Quale è il compito di noi medici: assistere e curare i pazienti, riconoscendo anche quando i presidi adottati sono o non sono adeguati ad alcune determinate condizioni cliniche, oppure decidere noi quando e come la vita non è più degna di essere vissuta e le cure superflue? Come non si rendono conto alcuni medici come me che questo è oggettivamente una medicina contro e non a favore della persona?
del 16 febbraio 2009
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Con grande dispiacere abbiamo appreso, io e mia moglie, la notizia della morte di Eluana Englaro, per il cordoglio di una vita che si spegne e per le vicende che ha subito in questi ultimi giorni. Mentre esprimiamo tutta la nostra vicinanza al padre Beppino, della cui buona fede e del cui affetto nei confronti della figlia siamo certi, non possiamo non essere profondamente rattristati per l’operato di molte persone che lo hanno affiancato. Mi riferisco soprattutto ai giudici, ad alcuni politici, ai medici ed al personale infermieristico della casa di cura in cui si è spenta Eluana.
Non sono un magistrato, non sono addentro alle questioni giuridiche, ma quello che mi ha profondamente deluso è l’atteggiamento di chi, con la legge, abbia preteso di definire cosa è vita e cosa no, cosa valga o non valga la pena di essere vissuto. Se la persona non viene prima del diritto, se compito del diritto non è difendere la dignità della vita, ma affermarne la possibilità di spegnersi, se compito del magistrato è di sostituirsi al delicato compito del medico e decretare con una sentenza legittimo ciò che razionalmente non lo è, tutto questo credo sia un modo veramente riduttivo di concepire il proprio impegno lavorativo e sociale.
Ma lo dico ancora di più come medico. In tutto questo periodo, ed ancor più oggi, seguendo sui giornali quanto si è detto sulla vicenda di Eluana, mentre mi sento molto vicino al padre (nonostante non ne ho condiviso le scelte), sono profondamente dispiaciuto da quanto è stato detto da una parte della classe medica. Quando ho letto le dichiarazioni di eminenti esponenti della classe medica, come lo stesso professor Veronesi, quando ho sentito l’intervista diffusa in televisione all’anestesista De Monte, che ha dichiarato che “Eluana è morta 17 anni fa”, ebbene, mi sono chiesto se, per quanto più giovane di loro, facciamo lo stesso mestiere e se abbiamo studiato la stessa disciplina. Non parlo da una prospettiva di fede, ma puramente di dati della realtà, di ragione. Come si può pensare che non sia un gesto aberrante dal punto di vista medico sospendere l’idratazione e l’alimentazione – e sottolineo, non altro – ad una persona in stato vegetativo permanente e stazionaria? Come si può pensare che questo sia prendersi cura?
Prima di iniziare la scuola di specializzazione in cardiologia ho fatto alcuni turni notturni in una clinica di Carate Brianza in cui vi è un’unità che ospita pazienti in coma. La maggior parte di tali paziente hanno un accesso venoso centrale, una tracheostomia per evitare che le secrezioni respiratorie creino loro polmoniti da inalazione, ed una nutrizione enterale attraverso una PEG (cioè un sondino che tramite la cute si collega allo stomaco). Ricordo ancora la notte in cui, da poco iscritto all’albo dei medici, al mio primo turno mi chiamarono per una paziente in coma che aveva 38° C di febbre (le infezioni in questa tipologia di pazienti allettati sono molto frequenti)… era la prima volta che mi trovavo di fronte ad una paziente così: non cosciente, dotata di movimenti riflessi, in quel momento in uno stato probabilmente settico che le aveva perfino provocato edemi alle braccia. Non capivo molto, ma una cosa mi era chiara: quella persona aveva una dignità, seppure in quello stato. E l’altra cosa che capivo era che, sebbene nessuno potesse sapere cosa passava nella mente di quella persona, il fisico mostrava che era in una condizione di sofferenza. Non ho avuto dubbi sull’introdurle in terapia una copertura antibiotica, non mi è sembrato per nulla accanimento terapeutico, era una misura proporzionata alla condizione di quella persona e che aveva lo scopo di toglierla da una condizione aggiuntiva di prostrazione fisica rispetto a quella in cui si trovava. Avrebbe forse risposto, forse no, forse l’antibiotico nefrotossico avrebbe determinato una insufficienza renale ed accelerato l’exitus – sempre che non morisse prima di sepsi – questo non dipendeva da me, era la risposta che il suo corpo avrebbe dato a quella condizione. Al mio turno successivo, una settimana dopo, constatai felicemente che la signora non aveva più edemi alle braccia e la febbre era andata via. Era sempre in coma, ma il corpo non esprimeva più quella sofferenza in cui l’avevo trovata.
