Spiritualità del lavoro

La considerazione sul valore del lavoro inizia dall'uomo. Il lavoro esprime la dignità dell'uomo e l'accresce. È dal rapporto con la persona che scaturisce la dignità del lavoro e la considerazione del suo valore superiore ai beni materiali.

Spiritualità del lavoro

da Teologo Borèl

del 30 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          Il lavoro è destinato allo sviluppo e al perfezionamento della persona umana e, nello stesso tempo, è partecipazione all’opera creatrice di Dio. All’atto della creazione, Dio fa l’uomo a sua immagine e, compiuta la sua opera, l’affida all’uomo per il suo perfezionamento. Il lavoro, per il cristiano, è sempre stato espressione della dignità e della operosità dell’uomo, più che un sacrificio di espiazione. È quindi espressione reale e dinamica dell’uomo nel mondo. Lavorando, la persona umana si procura i beni che le occorrono per il mantenimento ed esplica e porta a maturazione la propria identità naturale e professionale, trasformando il mondo. Ma lungo la storia, anche la concezione del lavoro e della sua organizzazione è mutata. Oggi la situazione del mondo del lavoro si differenzia profondamente rispetto a quella dei secoli scorsi.

          Il nuovo millennio vede il lavoro in una fase di transizione con il passaggio progressivo da un’economia industriale fondata sul modello fordista, che faceva della catena di montaggio e della divisione delle mansioni all’interno della stessa fabbrica la sua peculiarità, ad un’economia dell’informazione e dei servizi, dove si dà molto valore a quelle attività caratterizzate da un forte contenuto informativo, rispetto alle attività del settore primario e secondario. Diventa risorsa centrale dell’economia, quella “umana” nella sua capacità di conoscenza e di relazione produttiva.

Uno sguardo sull’oggi 

          Una nuova visione del lavoro e della sua organizzazione porta inevitabilmente ad una nuova visione dell’uomo e della sua vita nella società. In un momento storico complesso come quello che stiamo vivendo, si parla continuamente di problemi legati al lavoro, e in termini sempre più preoccupanti si parla delle ricadute sul mondo giovanile. Flessibilità, precariato, disoccupazione, mobilità sembrano i termini con cui il mondo delle nuove generazioni, e non solo, deve imparare a familiarizzare. Con la globalizzazione e l’apertura dei mercati, prima hanno iniziato a circolare le merci, poi i loro componenti e ora circolano i servizi e addirittura le persone da un’azienda all’altra come da un continente all’altro. Con la globalizzazione dei mercati la produzione si regola oggi su una logica di flussi, i luoghi sono molto meno importanti, interessa la possibilità di movimento. Questo ha portato a profonde trasformazioni.

          Andrea Casavecchia, sociologo e docente di Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Roma Tre, trae da questo nuovo scenario tre conseguenze.

          Il lavoro esplode. La fabbrica omogenea, uniforme e monolitica si è dispersa spezzettandosi e portando all’esterno i processi, sfruttando le innovazioni tecnologiche e le reti informatiche. I luoghi di lavoro sono più piccoli e meno aggregati e interagiscono tra loro attraverso una ragnatela interattiva capace di scambiare informazioni, inviare comunicazioni e prendere decisioni in tempo reale. I nuovi tablet e i-pad stanno aprendo una nuova fase, dove si realizza una sorta di ufficio mobile animato da lavoratori individuali dotati di potenti dispositivi portatili di trasmissione ed elaborazione delle informazioni.

Cambiano i principi gerarchici.

          Tra datori di lavoro e lavoratori gli equilibri regolatori del potere divengono più sottili: le aziende affidano parte del lavoro specializzato ad altre imprese che possono offrire un prezzo migliore. Si crea una dipendenza tra ‘azienda madre’ e imprese sub-appaltate che diventano sempre più dipendenti e subiscono i ribassi continui di prezzo legati alla maggiore o minor domanda di prodotti. Tutto ciò si ripercuote sulla manodopera, in quanto l’impresa deve applicare flessibilità di orario e di salario ai suoi dipendenti. 

          Saltano i tempi di vita. La riorganizzazione produttiva prevede la continua connessione in rete che rende meno standardizzabile il tempo. La maggiore estensione ed intensità degli orari lavorativi porta a calendari e orari anomali, con l’aumento di impiego nelle ore notturne. Il lavoro invade la vita quotidiana e ne cambia i ritmi: il riposo e la festa non sono più gli stessi per tutti.  

Ad immagine di Dio Creatore  

          Quando si guarda all’uomo e alla sua dimensione lavorativa con ottica cristiana si pensa ad una attività in cui si manifesta l’amore di Dio per il prossimo e per il creato.

