Senza Dio candidato, noi senza-dio non siamo in grado di elaborare alcuna etica della ragione. La nostra laicità dovrebbe stare nel riconoscerlo, mollato a se stesso ogni orgoglio, rigettata ogni compunzione...
del 18 ottobre 2005
Il genio del cristianesimo è notoriamente nel paradosso. La carne è svalutata, ma la salvezza viene da una incarnazione. Dio è uno e trino. Questa è vita morente, morire a questa vita è vivere. Senza il paradosso, quando Dio ti cerca o è cercato direttamente o direttamente negato anche come ipotesi, oltre o al di qua della mediazione della parola, del verbo, della follia e della ragione e della storia che la Chiesa custodisce da duemila anni in successione disordinata a se stessa, ma feconda, non restano che l'affascinante e temibile monolitismo islamico, il minaccioso dharma con la sua indifferente negazione cosmica della persona, altre varianti del pensiero mitico compresi i cosiddetti 'valori' del liberalismo ottocentesco (la religione positivista degli increduli).
 
Resta insomma poca o tremenda cosa, quando si escludano dalla vita e dalla cultura il paradosso cristiano e il talmudismo dei giudei, suo fratello maggiore. A questa dimensione delle cose conviene forse pensare, più che alle 'reazioni del centrodestra e del centrosinistra', quando Benedetto XVI infila nell'afasia del nostro tempo il suo robusto paradosso: fare come se Dio esistesse, candidare Dio a una piena partecipazione alla vita pubblica, perché escluderlo non significa tolleranza del politeismo dei valori bensì ipocrisia. E perché ha detto 'ipocrisia', che vuol dire mentire a se stessi, accomodarsi la realtà nella coscienza o nella famosa libertà della coscienza? Perché solo un ipocrita può fingere il pensiero che basterà a se stesso, fingersi di aver sistemato tutto e definitivamente, di essere specie interamente spiegata e linearmente evoluta, solo un ipocrita può dirsi assolutamente libero in quanto assolutamente relativo, indifferente al problema della verità.
 
Se Dio si candida, lo stolto pensa alle elezioni invece che al problema dell'elezione. E ne nasce la sciocca baruffa italiana di questi mesi. Mentre basta il catechismo in compendio, non servono studi di teologia per sapere che Dio non è in alcuna lista, semmai siamo noi nella sua lista. Dio se ne sta dov'è, invisibile salvo quando si faccia scoprire un poco nutrendo egli stesso la fede che giustifica, e le opere. La sua candidatura, è noto, non è di questo mondo. Menzionarlo in relazione alla vita pubblica, come ha fatto Ratzinger per lungo tempo, come ha fatto Benedetto ieri l'altro, ha il senso paradossale di un richiamo alla plausibilità dell'impossibile. E' l'ipotesi per assurdo che dà un senso, e non univoco, non teocratico, non confessionale, all'esistenza moderna. Finché ha potuto, la Chiesa Dio lo ha confermato nella sua dottrina dove sta benissimo, un itinerario della mente o un dono dello spirito. Essendo l'unico organismo istituzionale con il senso del tempo, la Chiesa ha capito, in quanto è eterna e moderna, di non poter più limitarsi in interiore homine, se non nella dimensione inattaccabile della fede. A chi gli citava il cuore, una volta Ratzinger rispose che il cuore non si vede, e qualcosa bisogna pur che si veda. Specialmente adesso che nella città terrena si può fabbricare il parco umano con la genetica, e rimpiazzare tutto con una protesi artificiale, adesso che si può negare con ipocrisia scientista un disegno intelligente e assumerlo per sé come creatori, sacralizzando l'homo faber e trasformandolo in un grande architetto dell'universo, per di più banale, iscritto all'ordine.
 
Il Dio che il professor Ratzinger mescola alla vita pubblica non è iscritto ad alcun ordine, ad alcun partito, non è banale, non è sociologia della religione: è la fine, inscritta nei fatti e nella formidabile crescita del potere umano sul creato, della vecchia idea europea di un concordato che conferisce a Cesare quel che non è suo, la capacità etica. Senza Dio candidato, noi senza-dio non siamo in grado di elaborare alcuna etica della ragione. La nostra laicità dovrebbe stare nel riconoscerlo, mollato a se stesso ogni orgoglio, rigettata ogni compunzione. Così, razionalmente e devotamente.
Giuliano Ferrara
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