Ogni volta che racconto la mia storia sento riemergere in me, come torrenti in piena, gli stati d'animo, le emozioni, le passioni, i sentimenti vissuti allora... Gli anni e i secoli non hanno potuto cancellare l'impronta lasciata sulla mia vita da Gesù di Nazareth, il Cristo morto su una croce e risorto dai morti, soprattutto se ripenso al momento in cui mi sono sentito afferrato sulla via che portava a Damasco...
del 01 gennaio 2002
Ogni volta che racconto la mia storia sento riemergere in me, come torrenti in piena, gli stati d’animo, le emozioni, le passioni, i sentimenti vissuti allora… Gli anni e i secoli non hanno potuto cancellare l’impronta lasciata sulla mia vita da Gesù di Nazareth, il Cristo morto su una croce e risorto dai morti, soprattutto se ripenso al momento in cui mi sono sentito afferrato sulla via che portava a Damasco… Ma procediamo con ordine…
La mia città di origine è Tarso. Nel primo secolo d.C. Tarso era un porto internazionale animatissimo. Vi approdava di tutto: dalle spezie alle fedi più eterodosse, dalle stoffe alle tradizioni più disparate. Un vero e proprio "porto di mare". Bastava aggirarsi per le sue vie per sentire le lingue e i dialetti più diversi: dal greco all’ebraico, dal latino all’aramaico. A volte mi chiedevo come i miei genitori avessero potuto restare così a lungo in quella città, rimanendo fermamente ancorati alla tradizione del nostro popolo, come fedeli sentinelle e gelosi custodi della rivelazione di Dio.
Il fascino del mondo che ci circondava era forte e non erano pochi i nostri amici ebrei che piano piano, a volte senza nemmeno rendersene conto, si allontanavano dalla fede dei Padri per vivere secondo uno stile di vita meno coerente. Un simile contesto incideva parecchio anche su di me: il mio cuore era inquieto, a motivo della costante minaccia a cui venivano continuamente sottoposte le mie certezze più profonde; il mio spirito era lacerato dal contrasto che notavo tra l’affascinante apertura universale della mia città e la severità della vita familiare. Più crescevo, più il disagio aumentava: per questo i miei genitori decisero di mandarmi a Gerusalemme, per immergermi nella terra e nella memoria del mio popolo, sotto la guida di uno dei più grandi e rinomati maestri: Gamaliele. Del resto potevamo permettercelo.
A Gerusalemme vissi gli anni più belli della mia giovinezza. Il fascino di quella città, cantato da tanti Maestri e dalla stessa Torah, mi penetrò nel cuore, infondendomi un amore appassionato per le tradizioni dei Padri e per tutte le sottigliezze della Legge. Mi distinsi assai presto alla scuola di Gamaliele: non c’era discussione che sentivo estranea, non c’era domanda a cui io non trovavo una risposta, non c’era interpretazione della Torah a me sconosciuta. Avevo come l’impressione di avere Dio in pugno, di avere afferrato il nocciolo di ogni cosa.
In quegli anni, Gerusalemme era una città lacerata politicamente e spiritualmente. Al peso del dominio romano e delle sue violenze, si aggiungevano gli intrighi politici delle classi sacerdotali (i sadducei) e le reazioni violente degli zeloti. Solo i farisei cercavano di starsene fuori da questo oscuro gioco, cercando nella stretta osservanza della Legge una risposta a quella generale confusione. Forse fu per tale motivo che mi trovai così bene in mezzo a loro. Voi nemmeno immaginate quanti falsi maestri si aggirassero a quei tempi in Palestina, spacciandosi per profeti o per inviati di Dio, lasciando sempre più disorientata la mia gente. La prima volta che sentii parlare del Nazareno non ci feci nemmeno caso! I miei fratelli avevano bisogno di certezze, non di fanfaroni… avevano bisogno di gustare la forza della Legge, non le voglie di uomini ispirati chissà da chi! Più studiavo e crescevo, più mi convincevo che la risposta a tutti i miei interrogativi mi veniva offerta a chiare lettere dalla Legge mosaica. Quella costituiva il mio grande punto di riferimento.
Potrei continuare ma per ora preferisco fermarmi qui. E’ importante lasciarvi del tempo perché anche voi entriate un po’in sintonia con quel mondo lontano che io ho percorso in lungo e in largo.
Continuo il mio racconto da dove l’ho lasciato. Vi parlavo del Nazareno… Ebbene, quel Gesù di Nazareth finì male: lo inchiodarono su una croce insieme ai ribelli e ai sobillatori dell’ordine costituito. Io ero convinto che ciò bastasse per mettere una pietra sopra tutta la sua storia, e invece… più il tempo passava, più aumentava il numero dei suoi discepoli, che lo ritenevano vivo e operante in mezzo a loro. Eravamo al limite del buon senso, eppure la loro presenza si estendeva come una metastasi: vivevano tra noi, circolavano tranquillamente nel Tempio, frequentavano le nostre sinagoghe senza mai perdere l’occasione per parlare di Gesù come il Messia di Dio. Molti ne restavano affascinati… si parlava addirittura di guarigioni miracolose. C’era veramente motivo per essere allarmati.
Alla scuola di Gamaliele se ne discuteva spesso. Devo confessare che io restai come di sasso quando sentii il mio maestro esitare di fronte a tutta questa faccenda: il Sinedrio aveva deciso di usare le maniere forti, arrestando i discepoli più in vista di quella setta e accordandosi per la loro condanna a morte. La cosa era quasi fatta, quando fu proprio Gamaliele a intervenire dicendo che tale scelta poteva costituire un grave errore: era meglio aspettare ancora e discernere se quel movimento veniva o meno da Dio. Quando seppi di tale esitazione, sollevata da un maestro tanto insigne, mi sentii invadere dalla rabbia. Era come se tante certezze venissero messe a confronto con l’orrendo patibolo della croce, come se la forza della Legge dovesse misurarsi con un corpo nudo, orrendo, appeso a un legno. Quel giorno discussi a lungo con Gamaliele e più lui sollevava le sue perplessità, più io alzavo la mia voce, pieno di foga, ribadendo i principi che lui stesso mi aveva inculcato. Era solo l’inizio di un lungo tormento…
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