Strenna 2025

Ancorati alla speranza: Pellegrini con i giovani

Strenna del Rettor Maggiore per la Famiglia Salesiana 2025

ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI

Carissime sorelle e fratelli appartenenti ai diversi gruppi della Famiglia Salesiana di don Bosco, vi giunga il saluto più cordiale all’inizio di questo nuovo anno 2025!

Non è senza emozione che mi rivolgo a tutti e a ciascuno in questo tempo di grazia segnato da due importanti avvenimenti per la vita della Chiesa e per quella della nostra Famiglia: il Giubileo dell’anno 2025, iniziato solennemente il 24 dicembre scorso con l’apertura della porta santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, e la ricorrenza del 150° anniversario della prima spedizione missionaria voluta dal nostro padre don Bosco, partita l’11 novembre 1875 alla volta dell’Argentina e di altri paesi del continente americano.

Si tratta di due importanti eventi che trovano nella speranza il loro punto di incontro. Infatti, papa Francesco ha indicato esattamente questa virtù come prospettiva nell’indire il Giubileo; allo stesso modo l’esperienza missionaria è foriera di speranza per tutti: per coloro che sono partiti (e partono) e per coloro che sono stati raggiunti dai missionari.

L’anno che ci è donato si presenta, dunque, ricco di spunti per la nostra crescita concreta e quotidiana, affinché la nostra umanità diventi feconda nell’attenzione agli altri… Questo avverrà solo nei cuori che mettono Dio al centro, al punto tale da poter affermare: «Prima di me ho messo te».

In questo mio commento cercherò di mettere in evidenza questi elementi, per approfondire, in chiave carismatica, quanto la Chiesa è invitata a vivere lungo questo anno, e porre l’accento su ciò che per noi, Famiglia di don Bosco, deve guidarci verso nuovi orizzonti.

1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO.

Il titolo della Strenna comporta l’intreccio di due eventi: il giubileo ordinario dell’anno 2025 e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria inviata da don Bosco in Argentina.

La concomitanza, che oso definire “provvidenziale”, dei due eventi rende il 2025 un anno decisamente straordinario per tutti noi e per i Salesiani di Don Bosco ancora di più. Infatti, nei mesi di febbraio, marzo e aprile ci sarà la celebrazione del Capitolo Generale 29° che porterà, tra le altre cose, all’elezione del nuovo Rettor Maggiore e del nuovo Consiglio generale.

Eventi globali e particolari, quindi, che ci coinvolgono a diverso titolo e che vogliamo vivere con profondità e intensità. Perché è proprio grazie a questi eventi che possiamo sperimentare la gioia di andare incontro a Cristo e l’importanza di rimanere ancorati alla speranza.

Il Giubileo

«Spes non confundit! La speranza non delude!»1.

Così papa Francesco ci presenta il Giubileo. Che meraviglia! Che indicazione “profetica”!

Il Giubileo un pellegrinaggio per rimettere al centro della nostra vita e della vita del mondo Gesù Cristo. Perché lui è la nostra speranza. Lui è la Speranza della Chiesa e del mondo intero!

Siamo tutti consapevoli che oggi il mondo ha bisogno di quella speranza che ci mette in relazione con Gesù Cristo e con gli altri fratelli e sorelle. Serve quella speranza che ci rende pellegrini, che ci mette in movimento e che ci fa camminare.

Parliamo della speranza come riscoperta della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco:

«La speranza ricolmi il cuore!»2, non solo scaldi il cuore, ma lo riempia, lo riempia in una misura traboccante!

L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana

E di questa speranza traboccante erano pieni i cuori dei partecipanti alla prima spedizione missionaria Salesiana in Argentina 150 anni fa.

Don Bosco da Valdocco getta il cuore oltre ogni confine, mandando i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda oltre ogni sicurezza umana, li manda per portare avanti ciò che lui aveva cominciato. Si mette in cammino con gli altri, sperando e infondendo speranza. Li manda e basta e i primi (giovani) confratelli partono e vanno. Dove? Nemmeno loro sanno! Ma si affidano alla speranza, obbediscono. Perché è la presenza di Dio che ci guida.

In quell’obbedienza ricca di entusiasmo trova nuova energia anche la nostra attuale speranza e ci spinge a metterci in cammino come pellegrini.

Ecco perché questo anniversario va celebrato: perché ci aiuta a riconoscere un dono (non una conquista personale, ma un dono gratuito, del Signore), ci permette di ricordare e, dal ricordo, di prendere forza per affrontare e costruire il futuro.

Viviamo quindi, oggi, per rendere possibile questo futuro e facciamolo nell’unico modo che riteniamo grande: condividendo con i giovani e con tutte le persone dei nostri ambienti (cominciando dai più poveri e dimenticati) il viaggio per andare incontro a Cristo nostra sola Speranza.

 

IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA

Giubileo è camminare insieme, ancorati in Cristo nostra speranza. Ma cosa vuol dire davvero?

Riprendo gli elementi della Bolla di indizione del Giubileo 2025 che mettono in evidenza alcune caratteristiche della speranza.

Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana

Siamo convinti che niente e nessuno potrà separarci da Cristo3. Perché è a lui che vogliamo e dobbiamo rimanere aggrappati, ancorati. Non possiamo camminare senza la nostra ancora.

L’ancora della speranza è, dunque, Cristo stesso, che porta le sofferenze e le ferite dell’umanità sulla croce in presenza del Padre.

L’ancora, infatti, ha la forma della croce, e per questo veniva raffigurata anche nelle catacombe per simboleggiare l’appartenenza dei fedeli defunti a Cristo Salvatore.

Quest’ancora è già saldamente attaccata al porto della salvezza. Il nostro compito è quello di attaccare la nostra vita ad essa, la corda che lega la nostra nave all’àncora di Cristo.

Noi navighiamo sulle onde agitate del mare e abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa di solido. Ma il compito ormai non è più quello di gettare l’àncora e di fissarla al fondo marino. Il compito è quello di attaccare la nostra nave alla corda che, per così dire, pende dal Cielo, là dove l’àncora di Cristo è saldamente fissata. Attaccandoci a questa corda, ci attacchiamo all’àncora della salvezza e rendiamo la nostra speranza certa.

