Un discorso, forse, troppo teologicamente ispirato e troppo poco politico, troppo lontano dalle convenienze del senso comune. Forse. Ma solo evocando il male assoluto, solo scorgendo tra i fumi infernali dei camini di Auschwitz il volto di Satana, solo così acquista senso il grido supremo della disperazione umana che Joseph Ratzinger ha rivolto al cielo.
del 05 giugno 2006
Cosa bisogna dire dell’Olocausto? Che fu il male, naturalmente: che lo fu in una delle versioni massime e più pure. Ma non basta. Se se ne parla in un’occasione ufficiale bisogna altresì corrispondere alle attese che il discorso pubblico accreditato è venuto alimentando, secondo uno schema di giudizi e di attribuzioni di colpe, di deprecazioni e di evocazioni, cui è obbligatorio attenersi. Benedetto XVI non lo ha fatto, non si è attenuto allo schema. Al pari di un uomo politico o di un ministro qualunque avrebbe potuto benissimo farlo con poca spesa d’ingegno e con il prevedibile consenso universale. Ha preferito invece battere un’altra strada. Per un verso ha scelto di volare più basso, ma insieme, per un altro verso, di muoversi ad altezze inconsuete per il discorso pubblico ufficiale.
L’autenticità umana, l'originalità intellettuale e l’ispirazione dell’uomo di Dio, si sono così intrecciate e confuse davanti ai tetri edifici di Auschwitz in una meditazione ampia e nervosa, dall’andamento quasi spezzato. L’accento dimesso è risuonato in quel presentarsi semplicemente come «figlio del popolo tedesco » (un’espressione ripetuta ben tre volte in poche righe), ma proprio ciò ha conferito un senso estremo all’inevitabile questione della colpa collettiva. Molti hanno osservato che l’analisi di Ratzinger sull’ascesa del nazismo è stata troppo indulgente verso i suoi compatrioti, quasi assolti di fronte alle responsabilità di un «gruppo di criminali» che ad un certo punto ne divennero i capi abbandonandosi, come il Papa ha detto, ad una «smania di distruzione e di dominio». Sì, non c’è dubbio che le cose sono andate in modo più complicato ed ambiguo (come del resto vanno sempre, e dunque l’osservazione è fin troppo facile), ma il senso del richiamo del Pontefice al ruolo della leadership nazista sta nel voler porre l’accento su un elemento troppo spesso cancellato quando si parla del nazionalsocialismo, e cioè il nichilismo radicale, la smisuratezza antiumana, insomma il demoniaco che si stagliava dietro la croce uncinata e che ne faceva il simbolo di un vero e proprio risorgente paganesimo, spesso nelle forme ancora più agghiaccianti di una disciplinata burocrazia.
Vi fu insomma nel nazismo l’affiorare come di un male primigenio che per venire alla luce non si affidò certo al «popolo », ai «tedeschi»,ma ebbe per l’appunto bisogno della mediazione di «capi», di cupe figure di despoti di cui Hitler rappresentò un paradigma esemplare. Con la mente rivolta a questo demoniaco in certo senso prepolitico, anche se micidialmente calato nella storia, ha parlato Benedetto XVI: dunque trascurando di evocare (è permesso dirlo a tanti suoi critici che invece avrebbero voluto proprio questo?) i precisi excursus fattuali, le responsabilità delle Chiese cristiane (quella di Roma fu solo una tra le tante), le specificità ideologiche (a cominciare dall’antisemitismo, non nominato, d’accordo, ma se si dice Ebrei e Shoah di cosa si sta mai parlando?). Un discorso, forse, troppo teologicamente ispirato e troppo poco politico, troppo lontano dalle convenienze del senso comune. Forse. Ma solo evocando il male assoluto, solo scorgendo tra i fumi infernali dei camini di Auschwitz il volto di Satana, solo così acquista senso il grido supremo della disperazione umana che Joseph Ratzinger ha rivolto al cielo.
Ernesto Galli Della Loggia
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