          Non si può intendere il lavoro solo come un mezzo necessario per vivere. L’uomo, attraverso di esso, ha la possibilità di esprimere la sua personalità, di collaborare al piano creativo di Dio e redentivo di Cristo. Affrontare la tematica del lavoro non ha un carattere soltanto economico, ma anche etico, culturale ed antropologico e quindi anche una dimensione educativa. Un umanesimo autentico, che privilegia l’essere all’avere, lo spirituale al materiale, può “umanizzare” il lavoro. Dio ha voluto l’uomo come un essere sociale, per la persona umana la vita sociale non è qualcosa di accessorio, ma una dimensione naturale ed essenziale; importante per la sua maturazione è la dimensione della relazionalità. Soltanto attraverso il rapporto con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli, la persona sviluppa le proprie virtù e risponde alla sua vocazione.

          Il lavoro è strettamente legato a tutte le dimensioni della persona e, allo stesso tempo, è un mezzo per la realizzazione di tutta la realtà personale. Il lavoro, infatti, ha una duplice fecondità. È fecondo perché produce ricchezza e cioè aumenta quello che si ha; ma è pure fecondo perché, essendo un momento di vita della persona che lo svolge, tende, per sua stessa natura, a concretarsi in una sua affermazione e cioè in una crescita in quello che esso è. Il lavoro è anche il mezzo mediante il quale la persona umana ha una comprova delle sue capacità: utilizzando le proprie risorse, si realizza come protagonista e artefice della storia e della civiltà.

          L’insegnamento sociale della Chiesa, soprattutto nella Enciclica Laborem exercens, sottolinea la dimensione soggettiva del lavo ro in quanto attività liberamente intrapresa dall’uomo, non solo per la giusta affermazione di sé, delle proprie doti, per acquisire maggiore disponibilità di mezzi, ma anche come doveroso impegno di servizio agli altri, all’intera collettività umana. Il lavoro è allora inteso come vocazione o come attività che acquista un significato e un valore che la trascende: lavorare e obbedire a Dio è servire e amare i fratelli e trasformare la stessa realtà fisica e materiale perché il mondo, nel corso della storia, diventi sempre più umano, per costruire la città dell’uomo.

          Al di là delle diversificazioni che possono avere le attività lavorative, tutte sono importanti per l’impegno che ciascuno mette nel suo lavoro, per la dedizione, l’abnegazione, il sacrificio, l’onestà: tutte cose che rendono preziosa la vita e degna di essere vissuta.

          Il lavoro è, per un cristiano, attività d’amore che rende l’uomo collaboratore di Dio. Vi è da parte di Dio quasi una zona neutra nella quale vuole che l’uomo attui le capacità ricevute. In termini semplici: non l’uomo è fatto per il lavoro, ma il lavoro per l’uomo. Il lavoro deve essere attestato della spiritualità dell’uomo che interviene sulla natura e sulle cose con senso di rispetto e di equilibrio. Non svilimento, ma esaltazione della natura! Dunque responsabilità etica e umanistica accanto alla responsabilità economica. Educazione ai valori più che efficientismo pragmatico. 

Lavoro come vocazione

          Il lavoro è vocazione dell’uomo e non castigo divino. Chiamato a coltivare e custodire il creato, l’uomo attraverso il lavoro esprime sé stesso, il proprio talento, le proprie capacità, la propria creatività a immagine del Creatore, di un Dio che “lavora” nella Creazione e nella Redenzione. Se è dignitoso, è benedizione dell’uomo e di Dio e rimanda l’uomo a Dio. A Dio che ha lavorato sei giorni e il settimo si è riposato, ha fatto festa e ha gioito, trovando bella l’opera delle sue mani (Gen 2,2); a Dio che per almeno due decenni della sua vita terrena ha lavorato come carpentiere a Nazareth (Mc 6,3); a Dio che ha redento il lavoro e ha chiamato i suoi discepoli a seguirlo mentre lavoravano, invitandoli a diventare pescatori di uomini (Lc 5,10). Gesù ci insegna a valorizzare il lavoro e a non lasciarsi asservire da esso, a viverlo nella profonda relazione tra la fede e la vita, che permette all’uomo di accogliere gli altri come fratelli e di custodire il creato come dono di Dio. Il lavoro come vocazione è legato alla vita della persona, è compito unico e irripetibile, ciò che non facciamo noi non lo farà nessuno; è vita della e per la persona, ma non èmai affare privato, perché aperto a una comunità più ampia, agli altri, a Dio; è servizio nella città e nella società, missione nel mondo; è costruzione di un progetto che parte da lontano, si incarna nell’oggi ed è proteso al domani. Se il futuro non alimenta il presente, è illusione, solo la visione di un futuro possibile alimenta il presente, è dono di sé a Dio e quindi agli altri.

