Sul «Foglio» del 3 maggio 2005 il direttore Ferrara risponde a una lettrice che critica la sua battaglia contro il referendum chiedendo di evitare discorsi vecchi e guerre culturali. Ecco la sua risposta...
del 04 maggio 2005
 
Non fu una guerra culturale il femminismo? E non lo fu la campagna contro la segregazione dei neri d’America? Non è una guerra culturale quella intorno alle questioni della pace e della libertà, dell’uso della forza e dell’estensione dei diritti e della democrazia? E’ molto al di sotto dell’intelligenza e del cuore dell’amica che ci scrive, per esempio, considerare inaccettabile che un “discorso nuovo” cerchi di farsi largo attraverso un “discorso vecchio”. Se i Law Lords d’Inghilterra autorizzano la confezione di un bambino allo scopo di usarlo come un tessuto compatibile per curarne un altro, un atto assolutamente nuovo nella storia dell’umanità, è possibile affrontare la cosa partendo dalla sacralità della vita in sé e per sé, citando magari quelle vecchie barbe che si chiamano Immanuel Kant o Romano Guardini o Joseph Ratzinger o Jürgen Habermas o Paolo Prodi?
James Watson scopritore del Dna e Edoardo Boncinelli o Renato Dulbecco sanno più cose di scienza di quante ne sapessero San Tommaso, Maimonide, Goethe, Dostoievskij o Leo Strauss: ma lo stadio più avanzato delle conoscenze tecniche della biologia e della medicina moderne, che noi soldati culturali utilizziamo a piene mani perché è dalla scoperta del patrimonio genetico dell’embrione (oltre al resto) che parte la nostra crociata stracciona, giustifica forse l’eliminazione culturale del discorso vecchio, umanistico, polveroso di sapienza e filosofia che ha secoli sulle spalle?
 
Un secolo complicato
Le guerre culturali nascono da una circostanza carica di realtà, né vecchia né nuova, esterna ai discorsi vecchi e nuovi: è in atto una delle più grandi guerre anticulturali di tutti i tempi, nel XXI secolo, ed è un’avanzata devastante, spronata da automatismi ed egemonismi della scienza, della tecnologia, della sociologia e di altri linguaggi post moderni, sicuri di esaurire nelle loro possibilità infinite la finitezza della realtà materiale e morale che fonda il nostro esistere. Il Novecento è un secolo complicato da decifrare, stiamo appena cominciando. Di sicuro è un secolo che non ha avuto remore, dall’inutile strage alla shoah fino al gulag: è così sciattamente antimoderno pensare che ci abbia lasciato, per elaborarlo ulteriormente, qualche sedimento culturale carico di un sottile veleno? E’ invece probabile che il secolo dei totalitarismi e delle ideologie perverse abbia un legato testamentario, che dobbiamo rifiutarci di eseguire: continuate su questa strada, ci dice il signor Novecento, e trasformate i diritti dell’uomo, i desideri irrinunciabili dell’individuo, in una trionfale cancellazione dei diritti dell’Untermensch, del piccolo, dell’invisibile, del debole. E’ facile, si tratta solo di lasciarsi trasportare da uno slittamento: si può fare un figlio in provetta, e allora si costruiscano parcheggi crioconservati di esseri umani, e bimbi sani e belli e bambini-farmaco, e si accompagni con la fame e con la sete il trapasso di una donna ammalata per decisione di un marito. Che progresso straordinario, che discorso nuovo e profilattico! Siamo finalmente liberi dal vegetativo, siamo tutta anima e valori in progress.
Come fate a non capire che è pazzo un mondo in cui ci si mette il profilattico per evitare di aver figli, si ricorre a duecentomila aborti l’anno nel paese, la Francia, dove oltre al profilattico sono da tempo in commercio la pillola del giorno dopo e la Ru 486 (l’aborto chimico); poi si teorizza e si impone l’uso secondo il quale avere figli nell’età fertile della donna (e della coppia) è antisociale, ma è sociale estendere la fabbricazione di bambini in provetta, passare d’incanto dalla retorica del controllo della riproduzione come eliminazione del prodotto a quella del controllo della riproduzione come moltiplicazione e classificazione e selezione del prodotto. Deridete un arcivescovo quando vi spiega la differenza tra l’attesa naturale di un bambino dopo l’amore e la costruzione in laboratorio di un bambino che, nonostante le migliori intenzioni del desiderio, è la protesi di una volontà, la proiezione di una decisione o di una scelta che tecnicamente può fare di lui quello che vuole chi decide, anche un farmaco se del caso, o magari un vichingo della porta accanto.
Siete inclini all’ironia e anche al sarcasmo, vi sembrano tutte vecchie fole senza importanza, vi abbandonate teneramente al flusso potente dei tempi che vi culla, ci compatite per la nostra incapacità di seguire il corso degli eventi e, nei casi peggiori, sospettate che il nostro sia un discorso banalmente politico, trumentale, un appello regressivo e guerresco nel segno di una nuova oppressione. Poi esigete umiltà: volete umiliare le idee che non accettate, defalcare dal dizionario della gente civile la parola “peccato”, anche se detta nello stile ineccepibile di un laico. Siete nel profondo, per troppa sicurezza o troppa insicurezza, intolleranti.
L’umiltà, il dialogo, il rispetto sono concetti anfibi, cara Franca: procedono sulla terra della ragione quando esprimono la contraddizione che è nelle cose (pro o contro la vita di un essere umano chiamato embrione, per esempio), annegano invece nel mare dell’ipocrisia untuosa quando sono arnesi per evitare a tutti i costi la contraddizione, quando servono a eufemizzare, a parlar d’altro, a esercitare retoriche pusille e metodologiche fatte per rigettare e non per comprendere la realtà.
Giuliano Ferrara
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