La speranza è certa quando la barca della nostra vita si attacca a quella corda che ci lega all’àncora che è fissata in Cristo crocifisso che sta alla destra del Padre cioè nella comunione eterna del Padre, nell’amore dello Spirito Santo4.

Tutto è ben espresso nell’orazione liturgica della solennità dell’Ascensione del Signore:

«Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»5.

Lo scrittore e politico ceco Vaclay Havel definisce la speranza come uno stato d'animo, una dimensione dell'anima. Non dipende dall’osservazione preventiva del mondo, non si tratta di una previsione.

Byung-Chul Han aggiunge: “La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza, è un ancoraggio da qualche parte oltre all'orizzonte. Le radici della speranza si trovano dentro il trascendente: ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatto perché le cose vanno bene. Potremmo pensare che sperare sia semplicemente voler sorridere alla vita perché lei a sua volta ti sorrida e invece no, dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo percorrere quella corda che ci porta verso l’ancora.

La speranza è la capacità di ognuno di noi di lavorare per qualcosa perché è giusto farlo, non perché quel qualcosa avrà un successo garantito. Potrebbe essere un fallimento, potrebbe andar male: noi non speriamo vada bene, non siamo ottimisti. Lavoriamo perché questo accada. Ecco perché la speranza non è uguale all’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che qualcosa ha senso indipendentemente dal suo risultato.

Fare qualcosa perché ha senso: ecco, in questo consiste la speranza che presuppone dei valori e presuppone la fede.

È questo che le dà la forza per vivere, e ci dà la forza per provare qualcosa ancora e ancora, anche nella disperazione6.”

Ma come si può camminare restando ancorati? L’ancora ti zavorra, ti frena, ti fissa. Dove porta questo cammino? Porta all’eternità.

​​​​​​​Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna

La promessa di vita eterna, proprio per come è fatta a ciascuno di noi, non scavalca il cammino della vita, non è un salto in alto, non propone di salire su un razzo che si stacca da terra e vola nello spazio lasciando a terra la strada, la polvere del cammino, né lascia andare la nave alla deriva in mezzo al mare senza di noi.

Questa promessa è appunto un’ancora che si fissa nell’eterno, ma alla quale rimaniamo attaccati da una corda che viene a rendere salda la nave che attraversa il mare. Ed è proprio il fatto che essa è fissata in Cielo che permette alla nave di non rimanere ferma in mezzo al mare, ma di avanzare attraverso i flutti.

Se l’ancora di Cristo fissasse l’uomo al fondo del mare, tutti noi rimarremmo fermi dove siamo, magari tranquilli, senza problemi, ma fermi, senza viaggiare, senza andare avanti. Invece, proprio l’ancoraggio della vita al Cielo fa sì che la promessa che suscita la nostra speranza non arresta il cammino, non dà la sicurezza di un rifugio nel quale rinchiuderci e arrestarci, ma dona a noi una certezza nel camminare e nel continuare il cammino. La promessa di una meta certa, già raggiunta per noi da Cristo, rende saldo e deciso ogni passo nel cammino della vita.

È importante intendere il Giubileo come pellegrinaggio, come invito a mettersi in movimento, ad uscire da sé per andare verso Cristo.

Giubileo, allora, è da sempre sinonimo di cammino. Se desideri veramente Dio ti devi muovere, devi camminare. Perché il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio ti muove per trovarLo e, contemporaneamente, conduce a ritrovare te stesso e gli altri.

«Siamo nati e non moriremo mai più»7.

È bello e significativo il titolo della biografia della serva di Dio Chiara Corbella Petrillo. Sì, perché il nostro venire al mondo è orientato alla vita eterna. La vita eterna è una promessa che sfonda la porta della morte, aprendoci al “faccia a faccia con Dio”, per sempre. La morte è una porta che si chiude e allo stesso tempo un portone che si spalanca all’incontro definitivo con Dio!

Sappiamo quanto vivo in Don Bosco sia stato il desiderio del Cielo, proposto e condiviso gioiosamente con i giovani dell’Oratorio.

​​​​​​​2.3.CARATTERISTICHE DELLA SPERANZA

2.3.1.La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica

Gabriel Marcel8, il cosiddetto filosofo della speranza ci insegna che la speranza si trova nel tessuto di un’esperienza continua, sperare significa dare credito ad una realtà in quanto portatrice di futuro.

Eric Fromm9 scrive che la speranza non è un'attesa passiva, bensì una tensione continua, costante. È come una tigre, accovacciata che salta solo quando è il momento preciso.

Avere speranza è essere vigili in ogni momento, per ogni cosa che ancora non è successa. Speravano le vergini che attendevano lo sposo con le lampade accese, sperava don Bosco di fronte alle difficoltà e si inginocchiava a pregare.

La speranza è pronta nel momento in cui ogni cosa sta in procinto di nascere.

È vigile, attenta, in ascolto, in grado di guidare nel creare qualcosa di nuovo, nel dar vita al futuro in terra.

Per questo è “visionaria e profetica”. Focalizza la nostra attenzione verso ciò che non è ancora, è colei che aiuta a partorire qualcosa di nuovo.

​​​​​​​2.3.2.La speranza è scommessa sul futuro.

Senza speranza non c'è rivoluzione, né futuro, c'è solo un presente fatto di sterile ottimismo.

Spesso si pensa che chi spera sia un ottimista mentre il pessimista sia essenzialmente il suo opposto. Non è così. È importante non confondere la speranza con l’ottimismo. La speranza è molto più profonda, perché non dipende da umori, sensazioni o sentimentalismi. L'essenza dell'ottimismo è la positività innata. L'ottimista vive convinto che in qualche modo le cose miglioreranno. Per un ottimista il tempo è chiuso, non contempla il futuro: tutto andrà bene e basta.

Paradossalmente anche per il pessimista il tempo è chiuso: si ritrova intrappolato nel presente come in una prigione, nega tutto senza avventurarsi in altri mondi possibili. Il pessimista è testardo quanto l’ottimista, entrambi sono ciechi alle possibilità, perché il possibile gli risulta alieno, manca loro la passione per il possibile.

A differenza di entrambi la speranza scommette su quello che può andare oltre su quello che potrebbe essere.

E ancora, l'ottimista (così come il pessimista), non agisce, perché ogni azione comporta un rischio e dal momento che non vuole correre questo rischio, è fermo, non vuole fare esperienza del fallimento.

