“Prima di parlare della gravissima crisi in Medio Oriente ci colleghiamo con l'Hotel Parco dei Principi per ascoltare le sentenze di calciopoli”... Prima??? Vi prego giornalisti italiani... vi prego giovani e adulti italiani, non perdiamo il senso della realtà! In Libano sono morti 15 bambini, arsi vivi nel pulmino che...
del 21 luglio 2006
“Prima di parlare della gravissima crisi in Medio Oriente ci colleghiamo con l’Hotel Parco dei Principi per ascoltare le sentenze di calciopoli”… Prima??? Vi prego giornalisti italiani… vi prego giovani e adulti italiani, non perdiamo il senso della realtà! E delle priorità! In Libano sono morti 15 bambini, arsi vivi nel pulmino che li portava via dal loro paese. Erano stati obbligati a partire, con oltre 5000 volantini piovuti dal cielo che li avevano minacciati: il villaggio verrà bombardato, andatevene! Se ne stavano andando impauriti. Un bambino stava mangiando un panino ed è rimasta, tra i resti del rogo in cui sono tutti morti, quella mano che stringeva il panino…
Con quale coraggio i tg di questi giorni dedicano più tempo a calciopoli che non a questa tragedia? Perché nessuno ascolta almeno il grido del Papa che ha chiesto “tutti cessino le violenze”? Non abituiamoci alla guerra, così come stiamo facendo. Non abituiamoci alle scene di bambini, giovani, donne, anziani che muoiono innocenti. Non abituiamoci! In che modo? Ad esempio regalando la nostra attenzione alle notizie dal Libano. Incominciamo da una piccolissima cosa: leggiamo, tratto dal sito di Avvenire, il pezzo di Camille Eid che segue, facciamolo questo gesto di solidarietà… abbandoniamo per un quarto d’ora la Gazzetta dello sport e le polemiche per le squalifiche delle squadre di calcio.
Sono una simpatizzante juventina, ma mi sento sulla coscienza 15 bambini bruciati vivi, 15 bambini innocenti: la Juventus ? Mai sentita nominare.
 
 
Libano, mia terra di strazio 
Pensavamo il peggio alle spalle
 
di  Camille Eid 
 
Una madre scende di corsa i gradini di casa portando in braccio un neonato in lacrime. Nel buio del rifugio, scorge i visi pallidi di tanti ragazzini che premono istintivamente le mani sulle orecchie. I loro genitori ripetono che i minacciosi caccia militari che sorvolavano a bassa quota il quartiere si sono da un po' allontanati, ma i ragazzi non hanno voglia di ascoltare. Fuori, in strada, alcuni miliziani intimano a un malcapitato conducente di fermarsi per trasportare in ospedale due feriti gravi. Uno ha la mascella fracassata da una scheggia che gli era entrata nella guancia. Sangue, tanto sangue, ovunque. Sequenze che mi si sono impresse nella mente da tanti anni, da quando in Libano imperversava la guerra, e che nelle ultime ore mi martellano la testa. Quello che allora mi capitò di vivere insieme alla mia generazione, adesso lo stanno vivendo altre generazioni. Giovani nati e cresciuti quando il Paese dei cedri aveva recuperato una parvenza di normalità, pur sotto la «tutela» (non scelta) di un regime geograficamente vicino. Giovani che l'anno scorso, per esempio, avevano offerto il meglio di sé scendendo in piazza insieme, cristiani e musulmani, per rivendicare libertà alla loro terra. Questa generazione - pensai allora - non conoscerà la guerra, perché ha capito che il virus del conflitto sta proprio nella piaga del confessionalismo politico, nella disposizione dei capi delle diverse comunità ad essere docili ed ingenue pedine nelle mani dei burattinai regionali di turno. Ma mi sbagliavo. Non per un eccesso di fiducia nei confronti nella gioventù libanese, ma piuttosto per le condizioni in cui inopinatamente quella gioventù si trova oggi a vivere.
Sara, mia amica milanese, mi diceva ieri che stenta a credere che quelle tre ragazze libanesi, 'così simili a noi occidentali', arrivate nella metropoli lombarda per una ricerca sull'interculturalità, fossero partite proprio da quell'aeroporto oggi crivellato di colpi. All'improvviso, queste si trovano bloccate qui, senza alcuna possibilità di rientrare a casa. Ostaggi, al pari del loro Paese, il Libano. «Quanto tempo sono rimaste le truppe straniere sul vostro territorio?», mi ha chiesto poco tempo fa un diplomatico occidentale di stanza a Beirut. Trent'anni, ho risposto. «Allora dovrete sgobbare almeno altri trent'anni per ridiventare un Paese libero». E non è finita, oggi lo sappiamo.
Le mine che vagano nel Libano dell'era «post-siriana» sono molte. C'è un partito armato, Hezbollah, che scavalca il governo legittimo decidendo quando e per conto di chi dichiarare guerra, senza badare ai veri interessi della popolazione. E, sull'altro fronte, uno Stato che muovendosi per tutelare la propria sicurezza colpisce indistintamente obiettivi civili e militari. Il Medio Oriente è sull'orlo del baratro, e il Libano è la valvola di sfogo delle tensioni regionali.
Come non sentire allora il petto schiacciato dalla preoccupazione per parenti e amici? Un po' di conforto viene dalle tante persone che, già negli anni bui, hanno sostenuto la causa del mio popolo. Messaggi di solidarietà che alleviano l'ansia di chi, come me, vive a distanza questo nuovo calvario. «Desidero dirti che ti siamo vicini e seguiamo gli sviluppi con trepidazione». «Mamma mia, che disastro! Ma sono impazziti tutti?». Sono gli sms che per fortuna stanno in queste ore intasando il mio cellulare. C'è tanta gente che ama il Libano, terra di pace che da sé non ha mai mosso guerra a chicchessia. In attesa di ricevere però un messaggio simile a quello inviatomi da Luca, nell'ultimo Capodanno, che era il primo di un Libano tornato - così almeno sembrava - finalmente libero: «Brindiamo - scriveva - agli uomini liberi e fieri, alla pazienza dei forti, a chi sa attendere senza spegnere la fiamma della speranza, al coraggio degli eroi di ogni tempo. Al Libano!».
sr Manuela Robazza
Versione app: 3.26.4 (097816f)