Paolo ha cominciato a scrivere per necessità dopo la conversione e così è passato alla storia grazie a epistole giustamente famose: la letteratura cristiana comincia con lui!
del 01 gennaio 2002
Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore. Non vi era predisposto già nel senso materiale del saper impugnare un calamo (visto che i suoi scarsi interventi di questo genere. stando a quanto leggiamo in Gal 6, 11, dovevano essere poco eleganti), ma neanche quanto all’orgoglio e al piacere di saper stendere un qualsivoglia testo magari per dettatura a uno scrivano, come di solito avveniva (visto che in 2Cor 11, 6, per quanto si debba qui tener conto di un atto di modestia, si professa inesperto nella parola). Un terzo modo di scrivere una lettera consisteva nell’affidare a un segretario o amanuense di fiducia il pensiero da svolgere, lasciando a lui la stesura effettiva del testo; ma prima della sua «conversione» Paolo non aveva comunque nessun motivo per redigere un qualsiasi testo scritto.
Infatti, l’educazione farisaica che aveva ricevuto a Gerusalemme ai piedi di Gamaliele, come dimostrerà per lungo tempo la tradizione delle scuole rabbiniche (almeno fino al 200 d. C.), consisteva essenzialmente nel saper leggere i testi classici delle Scritture di Israele e nell’arte di spiegarli a viva voce, non nello scrivere. E invece egli passò alla storia, oltre che come infaticabile apostolo, cioè come evangelizzatore itinerante, anche o almeno altrettanto come autore di un certo numero di lettere, diventate giustamente famose. Anzi, dal I secolo in cui egli è vissuto, se prescindiamo da alcuni brevi e interessantissimi testi epistolari su papiro originale di provenienza popolare, di fatto sono giunte fino a noi soltanto le lettere di Seneca in latino e le sue in greco. In più, come riconosce oggi qualche studioso ebreo, i suoi sono anche gli unici scritti di un fariseo vissuto nel secolo I dell’era volgare! Bisogna però precisare che i suoi scritti sono produzioni della fase cristiana della sua vita, ed è come dire che senza l’evento della strada di Damasco Paolo probabilmente non avrebbe mai impugnato la penna o dettato un testo. Non che l’essere cristiano sia per natura collegato a un’attività scrittoria. E stata piuttosto l’occasione a fare di lui uno scrittore. Con ogni probabilità egli non si sarebbe mai impegnato su questo fronte, se non gli si fosse ripetutamente presentata la necessità di intervenire nelle situazioni delle varie Chiese, a seconda delle questioni di vita che in esse prendevano corpo. È stato scrittore per necessità, mosso da un forte senso di responsabilità pastorale. E per fortuna, poiché altrimenti non avremmo conosciuto il suo pensiero, la sua autentica e personalissima ermeneutica dell’evangelo, visto che quanto ne sappiamo dai soli Atti lucani è assolutamente poca cosa e soprattutto non corrisponde in pieno a come egli si esprime in prima persona nelle sue lettere. In aggiunta occorre anche riconoscere (Paolo è l’uomo di vari primati) che i suoi sono i primi scritti in assoluto nella storia del cristianesimo: la letteratura cristiana comincia appunto con lui! Le lettere odierne, comprese le e-mail (del tutto diverso è il sistema dei telegrammi e degli Sms), seguono uno schema che non corrisponde alle lettere antiche. Quelle, invece di recare la firma del mittente in fondo al testo epistolare, lo esponevano fin da principio addirittura come prima parola. Solo al secondo posto veniva il nome del destinatario.