La speranza invece si muove per cercare, tenta di trovare una direzione, si dirige verso ciò che non conosce, fa rotta verso cose nuove. Questo è il pellegrinare di un cristiano.

​​​​​​​2.3.3.La speranza non è un fatto privato

Tutti noi portiamo nel cuore delle speranze. Non è possibile non sperare, ma è anche vero che ci si può illudere, considerando prospettive e ideali che non si realizzeranno mai, che sono solo delle chimere e specchietti per le allodole.

Molto della nostra cultura, specialmente occidentale, è piena di false speranze che illudono e distruggono o possono rovinare irrimediabilmente l’esistenza di singoli e di intere società.

Secondo il pensiero positivo basta sostituire i pensieri negativi con altri positivi per vivere più felici. Attraverso questo semplice meccanismo gli aspetti negativi della vita vengono omessi completamente e il mondo appare come un mercato di Amazon che ci fornirà qualunque cosa vogliamo grazie al nostro atteggiamento positivo.

Conclusione, se bastasse la nostra volontà di pensare positivamente per essere felice, allora ognuno sarebbe l’unico responsabile della propria felicità.

Paradossalmente, il culto alla positività isola le persone, le rende egoiste e distrugge l'empatia, perché le persone sono sempre più impegnate solo con sé stesse e non si interessano della sofferenza degli altri.

La speranza a differenza del pensiero positivo non evita la negatività della vita, non isola ma unisce e riconcilia, perché il protagonista della Speranza non sono io, focalizzato sul mio ego, trincerato esclusivamente su me stesso, il segreto della Speranza siamo noi.

Per questo, sorelle alla Speranza sono l’Amore, la Fede e la Trascendenza.

3. LA SPERANZA FONDAMENTO DELLA MISSIONE

La speranza è un invito alla responsabilità

La speranza è un dono e, come tale, va trasmesso a chiunque incontriamo lungo la nostra strada.

San Pietro lo afferma chiaramente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»10. Ci invita a non aver paura, ad agire nella quotidianità, a rendere ragione – quanto spirito salesiano in questa parola “ragione”! – della speranza. È questa una responsabilità per il cristiano. Se siamo donne e uomini di speranza, si vede!

«Rendere ragione della speranza che è in noi», diventa annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

Ma perché è necessario rispondere a chiunque ci chieda conto della speranza che è in noi? E perché sentiamo il bisogno di ritrovare speranza?

Nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che

«tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti»11.

Un’osservazione che colpisce perché descrive tutta la tristezza che si respira nelle nostre società e nelle nostre comunità. È una tristezza mascherata di falsa gioia, quella che costantemente ci viene annunciata, promessa e assicurata dai media, dalla pubblicità, dalla propaganda dei politici, da tanti falsi profeti del benessere. Accontentarsi del benessere ci impedisce di aprirci a un bene ben più grande, ben più vero, ben più eterno: quello che Gesù e gli apostoli chiamano “la salvezza dell’anima, la salvezza della vita”; un bene per il quale Gesù ci invita a non temere di perdere la vita, i beni materiali, le false sicurezze che spesso crollano in un istante.

Su queste “domande”, più o meno espresse (anche dai giovani), abbiamo il compito di «rendere ragione». Cosa desidero per i giovani e per tutte le persone che incontro sul mio cammino? Cosa vorrei chiedere a Dio per loro? Come vorrei che cambiasse la loro vita?

Esiste solo una risposta: la vita eterna. Non solo la vita eterna come uno stato sublime che possiamo raggiungere dopo la morte, ma la vita eterna possibile qui e ora, la vita eterna come la definisce Gesù̀: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero

Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»12, cioè una vita definita, illuminata dalla comunione con Cristo e, tramite Lui, con il Padre.

E a noi spetta il compito di accompagnare le generazioni più giovani in questo cammino verso la vita eterna, nell’azione educativa che ci contraddistingue. Un’azione che per noi Famiglia Salesiana è una missione. E cosa muove questa nostra missione? Sempre Cristo, nostra speranza.

La missione educativa, infatti, ha al centro la speranza.

In definitiva, la speranza di Dio non è mai speranza solo per sé. È sempre speranza per altri: non ci isola, ci rende solidali e ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore.

​​​​​​​La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.

Coraggio e speranza sono un abbinamento interessante. Infatti, se è vero che è impossibile non sperare, è altrettanto vero che per sperare è necessario il coraggio. Il coraggio nasce dall’avere lo stesso sguardo di Cristo, capace di sperare contro ogni speranza13, di vedere soluzione anche là dove apparentemente sembrano non esserci vie d’uscita. E quanto è “salesiano” questo atteggiamento!

Tutto ciò richiede il coraggio di esser se stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni. Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Un atteggiamento che ritroviamo nella prima spedizione missionaria.

Ritengo molto utile il riferimento all’art. 34 delle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco: esso mette in evidenza ciò che sta al cuore del nostro movimento carismatico e apostolico. Suggerisco a ciascuno dei gruppi della nostra articolata e bella Famiglia di riprendere gli stessi elementi che qui offro, rileggendo le rispettive Costituzioni e Statuti.

L’articolo ha come titolo: Evangelizzazione e catechesi e recita così:

«“Questa società nel suo principio era un semplice catechismo”. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione.

Come don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a esser educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero.

Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi.

La Vergine Maria è una presenza materna in questo cammino. La facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta ed infonde speranza».

Questo articolo rappresenta il cuore pulsante che delinea bene, anche per questa Strenna, quali siano le energie e le opportunità come compimento e attualizzazione del “sogno globale” che Dio ha ispirato a Don Bosco.

Se vivere il Giubileo è anzitutto fare in modo che Gesù sia e torni ad essere al primo posto, lo spirito missionario è la conseguenza di questo riconosciuto primato, che, rafforza la nostra speranza e si traduce in quella carità educativa e pastorale che fa annunciare a tutti la persona di Gesù Cristo. Questo è il cuore dell’evangelizzazione e caratterizza l’autentica missione.

È significativo richiamare l’inizio della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»14.

Quindi, prioritario e fondamentale è l’incontro con Cristo, non la “semplice” diffusione di una dottrina, ma una profonda esperienza personale di Dio che spinge a comunicarLo, a farLo conoscere e sperimentare diventando veri “mistagoghi” della vita dei giovani.