La giusta misura

          Vivere la dimensione lavorativa della propria vita significa anche trovare la giusta misura, per evitare il rischio dell’attivismo, dell’efficientismo, dell’entrare nell’ottica della produttività a tutti i costi. Una dedizione di tempo eccessiva alle attività lavorative, può togliere spazio ad altre attività che sviluppano altre dimensioni della vita di ogni essere umano. È necessaria una sorta di “ecologia” umana che sappia armonizzare i tempi dell’attività, con i tempi del riposo, del rigenerarsi, del ripensarsi.

          Questo è un rischio che possono correre anche le comunità religiose. Quando si perde il giusto equilibrio tra l’ora et labora. Il silenzio, il riposo, il dedicarmi a mansioni non prettamente legate alla mia occupazione principale, non solo mi permettono di vivere in modo più integrato la mia vita, ma danno la possibilità di “ricaricarsi” per poter poi affrontare il proprio lavoro con più efficacia. Ci sono tempi attivi e tempi passivi, utili entrambi: gli uni per fare e operare, gli altri per pensare, creare, immaginare. Dare spazio alle relazioni, ad esempio, può essere arricchente e può portare fecondità anche nei risultati del proprio lavoro.

           Abbiamo detto di quanto il lavoro sia a servizio della dignità dell’uomo, di quanto esso possa rendere l’uomo più uomo. Ma bisogna fare attenzione a non farne una forza alienante. Ci si può “buttare nel lavoro” per sfuggire ad altre responsabilità relazionali, sia in famiglia che nella comunità religiosa. Si può perdere di vista la dimensione del servizio e lasciarsi prendere da una sensazione di onnipotenza e di super efficientismo. Altro rischio è vivere il lavoro come pura competizione e ricerca del successo. Per ovviare a questo può essere utile vivere ogni opera in ottica di cooperazione. Si contribuisce a costruire qualcosa di cui non siamo padroni, ma che serve al bene dell’umanità. È necessario riscoprire il senso della festa. In una società del “24 ore su 24” e del “7 giorni su 7”, le comunità religiose dovrebbero offrire la testimonianza del sapersi fermare. Del saper sostare nella consapevolezza che in quel riposo “opera Dio stesso”. 

 

Come concepivano il lavoro don Bosco e madre Mazzarello 

          Don Bosco, cresciuto tra le colline e i campi piemontesi, aveva imparato bene con quale fatica il contadino del tempo guadagnava da vivere. Da prete, volle dar vita a comunità di valenti lavoratori, ammirati per questo dai contemporanei della prima era industriale. In una lettera a don Giuseppe Fagnano, missionario in America, scriveva: “Ma tu, ricorda sempre a tutti i nostri Salesiani il monogramma da noi adottato: Lavoro e temperanza. Sono due armi con cui noi riusciremo a vincere tutti e tutto” (14.11.1877). Sovente, infatti, insisteva: Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la Congregazione, la ricerca delle agiatezze ne sarà invece la morte. Il personaggio del ‘sogno dei dieci diamanti’ (Cf MB XV, 184) l’aveva allertato sull’efficacia di questo binomio. L’abbinamento era intenzionale sotto la penna di Don Bosco, tanto che l’attuale Regola di vita dei salesiani lo conserva e lo spiega: “Il salesiano si dà alla sua missione con operosità instancabile, curando di far bene ogni cosa con semplicità e misura. Con il suo lavoro sa di partecipare all’azione creativa di Dio e di cooperare con Cristo alla costruzione del Regno. La temperanza rafforza in lui la custodia del cuore e il dominio di sé e lo aiuta a mantenersi sereno” (art. 18).

          Don Bosco onorava il lavoro e lo poneva in cima al programma dei suoi nelle battaglie della vita. “Trovando noi stanchi ed affaticati, scrisse Mons. Giovanni Cagliero: coraggio, diceva, lavoriamo, lavoriamo sempre, perché lassù avremo un riposo eterno. E quando avverrà che un Salesiano cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la Congregazione ha riportato un gran de trionfo, e sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del cielo ”(MB,VII, 484). La sua era, però, una spiritualità del lavoro. Sognava i suoi religiosi ‘in maniche rimboccate’, dedicati alla missione tra i giovani con un’attività instancabile, disposti a soffrire tutto pur di far loro del bene e guadagnarli per Dio. In questo senso, il lavoro che don Bosco insegna è ad un tempo mistica, ascesi e esigenza della consacrazione a Dio nella libertà gioiosa che nasce dalla castità, dalla povertà e dall’obbedienza.

