regina di Francia); gli piacevano le corse dei cani, la caccia e il tiro a segno, e si lasciava vestire alla spagnola, secondo il cerimoniale di morte. Ma non gli poteva sfuggire l'atmosfera torbida sensuale e tragica che stagnava tra quello splendore. Si diceva che il fratello del Granduca avesse ucciso la moglie per gelosia, e Luigi dovette partecipare ai compunti, impeccabili funerali.

Poco tempo dopo si disse che la sorella del Granduca era morta in un incidente di caccia, al quale nessuno credeva. E poco dopo, ancora, moriva di parto e di crepacuore la stessa Granduchessa, mentre il marito da tempo ostentava il suo amor con una bionda e opulenta patrizia veneziana; anche a questi funerali Luigi dovette partecipare, anzi li raccontò al padre in una delle sue prime lettere che ancora possediamo.

Con tutto ciò la vita scorreva elegante e raffinata. Ora possiamo capire però il motivo per cui Luigi si rifiutava di subire nel gioco, la penitenza di dover baciare anche solo l’ombra di una ragazzina, proiettata sul muro.

E non ci sembrerà più così strano sapere che un giorno quel ragazzo se ne uscirà in questa scandalosa osservazione: «le ceneri di un principe non differiscono da quelle di un poverino, se non forse nell'essere più puzzolenti».

E tuttavia egli dirà poi che Firenze era stata «la culla e la madre della sua devozione»; si era innamorato della Santa Vergine; meditava lungamente un libretto sui misteri del Rosario e amava visitare le belle chiese fiorentine dedicate alla 0Madonna.

Il 15 agosto 1578, nella Chiesa dell'Annunciata, il bambino spontaneamente si consacrò a Maria, come Lei si era consacrata a Dio, facendo voto di verginità. Intuiva abbastanza bene che cosa questo dovesse significare.

Siamo così giunti al punto nodale: se non si crede ai protagonisti celesti, se non li si accetta come una reale presenza e una reale compagnia; ciò che poi accadrà.. resta inspiegabile: da allora in poi Luigi visse soprattutto «al di dentro», nel mistero della sue offerta che sapeva accettata.

Dalla corte di Firenze dovette passare a quella di Mantova. Qui si ammalò di cistite e i medici gli ordinarono una dieta durissima a pane e acqua. Il ragazzo ne approfittò per imparare la penitenza, spingendola ai limiti del tollerabile, per, amore a Gesù crocifisso. Qui ebbe la gioia di ricevere la prima comunione dalle mani di san Carlo Borromeo che giungeva in visita pastorale. Intanto un corteo di principi attraversava l'Europa. Per volontà di Filippo II, che aspirava alla corona del Portogallo; l’imperatrice Maria, allora la prima donna del mondo, era partita da Praga per Madrid. Ai Gonzaga si era fatto capire che era gradita la Loro presenza al corteo: di fatto era un ordine. Così nel 1581 l’intera famiglia Gonzaga raggiunse il corteo a Vicenza continuando poi il viaggio per Verona, Brescia, Lodi, Genova, dove li attendeva la flotta, dell'ammiraglio Andrea Doria. Giunsero a Madrid nel marzo del 1582 e i due ragazzi Gonzaga furono assegnati come paggi d’onore al principino ereditario. Dovevano dividere il tempo tra il servizio dovuto all’erede e lo studio di grammatica, filologia, filosofia, e un po' di teologia.

Di quanta stima godesse Luigi si può dedurre dal fatto che a lui, quindicenne, fu affidato l'incarico di comporre e pronunciare in latino il discorso gratulatorio in onore di Filippo II, per festeggiare la nuova corona del Portogallo. La corte di Madrid era senz'altro più austera di quelle italiane, ma non certo più felice; e Luigi continuava a percepire la menzogne di quel mondo cui sentiva di non appartenere. Racconterà poi che quando nei palazzi dei principi e nelle corti vedeva gli argenti e gli ori, gli addobbamenti, gli ossequi dei cortigiani, appena appena poteva contenersi dal non ridere, tanto gli sembravano tutte cose vili...