​​​​​​​«DA MIHI ANIMAS»: LO “SPIRITO” DELLA MISSIONE

Don Bosco teneva sempre davanti agli occhi una frase che i giovani potevano leggere passando davanti alla sua camera, un’espressione che colpì particolarmente Domenico Savio: «Da mihi animas cetera tolle».

C’è un fondamentale equilibrio che unisce, in questo motto, le due priorità che hanno guidato la vita di don Bosco - e che significativamente chiamiamo “grazia di unità” - che ci consentono di salvaguardare sempre l’interiorità e l’azione apostolica.

Se nel cuore mancasse l’amore di Dio come potrà esserci vera carità pastorale? E allo stesso tempo, se l’apostolo non scoprisse il volto di Dio nel prossimo, come si potrebbe dire che ama Dio?

Il segreto di don Bosco è quello di aver vissuto personalmente l’unico «movimento di carità verso Dio e verso i fratelli»15 che caratterizza lo spirito salesiano.

3.3.1.Gli atteggiamenti dell’inviato

Due i sogni-chiave della vita di Don Bosco, nei quali sono evidenti gli atteggiamenti dell’apostolo, di colui che è inviato:

  1. il “sogno dei nove anni” nel quale a Giovannino Gesù e Maria chiedono di rendersi umile, forte e robusto con l’obbedienza e la scienza, raccomandandogli sempre la bontà per conquistare il cuore dei giovani e tenendo sempre Maria come maestra e guida;
  2. il “sogno del pergolato di rose” che indica la “passione” nella vita salesiana che richiede di avere le “buone scarpe” della mortificazione e della carità.

​​​​​​​3.3.2.Riconoscere, Ripensare e Rilanciare.

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per

​​​​​​​Riconoscere e ringraziare Dio.

La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene.

​​​​​​​Ripensare, perché “nulla è per sempre”.

La fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi.

Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

​​​​​​​Rilanciare, ricominciare ogni giorno.

La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”.

4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA.​​​​​​​

La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza

San Tommaso D’Aquino scrive: «Spes introducit ad caritatem»16, la speranza prepara e predispone alla carità la nostra vita, la nostra umanità. Una carità che è anche giustizia, azione sociale.

La speranza ha bisogno della testimonianza. Siamo al cuore della missione, perché la missione non è fare cose, prima di tutto, ma è testimonianza di colui che ha vissuto un’esperienza e la racconta. Il testimone è portatore di una memoria, sollecita domande a chi lo incontra, porta stupore.

La testimonianza della speranza richiede una comunità, è opera di un soggetto collettivo ed è contagiosa, come è contagiosa la nostra umanità, perché la testimonianza è legame con il Signore.

La speranza nella testimonianza della missione è da costruire di generazione in generazione, tra adulti e giovani: questa è via di futuro. Nella nostra cultura il consumismo mangia il futuro, l’ideologia del consumo spegne tutto nel “qui ed ora”, nel “tutto e subito”. Il futuro però non puoi consumarlo, non puoi appropriarti di quanto è altro da te, non puoi appropriarti dell’altro17.

Nella costruzione del futuro la speranza è la capacità di promettere e di mantenere le promesse… cosa splendida e rara nel nostro mondo. Promettere è sperare, mettere in movimento, per questo – come detto – la speranza è cammino, è l’energia stessa del cammino.

​​​​​​​La speranza è arte della pazienza

Ogni vita, ogni dono, ogni cosa, per crescere, ha bisogno di tempo. Così anche i doni di Dio, richiedono tempo per maturare. Ecco perché nella nostra epoca in cui, tutto e subito, nel nostro “consumare” il tempo e la vita, ci è chiesto di dare fiato e forza alla virtù della pazienza: perché la speranza si realizza nella pazienza18. Speranza e pazienza, infatti, sono intimamente collegate.

La speranza comporta la capacità di saper aspettare, di attendere la crescita, quasi a dire che “una virtù tira l’altra”!

Affinché la speranza divenga realtà, si manifesti in senso compiuto, occorre pazienza. Nulla si manifesta in modo miracolistico, perché tutto è sottomesso alla legge del tempo. La pazienza è l’arte del contadino che semina e sa aspettare che il seme gettato cresca e porti frutto.

La speranza inizia in noi come attesa, e si esercita come attesa vissuta coscientemente nella nostra umanità. L’attesa è una dimensione molto importante dell’esperienza umana. L’uomo sa attendere, l’uomo è sempre in una dimensione di attesa, perché è la creatura che vive nel tempo in modo cosciente.

L’attesa umana è la vera misura del tempo, una misura che non è numerica, non è cronologica. Noi ci siamo abituati a calcolare l’attesa, a dire che abbiamo aspettato un’ora, che il treno è in ritardo di cinque minuti, che Internet ci ha fatto attendere quattordici interminabili secondi prima di rispondere al nostro clic, ma quando la misuriamo così, snaturiamo l’attesa, ne facciamo una cosa, un fenomeno staccato da noi stessi e da ciò che attendiamo. È come se l’attesa fosse qualcosa a sé, in sé, senza relazione. Invece l’attesa – siamo al punto cruciale – è relazione, è una dimensione del mistero della relazione.

Solo chi ha speranza, ha pazienza. Solo chi ha speranza diventa capace di “sopportare”, di “sostenere dal basso” le differenti situazioni che l’esistenza presenta. Chi sopporta attende, spera, e riesce a sopportare tutto, perché la sua fatica ha il senso dell’attesa, ha la tensione dell’attesa, l’energia amante dell’attesa.

Sappiamo che il richiamo alla pazienza e all’attesa comportano, a volte, l’esperienza della fatica, del lavoro, del dolore e della morte19. Ebbene, fatica, dolore e morte smascherano l’illusione di possedere il tempo, il senso del tempo, il valore del tempo, il senso e il valore della nostra vita. Sono esperienze negative, ma anche positive, perché la fatica, il dolore e la morte possono essere occasioni per ritrovare il vero senso del tempo della vita.

E, ancora una volta, «rendere ragione della speranza che è in noi», diventando annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

 

5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: IN DIO CON DON BOSCO

Don Egidio Viganò ha offerto alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana un’interessante riflessione sul tema della speranza, attingendo alla nostra ricchissima tradizione ed evidenziando alcuni caratteri specifici dello spirito salesiano letti alla luce di questa virtù teologale. In modo particolare fece questo, commentando, per le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il sogno dei dieci diamanti di don Bosco20.