Allo stesso modo, quando un paziente con una insufficienza cardiaca terminale, circa un anno fa, dopo aver smesso di urinare, nonostante le dosi crescenti di diuretico, è andato in edema polmonare (cosa prevedibile, che se i liquidi non uscivano dall’organismo si accumulassero nei polmoni), con tutti i sintomi più spiacevoli di questa condizione, come la sensazione di soffocamento… di fronte ad un paziente così, che stava soffocando, e dove era evidente che questo era il momento terminale della sua patologia, il momento che lo avrebbe condotto alla morte, non ho esitato un istante nella percezione della necessità di togliergli il sintomo soffocamento somministrandogli della morfina in vena. Il paziente è morto nel giro di un’ora.
Di fronte ad un paziente neoplastico terminale, o cardiopatico terminale, o con una insufficienza polmonare terminale, oppure di fronte ad un paziente sano che è stato in arresto cardiaco per più di mezz’ora, è ragionevole non avviare una rianimazione, perché questi eventi costituiscono la fine della vita. Il medico deve avere l’onestà di riconoscere che la vita ha un fine. Ma come non comprendere che è ben diverso dall’accelerare la fine, dal sospendere idratazione ed alimentazione ad un paziente stabile, gravemente compromesso nelle sue funzioni cerebrali superiori, ma stabile. Quando hai rianimato un paziente, se poi rimane in stato vegetativo persistente, o in coma, se è stazionario, non puoi decidere tu di sospendere tutto. Se Eluana avesse avuto un arresto cardiaco, una complicanza acuta che l’avesse avviata alla morte, sarebbe stato ragionevole rendersi conto delle condizioni e non accanirsi in inutili rianimazioni. Ma come pensare che questo equivalga ad averle sospeso nutrizione ed idratazione? Come non si rendono conto alcuni medici come me che questo è oggettivamente una medicina contro e non a favore della persona?
Quale è il compito di noi medici: assistere e curare i pazienti, riconoscendo anche quando i presidi adottati sono o non sono adeguati ad alcune determinate condizioni cliniche, oppure decidere noi quando e come la vita non è più degna di essere vissuta e le cure superflue? Le cure sono in un certo senso dettate dalla condizione del malato che ci sta di fronte, dalla sua risposta o meno, o sono un qualcosa nostro, che decidiamo noi in base a convinzioni più o meno etiche, ai pareri del parente o del magistrato su cosa è vita e cosa no? A me una medicina così fa molta paura.
Che speranza c’è di fronte ad una vicenda così? Per me l’unica speranza è quella che hanno portato e che portano le suore, che portano persone che gratuitamente hanno amato ed amano Eluana e che evidentemente hanno visto qualcosa che altri non vedevano. La persona era la stessa, ma loro avevano uno sguardo diverso, vedevano cose reali, che per alcuni non esistono, ma che ci sono.
Stasera mia moglie mi ha ripetuto: se mi succede a me una cosa così, portami dalle suore.
Io voglio imparare a fare il medico dalle suore.
 
Alfredo Corticelli
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