C'è un episodio che può far sorridere, ma che ha una sua profonda tristezza. Un giorno Don Diego, erede che Luigi doveva chiamare Serenissimo Nostro Signore, anche se aveva soltanto sette anni, abituato ad essere obbedito in ogni suo capriccio, arrabbiato perché il vento scompigliava i suoi giochi, gridò: «Vento stupido, io ti comando di non darmi fastio!». Luigi sorridendo gli disse: «Vostra Altezza può comandare agli uomini che t’ubbidiranno, ma comandare alla natura lo può solo Dio, al quale anche il futuro Cardinal Federico Borromeo, Vostra Altezza deve obbedire». Certamente il marchesino Gonzaga avrà ripensato all'episodio nei giorni terribili in cui dovrà assistere, pochi mesi dopo, il principino morente di vaiolo; e quando dovrà accompagnare il piccolo cadavere nelle severe tombe dell'Escorial. Tutto contribuiva a rendere Luigi sempre più deciso. Dicevamo prima della sua inesorabile determinazione: eccone un esempio che risale a quegli anni. Gli capitò tra le mani il Compendio di vita spirituale di Luigi di Granada, un testo allora assai celebre che insegnava la preghiera mentale.

Scrive un biografo: «Luigi si determinò di volere, ogni dì, fare almeno un'ora di orazione, senza distrazione alcuna. Onde si poneva in ginocchio al suo solito, senza appoggiarsi mai e cominciava la meditazione; e se dopo mezz'ora, o tre quarti, per esempio, gli fosse venuto all mente qualche pensiero di minima distrazioncella non metteva a conto dell’ora quanto aveva già fatto, ma da quel punto di nuovo cominciava un'altra ora, e così perseverava, finchè gli fosse riuscito di farne un’ora intera senza svagamento veruno. Così per un pezzo durò di fare cinque o talvolta più. Che non si tratta di un’amplificazione agiografica è provato da una testimonianza diretta quando Luigi novizio gesuita, durante un resoconto di coscienza fatto al Maestro di noviziato, alla domanda circa le distrazioni in tempo di preghiera, risponderà che in sei mesi ne aveva avute tante da riempire il tempo di un’intera Ave Maria. Solo prendendo sul serio queste affermazioni possiamo capire a che punto fosse il dominio che egli esercitava su se stesso e a quale profonditi si radicasse ormai la sua decisione di consacrarsi a Dio. Ma non la poteva comprendere il padre.

Appena Ferrante seppe della decisione del figlio di abbracciare la vita religiosa, fu preso da una di quelle violentissime collere, per cui era celebre. Si sendva adirato da quel figlio nel quale aveva posto tutte le sue speranze per la fortuna del marchesato. Tentò di dissuaderlo in ogni modo. Se ne sarebbe parlato al ritorno a Castiglione. Nel 1584 poterono lasciare Madrid. Appena messo piede in patria, Ferrante ordinò ai due figli maggiori di fare un giro di cortesia per le corti italiane. A parole doveva essere un giro di commiato, in realtà egli sperava di mettere sotto gli occhi del figlio ogni possibile attraente principessa che to facesse innamorare. Luigi si recò dunque a Mantova, dove vide al lavoro il Tintoretto, poi a Fermm dagli Estensi, a Pavis, poi a Torino dai Savoia, dove era Arcivescovo il cugino della mamma.

Rodolfo si pavoneggiava ormai come il vero erede, Luigi vestiva severa­mente di nero e si appartava appena poteva. Non gli mancò qualche invito galante, che cadde inesorabilmente nel vuoto.

Tornato a Castiglione, pensava di ricevere finalmente il consenso pro­messo, ma Ferrante non se ne stava per inteso. Al contrario, egli fece intervenire tutto il parentado e gli amici di famiglia (dignitari, vescovi, celebri predicatori) perché spiegassero al figlio che era suo dovere davanti a Dio prendersi cura delle sue terre e della sua gente. Ma tutti finivano per convincersi non solo che Luigi era irremovibile, ma che la vocazione gli veniva da Dio. Se almeno avesse rinunciato all'idea di farsi gesuita, si poteva spianargli la strada a qualche vescovado! Ma Luigi precisava che proprio per questo aveva scelto la Compagnia di Gesù: perché la regola proibiva ogni dignità ecclesiastica.

Le discussioni finivano sempre allo stesso modo: uno scoppio d'ira del padre e Luigi che veniva cacciato via dalla sua presenza; una volta perfino cacciato di casa e si rifugiò in un convento.

Un giorno, dopo l'ennesimo litigio, il marchese lo fece richiamare un po' più presto del solito, per riprendere la discussione: ma Luigi non poteva venire. Riferirono che s'era chiuso in camera e là si flagellava piangendo davanti al suo Crocifisso: sembrava non udisse neppure.

Accorsero i genitori e lo osservarono smarriti da una fessura nella porta: questa volta Ferrante diede il consenso e Luigi potè scrivere al Generale dei Gesuiti che «gli offriva e gli donava tutto se stesso». Ma c'era ancora tempo: non si poteva far nulla prima che l'imperatore acconsentisse al passaggio della successione, e Ferrante faceva in modo di allungare i tempi. Ogni tanto tornava sulle sue decisioni e Luigi continuava nelle sue straordinarie penitenze.