Vista la profondità dei contenuti proposti, mi pare utile ricordare il contributo del VII Successore di don Bosco per richiamare alla nostra memoria ciò che, sempre nella prospettiva della speranza, siamo tutti chiamati a vivere.

Dio è l’origine della nostra speranza

Breve richiamo al sogno

È a tutti nota la narrazione di questo straordinario sogno che don Bosco ebbe a San Benigno Canavese la notte tra il 10 e l’11 settembre 1881. Ne richiamo sinteticamente la struttura.21

Il Sogno si svolge in tre scene. Nella prima il Personaggio incarna il profilo del salesiano: nel lato anteriore del suo manto presenta cinque diamanti, tre sul petto, che sono «Fede» «Speranza» e «Carità», e due sulle spalle, che sono «Lavoro» e «Temperanza»; nel lato posteriore presenta altri cinque diamanti, che indicano «Obbedienza» «Voto di Povertà» «Premio» «Voto di Castità» «Digiuno». Don Rinaldi definisce questo Personaggio coi dieci diamanti: «Il modello del vero Salesiano».

Nella seconda scena il Personaggio mostra l’adulterazione del modello: il suo manto «era divenuto scolorato, tarlato e sdruscito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti».

Questa scena tanto triste e deprimente mostra «il rovescio del vero salesiano», l’antisalesiano.

Nella terza scena appare «un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento [... dall’] aspetto maestoso, ma dolce ed amabile». Egli è portatore di un messaggio. Esorta i Salesiani ad «ascoltare», a «intendere», a mantenersi «forti e animosi», a «testimoniare» con le parole e con la vita, ad «essere oculati» nell’accettazione e nella formazione delle nuove generazioni, a far crescere sanamente la loro Congregazione.

Le tre scene del sogno sono vivaci e provocatorie; ci presentano una sintesi agile, personalizzata e drammatizzata della spiritualità salesiana. Il contenuto del sogno comporta certamente, nella mente di Don Bosco, un importante quadro di riferimento per la nostra identità vocazionale.

Ebbene, il personaggio del sogno – come noto – porta sulla parte frontale il diamante della speranza, che sta a segnalare la certezza dell’aiuto dall’alto in una vita tutta creativa, impegnata cioè a progettare quotidianamente delle attività pratiche per la salvezza, soprattutto della gioventù. Insieme agli altri simboli legati alle virtù teologali, emerge la fisionomia di una persona saggia e ottimista per la fede che lo anima, dinamica e creativa per la speranza che lo muove, sempre orante e umanamente buono per la carità che lo permea.

In corrispondenza al diamante della speranza, sul retro della figura troviamo il diamante del “premio”. Se la speranza mette in luce visibilmente il dinamismo e l’attività del salesiano nella costruzione del Regno, la costanza dei suoi sforzi e l’entusiasmo del suo impegno si fondano sulla certezza dell’aiuto di Dio, reso presente dalla mediazione e dall’intercessione di Cristo e di Maria, il diamante del “premio” sottolinea piuttosto un atteggiamento costante della coscienza che permea ed anima tutto lo sforzo ascetico, secondo la familiare massima di don Bosco: «Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!»22.

​​​​​​​Don Bosco “gigante” della speranza

Il salesiano – diceva Don Bosco – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»23; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che [...] Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)»24. «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo»25. E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!

Il pensiero e la coscienza continua del paradiso sono una delle idee sovrane e uno dei valori di spinta della tipica spiritualità e anche della pedagogia di Don Bosco. È come un far luce e un approfondire l’istinto fondamentale dell’anima che tende vitalmente al proprio fine ultimo.

In un mondo soggetto alla secolarizzazione e alla progressiva perdita del senso di Dio – specialmente a causa del benessere e di certo progresso – è importante resistere alla tentazione – per noi e per i giovani con i quali camminiamo – che ci impedisce di alzare lo sguardo verso il Paradiso e non ci fa sentire il bisogno di sostenere e nutrire un impegno di ascesi vissuto nel lavoro quotidiano. Al suo posto va crescendo uno sguardo temporale, secondo un più o meno elegante orizzontalismo, che crede di saper scoprire l’ideale di tutto all’interno stesso del divenire umano e nella vita presente. Tutto il contrario della speranza!

Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.

Mi soffermo brevemente a ricordare come don Bosco abbia saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati»26. Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.

Nel binomio “lavoro” e “temperanza” si percepisce che la speranza è stata vissuta da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di un’instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il Salvatore dell’uomo e il Signore della storia; in sua Madre, Maria, l’Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacramento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella gioventù bisognosa, il vasto campo del «non-ancora». Perciò il suo cuore erompe nel grido: «Da mihi animas», Signore concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La sequela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la struttura portante del tutto.

Sappiamo bene che la dimensione della speranza cristiana coniuga la prospettiva del “già” e del “non ancora”: qualcosa di presente e qualcosa in divenire che, tuttavia, a partire dall’oggi comincia a manifestarsi anche se “non ancora” in pienezza.

​​​​​​​Caratteristiche della speranza in Don Bosco La certezza del “già”

Quando noi domandiamo alla teologia qual è l’oggetto formale della speranza, ci risponde che è l’intima convinzione della presenza di Dio che aiuta, che soccorre e assiste; la certezza interiore circa la potenza dello Spirito Santo; l’amicizia con Cristo vittorioso che ci fa dire con San Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la certezza del «già». La speranza stimola la fede a esercitarsi nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vicissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori battesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.

Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un esercizio della fede sull’essenza di Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio dell’epoca dello Spirito Santo, su ciò che c’è già dentro di noi per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa, per l’appello personale della nostra vocazione.

Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in noi, i loro dinamismi si stimolano e si completano a vicenda e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della potenza dello Spirito Santo.

La chiara coscienza del “non-ancora”

Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza del «non-ancora ». Non sembra molto difficile averla; però la speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male e ingiusto, quanto di ciò che manca alla statura di Cristo nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione del Regno.

Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara conoscenza del progetto divino di salvezza, su cui s’innesta la capacità critica e di discernimento da parte di colui che spera. Così la critica dell’uomo di speranza non è semplicemente psicologica o sociologica, ma trascendente, secondo l’orbita teologale della «nuova creatura»; si serve anche degli apporti delle scienze umane, e di gran lunga le oltrepassa.

Con la coscienza del «non-ancora», chi spera percepisce ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme in ordine al Regno di Dio e s’impegna per far crescere il bene e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo. La capacità di discernimento del «non-ancora» è misurata sempre dalla certezza del «già». Quindi e direi soprattutto nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che ci guidano nell’orbita da Lui tracciata.

È questa una qualità molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli a schiudersi e a crescere.

Come si fa a sperare se non c’è questa capacità di discernimento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna essere sensibili anche alla primavera «che brilla d’intorno». Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che c’è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.

L’operosità salvifica

Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esigenza operativa accompagnata dall’impegno concreto di santificazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna collaborare con il “già” in crescita, urge muoversi per lottare contro il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.

Il discernimento del “già” e del “non-ancora” ha bisogno di tradursi nella pratica della vita, aprendosi ai propositi, ai progetti, alla revisione, all’inventiva, alla pazienza e alla costanza. Non tutto risulterà “come speravamo”: ci saranno degli insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni. La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscurità della fede.

​​​​​​​I “frutti” della speranza in Don Bosco

Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena indicato, derivano alcuni frutti particolarmente significativi per lo spirito salesiano di Don Bosco.

La gioia

Dal primo elemento costitutivo - la certezza del “già” - deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera speranza esplode in gioia.

Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce una certa analogia con il mistero della speranza cristiana), è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la speranza in un clima di gioia per la gioventù da salvare. Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri». Non si tratta di un’ilarità superficiale propria del mondo, ma di un gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e della speranza.

C’è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali. Capisco che c’è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l’ha vissuta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte, ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tristezza.

Però, l’afflizione o la malinconia per cui una suora ha l’impressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la prendano in considerazione, che abbiano invidia o incomprensione delle sue qualità, ecc. è una tristezza che non si deve alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che altri non mi considerino tanto?

La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vittoria che vince il mondo!... È indispensabile la gioia per testimoniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.

Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo e non una riduzione a sole osservanze e mortificazioni. La speranza ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allenamenti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi: dalla speranza tanta gioia!

Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo disorientamento con una vita riempita di sensazioni eccitanti. Coltiva la promozione e la soddisfazione dei sensi, il film pungente, l’erotismo, la droga, ecc. È una maniera di evadere da una situazione caduca che sembra non avere senso, per cercare qualche cosa che sconfini verso una “caricatura di trascendenza”.

La pazienza

Un altro “frutto” della speranza - che procede dalla coscienza del “non-ancora” - è la pazienza. Ogni speranza comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la speranza nel suo non breve “non-ancora”, con i suoi guai, le sue difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare per la vittoria della fede, mentre si è mortali e immersi nel caduco, esige una struttura interiore di speranza che porta alla pazienza.

L’espressione più sublime di pazienza cristiana l’ha vissuta Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pazienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima. Qui, nella pazienza, più che di iniziativa e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passività virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano di Dio.

Lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente la pazienza. Nell’introduzione alle Costituzioni Don Bosco ricorda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sopportare in questa vita non hanno confronto con il premio che ci attende: «Era solito dire: “Coraggio! La speranza ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancare”»27.

«Ciò che sostiene la pazienza, dev’essere la speranza del premio»28.

Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Uno dei suoi primi biografi, il Maccono, afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la rallegrò nell’ora della morte: «La sua speranza era molto viva e attiva. Mi pare - testificò una suora - che la speranza l’animasse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare tutto con grande purità d’intenzione»29.

La speranza è madre della pazienza e la pazienza è difesa e scudo della speranza.

La sensibilità educativa

Dal terzo elemento costitutivo della speranza – “l’operosità salvifica” - procede un altro frutto: la sensibilità pedagogica. È una iniziativa d’impegno adeguato, sia nell’ambito della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell’ambito della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pratico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una metodologia concreta che comporta queste attenzioni:

  • l’avvedutezza (o santa «furbizia»): quando si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: «L’ottimo è nemico del bene»30.
  • l’ardimento. Il male è organizzato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e coraggiosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di genuina prudenza, ossia di quell’«auriga virtutum» che ci rende agili, tempestivi e penetranti nell’applicazione di una vera intrepidezza nel bene.
  • la magnanimità. Non dobbiamo rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una missione storica più importante di quella degli astronauti o degli uomini di scienza... Siamo impegnati nella liberazione integrale dell’uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto ampie. Don Bosco voleva che fossimo «all’avanguardia del progresso» (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi di comunicazione sociale).

Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i giovani alle responsabilità apostoliche; pensiamo, per esempio, ai primi missionari partiti per l’America. Sia i Salesiani sia le Figlie di Maria Ausiliatrice erano poco più che ragazzi e ragazze!

Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti. Non gli bastava né Valdocco né Mornese; non poteva rimanere solo dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell’Italia o dell’Europa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale, perché si sentiva quasi investito della responsabilità di salvezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque. E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle iniziative, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso della gradualità e con la modestia degli inizi.

Ecco sul volto del Salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità: non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza d’animo perché ha un cuore abitato dalla speranza.

Péguy, con la sua acutezza un po’ violenta, ha scritto: «Una capitolazione è in sostanza un’operazione in cui si incomincia a spiegare invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle persone di molte spiegazioni». Sul volto salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione e l’ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l’ottimo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine per tendere poi verso l’ordine!

La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla profondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina, all’entusiasmo della gratitudine e dell’ottimismo (che provengono dalla “fede”), anche il coraggio dell’iniziativa, lo spirito di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pedagogica, l’utopia della magnanimità, la modestia della praticità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell’allegria.

5.2.  La fedeltà di Dio: fino alla fine

Finora abbiamo dato uno sguardo a ciò che don Bosco e i nostri santi e beati hanno espresso chiaramente nelle loro esistenze. Si tratta di elementi che spingono ciascuno di noi personalmente e come Famiglia Salesiana a far emergere o – per riprendere le parole di don Egidio Viganò – far brillare quella speranza della quale siamo chiamati a «rendere ragione», soprattutto ai giovani e, tra questi, i più poveri.