          La missione non si identifica semplicemente con l’attività o l’azione esterna, ma è una vera esperienza spirituale, è il luogo teologico in cui si incontra e si serve Dio, in una sintesi armonica tra fede e cultura, lavoro e preghiera. Si lavora con competenza, ma si conta innanzitutto sulla forza di Dio. È questa la preghiera del Da mihi animas che ha vissuto don Bosco: pregare senza sosta nella piena dedizione all’impegno. La preghiera si congiunge così con la vita: precede, accompagna e segue l’azione apostolica, è legata ai giovani con cui e per cui si prega.

          Fin da piccolo don Bosco aveva fatto l’esperienza della fecondità della preghiera. Quando alla cascina Moglia, il padrone lo prende in giro perché lo vede inginocchiato a pregare, Giovannino risponde: “Mia madre mi ha insegnato che se si prega, da due grani nascono quattro spighe, se non si prega da quattro grani nascono due spighe sole. Dovreste quindi pregare anche voi”. Il vecchio rise e borbottò: “Abbiamo anche il maestro”.

          Don Bosco è stato un contemplativo nell’azione e un attivo nella contemplazione; questo dinamismo dialettico rimanda direttamente al mistero di Dio stesso.

          È anche questa l’esperienza di Maria Domenica Mazzarello, definita da don Kothgasser ‘la contemplativa operante’. Chi si avvicina a lei per studiare la sua vita, scopre che si porta in cuore un’attrattiva segreta, simile ad una calamita: Dio. Lo si vede nell’infanzia e nell’adolescenza: la finestrella della contemplazione è il luogo del suo riposo dopo la dura fatica di una giornata di lavoro nel campo. In fondo, al di là della valle, nella chiesa del paese, c’è Gesù Eucaristia, ed è Lui che l’attende per un dialogo di segreta amicizia, condiviso anche dalla sua famiglia. Suo padre, uomo saggio, di cui la primogenita divenne rapidamente il braccio destro, le trasmise il senso del lavoro, una crescente capacità di riflettere e di discernere. In tal modo Maria Domenica diventerà una lavoratrice instancabile e congiuntamente una contemplativa, che si accuserà un giorno di aver passato un quarto d’ora senza pensare a Dio.

          Questo suo essere totalmente di Dio la portò a donarsi anche totalmente al bene delle ragazze e delle giovani. Il suo motto abituale: “Ogni punto d’ago sia un atto d’amor di Dio ”esprime un’intenzionalità che proviene da un cuore che ama e comunica vita.

          Maria Domenica, sotto il soffio dello Spirito, guidava le sue figlie su duri sentieri che esigevano da loro un coraggio non comune. Il carisma salesiano ricevette così un volto femminile, incarnato in prima persona da lei. A Mornese il lavoro era un elemento decisivo. Afferma al riguardo don Aubry: “Le prime salesiane non portavano cilici, ma arrivavano alla sera esauste dalla fatica”. Esse cadevano letteralmente sulla breccia: quante ne morirono prima dei trent’anni! Dalle Lettere alle figlie missionarie, ormai fisicamente lontane dalla ‘casa dell’amor di Dio’, possiamo cogliere lo stile di madre Mazzarello nel suo ministero di animazione e di accompagnamento. Per quanto riguarda il lavoro scriveva a suor Angela Vallese, direttrice della casa di Villa Colón: “Son contenta che codeste suore siano buone e lavorino […]. Animatele sempre ad essere umili e obbedienti, amanti del lavoro, ad operare con retta intenzione…” (L17.1). E in altra occasione: “Mi dite che avete da lavorare molto, e io ne son ben contenta, perché il lavoro è il padre delle virtù, lavorando scappano i grilli e si è sempre allegri. Mentre vi raccomando di lavorare, vi raccomando pure di aver cura della salute, e raccomando anche a tutte di lavorare senza nessuna ambizione, solo per piacere a Gesù” (L25.5). In queste e in altre Lettere ritorna l’insistenza sulla rettitudine d’intenzione, sulla purezza di cuore. Anselm Grün commenta al riguardo: “Un altro criterio per identificare un lavoro ricco di benedizioni è per Maria Mazzarello l’assenza di secondi fini. Se io voglio affermare me stesso nel lavoro, allora sono presto esaurito. Se invece il lavoro proviene dalla sorgente interiore, allora posso lavorare molto. Per Maria la sorgente interiore non è solo la sorgente dello Spirito Santo, ma l’amore a Gesù. Se io compio il mio lavoro per Gesù, esso mi dà gioia. E posso lavorare di più che se mi metto sotto la pressione del rendimento”. Don Bosco e Maria Domenica ci precedono e ci aprono il cammino di una consegna totale al servizio del Regno, lavorando nel solco educativo per il bene dei giovani e delle giovani.

Julia Arciniegas, Anna Rita Cristaino

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