Era una lotta durissima: il giovane marchese si rendeva conto che stava scardinando un sistema sociale e che ciò esigeva violenza. Ma non fustigava gli altri, fustigava se stesso: quella parte di sé che era solidale col potere e col lusso.

Finalmente a Mantova, nel castello di San Sebastiano potè aver luogo la cerimonia di rinuncia alla primogenitura. I biografi raccontano che un gran numero di sudditi s'era riversato piangendo nei cortili del palazzo: «Non eravamo degni - dicevano - d'avere lui per padrone... egli è un santo e Dio ce lo ha tolto».  A chi ancora lo rimproverava per la sua rinuncia, rispondeva: «Cerco la salvezza, cercatela anche voi! Non si può servire a due padroni... è troppo difficile salvarsi per un signore di Stato!»,

Rodolfo non stava in sé dalla gioia, ma Luigi diceva sorridendo: «Sono io quello più felice!». Dopo pochi anni Luigi sarebbe stato sugli altari, Rodolfo sarebbe finito assassinato e scomunicato.

Finalmente il 4 novembre 1585; accompagnato dai suoi fino alla riva del Po, Luigi con un piccolo corteo si incamminò verso Roma. Portava con sé una lettera del papa indirizzata al Generale della Compagnia, in cui Ferrante ­addomesticando diplomaticamente la verità diceva d'aver resistito a lungo, «per timore di qualche incostanza» da parte del figlio, data la troppo giovane età; ma poi concludeva commosso: «domando a V. Signoria Rev.ma che gli sarà Padre più utile di me»; e aggiungeva ancora con un ultimo rimpianto: «ella diviene padrone del più caro pegno che io abbia al mondo e della principale speranza che io avessi nella conservazione di questa mia casa». Ferrante sarebbe morto, santamente, dopo pochi mesi.

Luigi potè così iniziare il suo noviziato. Scelse per se il motto: «come altri!», per indicare che niente doveva più ricordare le sue origini principesche. Allora i gesuiti non erano per nulla teneri nei metodi formativi. Quando il maestro si accorse che quel novizio eccezionale aveva la fastidiosa abitudine di tener sempre il capo chino e gli occhi bassi «parte per divezzarlo, parte per mortificarlo gli fece fare un collare di cartone ricoperto di tela e glielo fece portare per molti giorni, legato alla gola, in modo che non potesse chinare il capo, ma era sforzato a tenerlo alto, ed egli con allegrezza grande lo portava, sorridendo di ciò, quando si trovava con gli altri in ricreazione».

L'episodio e sintomatico: Luigi giungeva in quel noviziato, a diciassette anni, con un tale bagaglio ascetico che il problema educativo, nei suoi confronti, fu piuttosto quello di liberarlo da troppe asprezze ed esagerazioni.

Fino ad allora egli si era diretto da sé non avendo una guida spirituale. Già alla corte di Madrid usava concludere sempre la sua preghiera con l’invocazione: «Mio Dio, dirigimi tu».

Aveva acquistato un tale autocontrollo che dopo messa che frequentava giomalmente l'imperatrice, confessava che non avrebbe saputo riconoscerlo: Non aveva mai alzato lo sguardo su di lei, aveva usato l’etichetta di corte «per vivere proteso al di dentro, senza distrazione alcuna».

Della sua ascesi contemplativa e dei suoi eccessivi digiuni abbiamo già raccontato. Era dunque un novizio che aveva bisogno d'essere addolcito da educatori saggi e paterni: Luigi lasciò fare come un bambino che si affida: imparò l’allegria, la tenerezza, la disponibilità gioiosa. Non si faceva problemi: aveva promesso obbedienza e perciò stava in pace.

Gli vietarono perfino di fare orazione, perché soffriva di emicrania. Egli si limitava, allora, a passare frequentemente davanti al Santissimo Sacramen­to, per fare almeno qualche genuflessione, fuggendo in fretta per non cadere in estasi.

Era in una situazione non priva di umorismo. A un padre anziano confidava: «Veramente io non so che farmi. II Padre rettore mi proibisce di fare orazione, acciochè con l’attenzione io non faccia violenza alla testa; ed io maggior forza e violenza mi fo, mentre cerco di distrarre la mente da Dio che in tenerla sempre raccolta in Dio, perché questo per l’uso mi è quasi diventato connaturale, e vi trovo quiete e riposo e non pena».