È giunto il momento di “sbirciare” un po’ oltre ciò che è “immediatamente visibile” e cercare di conoscere ciò che attende la nostra vita e ci dà il coraggio di aspettare operosamente mentre collaboriamo alla venuta del “giorno del Signore”.

Quindi, sempre riprendendo l’analisi schietta e intensa del VII Successore di don Bosco, concentriamo la nostra attenzione sulla prospettiva del “premio”.

Il diamante del “premio” è collocato con altri quattro nella parte posteriore del manto del personaggio del sogno. È quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori visti nella parte anteriore. È interessante osservare che il diamante del “premio” è collocato sotto quello della “povertà”, perché ha certamente una relazione con le “privazioni” legate ad essa.

Sui suoi raggi si leggono le seguenti parole: «Se vi attrae la grandezza dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche». «Chi soffre con Me, con Me godrà». «È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo».

Il vero Salesiano ha nella fantasia, nel cuore, nei desideri, negli orizzonti di vita la visione del premio, come pienezza dei valori proclamati dal Vangelo. Per questa ragione «è sempre lieto. Diffonde questa gioia e sa educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa»31.

Nella casa di Don Bosco e nelle nostre case salesiane si parlava molto del Paradiso. Era un’idea permanente e onnipresente riassunta in alcuni famosi detti: «Pane, lavoro e Paradiso»32; «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»33. Sono frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.

Certamente molte Figlie di Maria Ausiliatrice ricorderanno la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone sullo spirito di Mornese: «Qui siamo in Paradiso, nella casa c’è un ambiente di Paradiso!»34. E non era certo a causa delle privazioni o della mancanza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco: «Servite Domino in laetitia»35.

Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e trascendente clima di vita: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»36.

Nelle biografie di Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone, Don Bosco, anche descrivendone l’agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a una vera ansia di Paradiso. Molto più che l’orrore della morte, i suoi ragazzi sentono l’attrattiva della Pasqua.

Il pensiero del premio è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, ossia, dell’intensità della fede, della speranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più strettamente legato alla speranza.?(soggetto? Infonde nel cuore una gioia e una allegria che vengono dall’Alto e trovano una bella sintonia con le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo constatiamo vivendo tra i ragazzi e le ragazze: la gioventù intuisce con maggior freschezza che l’uomo è nato per la felicità.

Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci: ci basta ascoltare i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la felicità, l’aspettiamo anche senza confessarlo.

L’idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco, non è un’utopia per ingenui inganni, non è la carota che inganna il cavallo perché cammini più in fretta, è l’ansia sostanziale del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell’amore di Dio, della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia; è la presenza viva dello Spirito Santo che spingono, di fatto, verso il premio.

Don Bosco non disprezza nessuna gioia dei giovani. Al contrario, la suscita, la incrementa, la sviluppa. La famosa “allegria” in cui fa consistere la santità non è solo una gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia. Questa ne è la radice. Essa si esprime anche all’esterno, nella vita, nel cortile e nel senso della festa.

Come preparava le solennità religiose, gli onomastici, i giorni festivi dell’Oratorio! Si preoccupava persino di organizzare la celebrazione del proprio onomastico, non per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nell’ambiente.

Pensiamo alle coraggiose passeggiate autunnali: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni per viverle; poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto distesa nel tempo. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Becchi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con decine e decine di ragazzi... La passeggiata, il gioco, la musica, il canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità appropriata ed esplosiva, frutto di una fede, una speranza e una carità convinte, valori del cielo proprio qui sulla terra.

Sul firmamento di Valdocco s’affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso. Testimoniare oggi i valori del premio è una profezia urgente per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-industriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una enorme possibilità di comodità e di piacere, con una conseguente e pesante tristezza.

Tra l’altro leggiamo nelle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco – ma vale per ogni cristiano – che «il salesiano [è] un segno della forza della resurrezione» e che «nella semplicità e laboriosità della vita quotidiana» è «educatore che annuncia ai giovani “cieli nuovi e terra nuova”, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza»37.

A Mornese e a Valdocco non c’erano né comodità, né dittature e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia dell’uomo. È cresciuta, invece, l’angustia, la nausea, si è acuita la mancanza di senso dell’esistenza che purtroppo continuiamo a rilevare – specialmente nelle società opulente – con la tragica statistica dei suicidi adolescenziali e giovanili.

Oggi oltre alla povertà materiale che affligge ancora una grandissima porzione di umanità, diventa urgente trovare il modo di far percepire alla gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l’originalità di Gesù Cristo.

Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell’uomo, ma non se ne conosce più la giusta strada, e allora va crescendo un’immensa disillusione.

I giovani, anche a causa della mancanza di adulti significativi, si sentono incapaci di affrontare la sofferenza, il dovere e l’impegno costante. Il problema della fedeltà agli ideali e alla propria vocazione è diventato cruciale. La gioventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive in un’atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacrificio, in modo tale che la ricerca e il conseguimento del solo benessere finisce per asfissiare la capacità di amare e, quindi, di sognare il futuro.

Giustamente, come dicevamo, il diamante del premio è collocato sotto quello della povertà, quasi a indicarci che i due si completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evangelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la realtà con un’ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze, i contrattempi, le privazioni e le pene.

Qual è l’energia interiore che fa affrontare tutto con fiducia e con volto ilare, senza scoraggiarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla terra. Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che ci fanno rileggere tutta l’esistenza con l’ottica dello Spirito Santo.

Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino con la vita la grande verità del Paradiso. Non un’evasione alienante, ma un’intensa realtà stimolante!

Dunque, nello spirito di Don Bosco è costante la preoccupazione di curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne il firmamento della mente, l’orizzonte del cuore salesiano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un premio, guardando alla Patria, alla casa di Dio, alla Terra promessa.

È bene precisare che la prospettiva del premio non consiste riduttivamente nel conseguimento di una “ricompensa”, di una sorta di consolazione per una vita vissuta in mezzo a tanti sacrifici, sopportazioni… Niente di tutto questo! Se fosse solo “ricompensa”, assomiglierebbe a un ricatto. Ma Dio non opera in questo modo. Nel Suo amore non può che offrire all’uomo Se stesso. Questa – come afferma Gesù – è la vita eterna: la conoscenza del Padre. Dove “conoscere” significa “amare”, divenire pienamente partecipi di Dio, in continuità con l’esistenza terrena vissuta “in grazia”, ossia nell’amore a Dio e ai fratelli e alle sorelle.

