Sempre di moda per qualche politico lo “sciopero della fame o della sete”. Con plausi, incoraggiamenti e preoccupazioni mediatiche comprese. Qualcuno ha il coraggio di dire che questo modo di protestare è a suo modo una forma di violenza inaccettabile? Qualcuno ha il coraggio di affermare che è una forma di poco rispetto nei confronti delle persone che ogni giorno deve lottare per sopravvivere con l'acqua e con il cibo? Perchè fare politica con i ricatti?
del 05 gennaio 2007
Quando si parla di moda si fa riferimento all'ultima tendenza o all'ultimo giocattolino eletrronico che deve essere presente in ogni casa. Ma a volte il termine moda va riferito ad un modus vivendi diffuso specie da quando la mediaticità la fa da padrona.
Per l'indulto o per chiedere una moratoria della pena di morte, per ottenere il plenum della Corte Costituzionale o per essere certi della validità di un risultato elettorale: c'è una moda che non tramonta mai e che si impone periodicamente alle nostre cronache, che non conosce autunni o primavere e che ormai con fare sempre meno suggestivo trova ampio spazio su giornali, telegiornali e siti internet: è lo “sciopero della fame”, accompagnato dal suo fratello più giovane e drastico, lo “sciopero della sete”. Sembra però che più che una forma di protesta civile, si avvicini al bimbio piangente e sofferente che sbatte i piedi per terra e fa i capricci per ottenere quello che lui ritiene 'indispensabile'.Il maestro Marco Pannella è l'ultimo protagonista della serie: ha ottenuto in larga misura ciò che poteva sperare di ottenere nel breve volgere di qualche giorno, e su caloroso consiglio medico ha interrotto la protesta, salvo dover accettare il ricovero in ospedale per valutare eventuali danni fisici, 'anche irreversibili'.
Ma la storia di questi casi è lunga e l'ultimo episodio è a rigurado del cosiddetto bavaglio informativo che avvolgeva la raccolta di firme per il referendum sulla procreazione assistita, e la combattiva Alessandra Mussolini, vittima del presunto “golpe” che portò all’esclusione della sua candidatura alle elezioni regionali del Lazio. Ma i casi sono innumerevoli.Ora, al di là del merito delle richieste degli scioperanti possibile mai che di fronte a queste iniziative denominate “non violente” giornali e televisioni non sappiamo spendere altro che scontate considerazioni? Qualcuno è d’accordo nel ritenere che, lungi dall’essere la “forma massima di non violenza”, lo sciopero della fame e quello della sete sono semplicemente una forma di “ricatto” che non dovrebbe incontrare alcuna benevolenza presso l’opinione pubblica?. E che, attuato per raggiungere un fine di natura politica (per quanto lodevole esso sia), esso si configuri in sostanza come un atto di violenza duplice, rivolto al contempo contro se stessi e contro gli altri? Uno sciopero di tal genere va contro la propria stessa persona per la grave menomazione fisica che ne deriva, compreso un concreto rischio di morte qualora venga inopinatamente protratto a lungo; e va contro gli altri perché pone l’interlocutore sotto una forma di “ricatto” psicologico, per cui si è in qualche modo responsabili, con il proprio atteggiamento, della stessa incolumità fisica dello scioperante. Ci pare l’esatto opposto di un confronto serio e democratico, giocato ad armi pari con la sola forza delle argomentazioni. Certo, è una vergogna che in questo paese si riesca ad ottenere attenzione e considerazione solo attraverso gesti di questo tipo, ma ciò non toglie valore, pensiamo, a quanto abbiamo appena detto: in un paese civile si sciopera dal lavoro, non dal cibo e dall’acqua. E allora, ai professionisti dello sciopero vorremmo chiedere pietà: stop alle armi di persuasione così dure e spropositate. D'ora in poi, la cessazione di questo genere di scioperi dovrebbe essere la condizione senza la quale, per principio, la questione sollevata non andrebbe neppure affrontata. Una scelta radicale - appunto: radicale - per far cessare all'origine simili iniziative. In democrazia ci si ascolta a vicenda, si portano le proprie ragioni e le proprie argomentazioni, ci si confronta e ci si scontra, ma sempre e comunque ci si rispetta: e il rispetto, quello vero, include anche il rispetto per il proprio corpo e per la propria e altrui serenità. I ricatti, in democrazia, insomma, non hanno diritto di cittadinanza. L’esatto contrario, naturalmente, di ciò che succede quasi sempre.
PdC (riferimento a redazione korazym)
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