Giunse a pregare con la formula: «Allontanati da me, o Signore», perché lo sentiva troppo presente e gli avevano ordinato di distrarsi.

La stessa cosa succedeva per le penitenze: aveva la proibizione di fame, ma non era la fame la vera penitenza, tanto era ormai abituato. Viveva però tali paradossi con fede limpida e acuta.

Sull’argomento confidava a un confratello che nel mondo egli aveva fatto molte più penitenze di quante gliene era concesso fare in noviziato, ma che «si consolava sapendo che la Religione (dunque: la vita religiosa) è come una nave, nella quale non meno fanno progresso nel viaggio quelli che per ubbidienza stanno oziosi, che altri che s'affaticano a remare».

Ecco l’affascinante nuova immagine che Luigi aveva della sua fede facendosi gesuita egli aveva potuto finalmente appartenere a una compagnia salvifica. Era questa Compagnia a portarlo e a salvarlo, non più la sua personale bravura: su una nave viaggiano tutti, anche quegli che sono momentaneamente sfaccendati.

Non c'e immagine più bella per comprendere cos'è il miracolo delta comunità cristiana. Così egli visse quegli ultimi cinque anni di vita che gli restavano, secondo il disegno di Dio. I Padri che dovevano educarlo non si nascondevano la persuasione d'aver ricevuto un dono di eccezionale valore.

Lo vedevano fragile di costituzione, ma di una tempra tale che sarebbe potuto diventare la loro guida. Durante i processi di beatificazione, insistettero molto su questo: «Era da tutti trattato con tanto rispetto come se fosse stato più avanzato in età... Lo solevano chiamare: il nostro generalino, persuasi com'erano che egli avrebbe certamente occupato, per le sue rare doti, un tale ufficio».

E ancora: «era opinione comune tra noi che, se Dio gli dava vita, sarebbe stato un soggetto atto per ogni gran incarico nella nostra religione». A quel tempo la Compagnia di Gesù era un Ordine in pieno vigore ed espansione: succedere a Ignazio di Loyola - morto da appena trent'anni ­era un compito quasi sovrumano.

Eppure, davanti a questo diciottenne emaciato, molti pensarono istin­tivamente a lui come successore.

Il Padre Muzio Vitelleschi - che era allora prctfessore di Luigi e Assi­stente generale per l’Italia, e che sarebbe poi divenuto Generate dell'Ordi­ne - quando vide Luigi sul letto di morte, non riusciva a credere che la malattia fosse così grave.

Chi immagina Luigi come un giovane sprovveduto e tenerello, non ha compreso nulla della sua vera statura.

Intanto a Roma, sul finire di quel 1590, si stava preparando la tragedia: prima la siccità, poi la carestia, poi il riversarsi in città di turbe di contadini affamati, poi lo scoppio dell'epidemia di tifo esantematico. Gli ospedali brulicavano di infermi gettati in ogni dove: nei tuguri e negli angoli delle strade molti moriano abbandonati.

I gesuiti prima si dispersero a servire nei vari ospedali della città, poi adibirono un'infermeria parte della loro casa, ingrandendola quanto più possibile. Luigi, quando non era con malati e moribondi - e si sceglieva i più ripugnanti con tenerezza infinita - girava per i palazzi dei nobili (con alcuni aveva giocato fanciullo, nei giardini di corte) a chiedere l’elemosina per i suoi poveretti.

Non si risparmiava, anche se i superiori gli avevano proibito di frequentare gli ospedali dei contagiosi. Ma egli diceva: «Sento un tale desiderio, una tale forza di faticare e di servire Dio, che Dio non me ne darebbe tanta, se non stesse per togliermi la vita».

Un giorno che tornava della consueta assistenza, trovò un appestato morente all'angolo della strada. Se lo caricò sulle spalle e lo portò in ospedale. Contagiato, dovette mettersi a letto e vi restò per quattro mesi morendo lentamente. Quando poteva scendeva dal suo lettuccio per inginocchiarsi davanti al Crocifisso. Se lo rimproveravano, rispondeva: «Sono le stazioni della mia Via Crucis».

A tutd diceva: «Me ne vado felice», e alla mamma nell'ultima lettera scrisse: «Non piangete come morto uno che ha da vivere per sempre davanti a Dio». Morì a Roma il 21 giugno 1591. Nello stesso anno in Spagna moriva san Giovanni della Croce. In Francia sta per nascere santa Luisa de Marillac. Ognuno con una missione diversa e lontani tra loro. Tutti nel grembo materno della stessa Chiesa.

Antonio Sicari

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