In questo cammino siamo invitati a volgere lo sguardo a Maria, la quale si fa presente come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice e ausiliatrice. Don Bosco è sicuro di questa sua presenza tra noi e vuole dei segni che ce lo ricordino.

Per Lei ha edificato una Basilica, centro di animazione e diffusione della vocazione salesiana. Voleva la Sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni iniziativa apostolica alla Sua intercessione e ne commentava con commozione la reale e materna efficacia. Ricordiamo, ad esempio, ciò che disse alle Figlie di Maria Ausiliatrice nella casa di Nizza: «La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo manto»38.

Oltre a Lei, cerchiamo nella casa di Dio anche altri amici. I nostri Santi e Beati, a cominciare dai volti a noi più familiari e che fanno parte del cosiddetto “giardino salesiano”.

Non facciamo queste scelte per dividere la grande casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piuttosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra e poter parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la trepidazione di chi ha ascoltato l’alta lezione di un pensatore denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familiarità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri colleghi e i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano particolare fiducia. Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco, con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con Laura Vicuña, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Caravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc., è proprio un dialogo “di casa”, di famiglia.

Ecco quanto ci suggerisce il diamante del premio: sentirsi a casa con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sentire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia che dà senso di Paradiso all’ambiente quotidiano di vita.

 

CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

Al termine di questo commento non possiamo che volgere il nostro cuore e il nostro sguardo alla vergine Maria, come ci ha insegnato don Bosco.

La speranza domanda fiducia, capacità di consegnarsi e di affidarsi. In tutto ciò abbiamo una guida e una maestra in Maria Santissima.

Lei ci testimonia che sperare è affidarsi e consegnarsi, ed è vero tanto per l’esistenza come per la vita eterna.

In questo cammino la Madonna ci prende per mano, ci insegna come fidarci di Dio, come consegnarci liberamente all’amore trasmesso da suo Figlio Gesù.

L’indicazione e la “carta di navigazione” che ci presenta, è sempre la stessa: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»39. Un invito che ogni giorno assumiamo nella nostra vita.

In Maria scorgiamo la realizzazione del premio.

Maria incarna in sé l’attrattiva e la concretezza del Premio: Essa, «finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte»40.

Possiamo leggere sulle Sue labbra alcune belle espressioni provenienti da San Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito Santo, Sposo di Maria, certamente sono da Lei condivise.

Eccole: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»41.

 

Carissimi sorelle e fratelli, carissimi giovani,

Maria Ausiliatrice, Don Bosco e tutti i nostri Santi e Beati ci sono vicini in questo anno così straordinario. Siano loro ad accompagnarci a vivere con profondità le istanze del Giubileo, aiutandoci a mettere al centro della vita la persona di Gesù Cristo «il Salvatore annunciato nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo»42.

Ci spingano, sull’esempio delle prime e dei primi missionari inviati da don Bosco, a fare sempre e ovunque della nostra vita un dono gratuito per gli altri, soprattutto per i giovani e tra loro quelli più poveri.

Per ultimo, un augurio: che quest’anno faccia crescere in noi la preghiera per la pace, per un’umanità pacificata. Invochiamo il dono della pace – lo shalom biblico – che contiene tutti gli altri e trova compimento solo nella speranza.

Un abbraccio fraterno

 

Don Stefano Martoglio S.D.B.

Vicario del Rettor Maggiore

 

Roma, 31 dicembre 2024

 


1 FRANCESCO, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Città del Vaticano 9 maggio 2024.

2 Ibi.

3 Cf. Rm 8,39.

4 Rm 5,3-5

5 Messale romano, LEV, Roma 20203, 240.

6 BYUNG-CHUL HAN, El espìritu de la esperanza, p.18, Herder, Barcellona 2024.

7 C. PACCINI – S. TROISI, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo, Porziuncola, Assisi (PG) 2001.

8 GABRIEL MARCEL, Philosophie der Hoffnung, Mùnich, List 1964.

9 ERICH FROMM, La revolucìonde la esperanza, Ciudad de México 1970.

10 1Pt 3,15.

11 FRANCESCO, Spes non confundit, 9.

12 Gv 17,3.

13 Cf. Rm 4,18.

14 BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25 dicembre 2005, 1.

15 Cost. SDB, 3.

16 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, IIª-IIae q. 17 a. 8 co.

17 Cf. E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2023.

18 Per queste riflessioni ho attinto alla ricca riflessione dell’Abate generale dell’Ordine dei Cistercensi M. G. LEPORI,

Capitoli dell’Abate Generale OCist al CFM 2024. Sperare in Cristo reperibile in più lingue al sito: www.ocist.org

19 Cfr Rm, 5,3-5

20 E. VIGANÒ, Un progetto evangelico di vita attiva, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1982, 68-84.

21 Cf. E. VIGANÒ, Profilo del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti, in ACS 300 (1981), 3-37. L’intera narrazione del sogno è reperibile in ACS 300 (1981), 40-44; oppure in MB XV, 182-187.

22 MB VIII, 444.

23 Cost. SDB, 18.

24 P. BRAIDO (A CURA DI), Don Bosco Fondatore “Ai Soci Salesiani” (1875-1885). Introduzione e testi critici, LAS, Roma 1995, 159.

27 MB XII, 458.

28 Ibi.

29 F. MACCONO, Santa Maria Domenica Mazzarello. Confondatrice e prima Superiora Generale delle FMA. Vol. I, FMA, Torino 1960, 398.

30 MB X, 893.

31 Cost. SDB, 17.

32 MB XII, 600.

33 MB VIII, 444.

34 Citato in E. VIGANÒ, Riscoprire lo spirito di Mornese, in ACS (1981), 62.

35 Sal 99.

36 MB V, 356.

37 Cost. SDB, 63. Si veda anche E. VIGANÒ, «Rendere ragione della gioia e degli impegni della speranza, testimoniando le insondabili ricchezze di Cristo». Strenna 1994. Commento del Rettor Maggiore, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1993.

38 G. CAPETTI, Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo. Vol. I, FMA, Roma 1972-1976, 122.

39 Gv 2,5.

40 LG, 59.

41 Rm 8,34-39.

42 Cost. SDB, 196.

 

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