Seguiva poi subito una formula di saluto, che veniva ripresa con variazioni alla fine dello scritto. Tra le lettere antiche giunte fino a noi ci sono anche quelle di Paolo di Tarso. A parte quelle che probabilmente sono andate perdute (forse un paio: cf. 1Cor 5, 9; 2Cor 2, 4?), 13 portano il suo nome, ma con ogni probabilità solo 7 vanno fatte risalire direttamente a lui (in probabile ordine cronologico: 1Ts, 1-2Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), mentre le altre 6, per ragioni letterarie, teologiche e storiche, vanno attribuite a discepoli posteriori secondo il diffuso fenomeno della pseudepigrafia. La media della loro lunghezza supera ampiamente quella di tutte le altre lettere antiche. Secondo un computo attendibile, si può confrontare il caso di Paolo con altri due gruppi di lettere: il gruppo maggiore è quello delle lettere private, circa 14 mila, che vanno da un minimo di 18 parole a un massimo di 209, e in media ne contengono 87; le lettere degli scrittori professionali variano: quelle di Cicerone hanno un minimo di 22 parole e un massimo di 2530, con una media di 295; quelle di Seneca vanno da 149 a 4134, con una media di 995. Le lettere di Paolo, invece, contengono un minimo di 335 parole (a Filemone) e un massimo di 7094 (ai Romani), con una media di 2495. Già su questa base dobbiamo essere cauti nell’accogliere una celebre distinzione dello studioso tedesco dell’inizio del secolo XX, Deissmann, che distingueva tra «lettera» ed «epistola». La prima, di stile non letterario, sarebbe di natura intima e personale, un pezzo di vita, espressione del solo rapporto esistente tra mittente e destinatario, estranea all’interesse del grande pubblico. La seconda, invece, sarebbe una forma d’arte, un prodotto convenzionale appositamente costruito, e il suo contenuto terrebbe conto del grande pubblico a cui si rivolge: «Se la lettera è un segreto, l’epistola è una merce da mercato, chiunque può e deve leggerla». Ebbene, Deissmann riteneva che quelle del nostro Apostolo non fossero epistole ma lettere. Ma Paolo non può essere confinato nell’ambito del privato! È vero che nelle sue lettere si riflette esattamente il suo genuino carattere impulsivo, generoso, forte e tenero insieme.
Niente di burocratico. Tutt’altro. Egli però sa di scrivere con un’autorità che è solo sua e che gli deriva sia da Cristo stesso sia dalla sua responsabilità di fondatore e guida delle varie Chiese. L’immediatezza della scrittura di Paolo rispecchia esattamente la sua vitalità scevra da affettazioni e ricercatezze. Una questione a parte riguarda la discussa dipendenza di Paolo dalle regole della retorica antica, intesa come «arte del parlare bene». A Tarso, senza escludere Gerusalemme, egli deve aver imparato almeno i rudimenti del ben parlare. Ed è fuor di dubbio che egli utilizzi a più riprese molte delle cosiddette figure retoriche. Più discutibile è l’eventualità che egli abbia elaborato il suo discorso seguendo le norme della «dispositio» retorica. Questa era abituale nei discorsi orali pronunciati fondamentalmente in tre occasioni: nelle assemblee deliberative, in quelle giudiziarie e in quelle celebrative, che davano origine ai tre generi già codificati da Aristotele. In questi casi il discorso era strutturato di norma in 4 parti: l’«exordium», che introduceva l’argomento eventualmente mediante una «narratio» o esposizione del caso; la «propositio» o enunciazione programmatica del tema; la «argumentatio» o dimostrazione dell’assunto eventualmente con una «refutatio» delle tesi contrarie; la «peroratio», che riprendeva l’argomento portandolo alla conclusione. Tutto il problema sta nel sapere se anche una composizione epistolare doveva sottostare a questa disposizione.
Pur non potendolo escludere per principio, dato che per esempio il testo di Rm 1, 16-17 gioca abbastanza chiaramente il ruolo di una «propositio», non risulta che i teorici della retorica abbiano mai applicato le loro regole all’epistolografia. Come ben si esprime uno studio recentissimo, «i due generi possono essere stati fidanzati, ma coniugati non lo furono mai». Per studiare le lettere di Paolo, perciò, non bisogna applicare loro la griglia angusta e soffocante del cosiddetto «rhetorical criticism», come alcuni hanno fatto, ma attenersi piuttosto allo studio dell’effettiva argomentazione seguita effettivamente dall’Apostolo. È la sua retorica letteraria che va individuata, cioè il suo modo proprio di persuadere i lettori.
Romano Penna
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