Non avevo niente in mano. E il pongo dov'era? Solo fogli, quaderni, e penne. E dovevo stare seduto sempre, solo col mio banco. Sarei voluto fuggire. Ma non potevo. Dovevo imparare e stare lì seduto. Cominciai a guardarmi intorno. Sulle pareti c'erano dei bizzarri cartelloni colorati con delle grandi figure associate a dei segni eleganti. Gn con uno Gnomo dal barbone bianco, F con una farfal la gialla a puntini neri
del 15 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          Presentato nei giorni scorsi al Salone internazionale del Libro di Torino, «I libri ti cambiano la vita» (Longanesi, pagine 348, euro 14,90) nasce da un’intuizione di Romano Montroni, considerato il più esperto libraio d’Italia. Nel volume – il cui ricavato servirà alla ricostruzione della Biblioteca comunale di Aulla – cento autori si misurano con il capolavoro che più di ogni altro si è dimostrato decisivo nella loro esperienza umana e letteraria.
Anticipiamo in questa pagina la testimonianza del romanziere Alessandro D’Avenia.
         Deluderò chi cerca in queste righe il libro che mi ha squadernato le possibilità infinite del mondo, che ha reso il mio cuore un po’ più intelligente, che mi ha regalato ore di consapevole fuga dalla realtà per tornarvi con più fame, che mi ha insegnato a guardare tra le pieghe nascoste delle cose, tra le righe del mondo, che mi ha regalato un briciolo di empatia in più verso gli altri e un po’ di misericordia in più per i miei vicini di condominio. Insomma non racconterò di quel libro che mi ha fatto innamorare di più della vita e insegnato che le parole sono il modo per possedere le cose, anche quelle che ci portiamo dentro, anche quelle che si nascondono nei meandri più nascosti dell’anima.          Non lo farò, perché quel libro è un libro che non ho mai letto, un libro che non ho mai sopportato, un libro che non ho mai finito. Quel libro mi ha insegnato che c’erano cose noiose, persino nella mia magica infanzia e che io non avrei mai scritto una storia noiosa, né l’avrei mai raccontata. Le mie nonne, siciliane, mi riempivano le orecchie di storie vissute e io rimanevo ore ad ascoltare di tedeschi che entrano in casa minacciando la vita di mio padre neonato, di corriere da cui scendeva mio nonno per andare a trovare la sua bella in un paese lontano dal suo...          Quelle storie non mi annoiavano mai ed erano le mie storie, le storie della mia famiglia. Se io ero lì ad ascoltarle era perché erano vere. Anche se sono convinto che le mie nonne aggiustassero la realtà scantonando spesso nel verisimile, per rendere ancora più vera la loro narrazione... Quelle storie le ricordo ed entrano nei miei libri con una forza che non riesco a controllare. È il racconto orale che mi ha aperto le orecchie, il cuore e la testa, esattamente in quest’ordine, al desiderio di ascoltare il mondo e le persone, come si fa da bambini con le conchiglie. Tu poggi l’orecchio contro quel naufragio di madreperla e senti che contiene tutto il mare.          A paragone di quelle storie il libro che non ho mai letto era insopportabile. Lo dovevo leggere perché è uno di quei libri che i bambini degli anni Ottanta dovevano leggere e perché l’avevano letto i miei due fratelli maggiori, che per me erano dei supereroi. Quel libro era I ragazzi della via Pál. Spero di non ferire nessuno di coloro che amano quella storia, ma io la trovavo noiosa. Non sapevo dove fosse Budapest e Nemecsek era un nome troppo complicato per la mia lingua. Ho provato a cominciare quel libro tante volte, forse dieci, ma non riuscivo mai a superare le prime pagine, mi piaceva soltanto la descrizione del ragazzino impaurito nascosto tra i rami degli alberi a spiare la banda avversaria, non ricordo perché e non ricordo neanche se la scena fosse esattamente così...          Io volevo le avventure dei miei nonni, delle mie nonne, la Guerra, i Tedeschi e gli Americani, la Sicilia e il Mare, i proverbi in dialetto e la continua minaccia del destino sulla mia vita che era legata a quelle storie.[...] Da quel fallimento, dalla mia impermeabilità a quelle pagine è nata la spinta a cercare storie diverse, storie che non mi annoiassero, storie che mi raccontassero il mondo in cui io vivevo dandogli un senso. Storie simili a quelle delle mie nonne, storie di cui ero il diretto o indiretto compimento. (Inoltre capii di essere diverso dai miei fratelli, e non è poco per uno che li considerava supereroi).         