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Talenti e vocazione la strana contabilità di Dio

La parabola dei talenti (Mt 25,14-30) è un altro dei brani classici vocazionali, molto sfruttato nella prospettiva della chiamata. Per indicare chi la chiamata l'accoglie investendo in essa, ma anche chi se ne difende e la manda a vuoto, o forse anche chi fa entrambe le cose: un po' la riconosce e un po' la rifiuta.


Talenti e vocazione la strana contabilità di Dio

da Teologo Borèl

del 18 febbraio 2009

La parabola dei talenti (Mt 25,14-30) è un altro dei brani classici vocazionali, molto sfruttato nella prospettiva della chiamata. Per indicare chi la chiamata l’accoglie investendo in essa, ma anche chi se ne difende e la manda a vuoto, o forse anche chi fa entrambe le cose: un po’ la riconosce e un po’ la rifiuta. In effetti il racconto di Gesù ci mette spalle al muro, come al solito, poiché ci svela, in realtà, che quel terzo servo, “malvagio e infingardo”, è un po’ ciascuno di noi, nell’interpretazione distorta del gesto dell’uomo che, prima di partire per un lungo viaggio.

 

“…consegnò loro i suoi beni”

Il Vangelo è pieno di immagini o definizioni della vocazione, questa è una delle tante, e senz’altro tra le più suggestive: la chiamata come consegna che il Padre fa a ciascun figlio suo dei “suoi beni”. Non un semplice incarico da portare a termine, nemmeno una pista per la promozione del chiamato o la soluzione di qualche crisi ecclesiale (vocazionale)…; troppo poco e troppo estrinseco al rapporto Creatore-creatura. Il Padre chiamandoci ci affida i suoi beni, ciò che ha di più prezioso, ci affida se stesso, si consegna a noi. È come se nel compimento della vocazione noi non realizzassimo semplicemente la nostra identità, ma quella di Dio in noi. Mistero grande!

 

“…a ciascuno secondo le sue capacità”

Al tempo stesso tale consegna è su misura del singolo chiamato; ed è altra delicatezza divina, o è il bello della vocazione cristiana: il tutto (di Dio) nel frammento (dell’uomo), il progetto illimitato divino che si compie nelle piccole e incerte trame umane, o l’impossibile umano divenuto possibile in Dio. Nel mistero della vocazione esplode il paradosso cristiano: da un lato il Creatore si piega, adattando il suo disegno alla misura della creatura, dall’altro eleva a sé quest’ultima moltiplicando le sue capacità, la rende bella e vera, facendo della storia umana una parabola del mistero divino, proprio come la parabola che stiamo commentando, ove i talenti raddoppiano.

Per questo la vocazione non può essere intesa e decisa solo a partire da quel che uno è capace o si sente di fare, ma è la scommessa che Dio per primo fa sull’uomo, e il rischio che l’uomo intelligente è disponibile a correre fidandosi di Dio, per ritrovarsi poi come solo Dio lo può sognare. E non correre il rischio opposto: vivere una vita non più moltiplicata, ma mortificata, appiattita sulla misura delle proprie doti, che si riducono a ben poca cosa quando l’uomo pauroso e stolto vi si attacca così tanto da non permettere a Dio di scommettere su di esse.

 

“Prendi parte alla gioia del tuo padrone”

Se la vocazione nasce come consegna che Dio fa a noi di sé, essa si compie quando l’uomo chiamato si consegna a Dio, o si mette nelle sue mani, provocando la sua gioia. Il Padre gode, non può che godere quando un figlio accoglie il suo progetto e lo realizza, gode perché allora può manifestare pienamente il suo essere padre, perché può effondere totalmente la propria benevolenza, e fare grandi cose perché finalmente ha trovato chi si è fidato di lui. Che bello pensare che Dio è gioia! Ma non solo: se Dio è comunione, non può tenere per sé la propria gioia (che a questo punto non sarebbe più tale), anzi, non è proprio capace di godere da solo, e allora condivide la sua felicità, ne fa partecipe chi è stato “fedele nel poco”, nel piccolo della sua esistenza. Donandogli “molto”. E siamo di nuovo nella logica della moltiplicazione, del centuplo che Gesù promette proprio a chi lo segue, un molto qualitativo, che trasforma la fatica umana della risposta alla chiamata divina in gioia, la rinuncia in libertà, la solitudine del cuore in capacità di amare tanti.

Ogni vocazione è alla fine una chiamata alla gioia, quella vera, quella di Dio. Mentre non esiste che un’unica tristezza, quella di chi non risponde alla chiamata.

 

“…una buca nel terreno”

Costui nella parabola è rappresentato, con altra immagine espressiva, da chi il talento lo nasconde in una buca in terra. Chi nasconde o si nasconde fugge per paura da Dio, come Adamo ed Eva dopo il peccato, i primi a non fidarsi del Dio-che-chiama, a pensare che sia tipo “duro” che pretende raccogliere ove non ha seminato; ma fuggendo da Dio in realtà scappano disperati da se stessi. Fa la stessa cosa chi nasconde il dono ricevuto di fronte agli altri sperando forse di nasconderlo anche ai suoi occhi, chi se ne vergogna, chi teme di non essere capace, chi pensa che quel dono lo renderà infelice… E lo nasconde in una buca. Fa persino mestamente sorridere: quale buca potrà mai nascondere il dono del Dio-che-chiama e consegna “i suoi beni”? Quanti giovani in quella maledetta buca, semmai, hanno perso per sempre la loro felicità?!

“A chi ha sarà dato…,a chi non ha sarà tolto quel che ha”. Strana logica conclusiva, ma a suo modo è ancora il “principio della moltiplicazione”, che potremmo rendere così: chi si fida di Dio e obbedisce al suo invito “sarà nell’abbondanza”, la sua vita sarà una continua chiamata, vivrà sempre più nella luce e nella gioia. Chi invece non si fida e non accoglie la chiamata di Dio perderà anche la propria vita, quel che ha ed è, perché così lui stesso ha deciso allontanandosi dalla fonte della vita.

Per lui, allora, sarà la disperazione a moltiplicarsi: sarà, infatti, gettato “fuori nelle tenebre”, nell’oscurità di chi – non più chiamato da nessuno – non sa dove andare. E “sarà pianto e stridore di denti”.

 

 

Tratto da: Amedeo Cencini, Talenti e vocazione. La strana contabilità di Dio,  su 'Mondovoc', 10/2008, pp. 26-27

 

don Amedeo Cencini

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