Ma mentre scrivo queste righe mi torna alla memoria un ricordo ancora precedente e più profondo. La memoria è fatta a stanze che immettono l’una dentro l’altra. Questo ricordo corregge il tiro del primo, forse lo amplia, forse lo rende più essenziale. Non è un libro che mi ha cambiato la vita, anche se alcuni sì lo hanno fatto, ma qui vado a caccia del peccato originale, non dei peccati di lettura successivi, innumerevoli e imperdonabili. Non è stato un libro a cambiarmi la vita, ma le lettere. Sì le lettere, le lettere in senso stretto, con la loro bella grafia.         Ero all’asilo e giocavo. Avevo cinque anni ed ero in quel periodo scolastico, l’asilo appunto, che è l’unico che funziona davvero. Quello in cui sei talmente libero che imparare coincide con il creare. Giocavo, disegnavo, creavo. E così imparavo. Creavo soprattutto con il pongo: astronavi, con le quali affrontare quelle create dai miei amici. Sedevamo attorno a banchi disposti a quadrato e quindi ci guardavamo in faccia, ci passavamo le cose, litigavamo, ci sfidavamo, ridevamo. Creavamo insieme.          Ad un tratto la maestra Gabriella mi chiamò. Dovevo cambiare classe. Io mi fidavo di lei e della sua voce sottile. Mi prese per mano e mi portò in prima elementare. Sì perché sembrava che io fossi pronto per affrontarla in anticipo. Quando entrai c’erano dei banchi disposti a file e non ci si guardava in faccia, ma si scorgeva solo la schiena di chi avevi di fronte e tutti fissavano la lavagna e la maestra, che spiegava una cosa orribile, astratta, senza mani, senza pongo, senza colori. Solo gesso bianco con cifre astratte. Spiegava le tabelline, porta infernale attraverso la quale abbandonavo il mondo incantato della creazione, per entrare in quello del far di conto, dell’utile. Mi sono seduto in fondo e mi sono sentito fuori posto. Non avevo niente in mano. E il pongo dov’era? Solo fogli, quaderni, e penne.          E dovevo stare seduto sempre, solo col mio banco. Sarei voluto fuggire. Ma non potevo. Dovevo imparare e stare lì seduto. Cominciai a guardarmi intorno. Sulle pareti c’erano dei bizzarri cartelloni colorati con delle grandi figure associate a dei segni eleganti. Gn con uno Gnomo dal barbone bianco, F con una farfalla gialla a puntini neri, C con un bel coltello affilato come quello del macellaio, la C poi era ripetuta in un altro cartellone vicino a quelle del coltello, c’era una coppia di superbe ciliege. Non sapevo ancora che esistessero suoni affilati come un coltello e dolci come le ciliege, ma lo intuivo grazie a quelle immagini. Cominciai a fissare quei disegni perché le tabelline mi facevano paura, mi sembravano mostruose e noiose.            Mi estraniai da quel mondo triste che era la prima elementare, che indicava un destino già scritto: ti aspettano 13 anni così e altri 5 se farai l’università. Un percorso deciso, per anni dietro ad un banco di pochi centimetri, a imparare, senza creare. Per questo venivo buttato spesso fuori: mi giravo sempre a parlare e non stava bene, parlare. Eppure avevo un sacco di cose da dire, un mucchio di domande, ma non erano attinenti alla lezione, soprattutto quando era di matematica e di geografia. Chiacchierone e distratto.         Quei cartelloni mi salvarono perché cominciai a immaginarmi i rapporti invisibili tra quei personaggi fatti di lettere e immagini. Nascevano dentro la mia testa in fuga storie fatte di quelle relazioni invisibili, a cui io davo parole ed esistenza. Fu allora che nacque una delle mie prime storie: cosa facevo lo Gnomo alla Farfalla con il Coltello? Era un thriller, e non ricordo come finisse. Purtroppo. Se lo ricordassi guarirei da molte delle mie tare mentali...          Quelle lettere mi cambiarono la vita. Erano i segni “calligraficamente” perfetti di un mondo da scoprire in ciò che ha di invisibile. Era i fili e i nodi di una rete invisibile che sorreggeva lo scenario del mondo. C’era molto più sul muro bianco tra un cartellone e l’altro che in tutte le formule scritte e da imparare a memoria. C’era molto di più nel mondo che nella filosofia di qualsiasi maestra. Quei personaggi si muovevano nella mia testa e nel mio cuore. Erano vivi e io con le parole, prima raccontate e poi scritte, potevo dare vita a quelle relazioni invisibili, riempire di parole quella parete bianca e incantare i miei amici, come facevano le mie nonne con me. Così divenni un cantastorie dell’invisibile.         Non un libro letto mi ha cambiato la vita. Ma uno mai letto.Non una storia in particolare, ma le lettere con cui si costruiscono le storie per rendere visibile ed eterno ciò che non deve andare assolutamente perduto o ciò che è andato perduto e disperatamente cerchiamo.
Alessandro D'Avenia
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