Terri mette ancora in crisi l'America

È passato quasi un anno, ma è come se fosse successo ieri. La morte di Terri Schiavo, 14 giorni dopo che un tribunale aveva dato ordine di rimuovere il tubo che le forniva nutrimento e acqua, ancora divide l'America. Le emozioni che la lunga vicenda legale e la sua dolorosa conclusione hanno provocato sono ancora vive e inaspettatamente intense.

Terri mette ancora in crisi l’America

da Attualità

del 26 marzo 2006

Dopo 13 giorni senza acque e cibo, muore il 31 marzo 2005 Terri Schiavo la 41enne americana in stato di coma vegetativo dal 1990. È da quell’anno che inizia il cammino di Terri tra la vita e la morte, tra la scelta del marito Michael Schiavo di chiedere alle autorità di staccare la spina e i genitori della donna, Bob e Mary Schindler, che si oppongono. Il primo atto del braccio di ferro è del 1998. La svolta a favore di Michael avviene nel 2000 quando senza «alcun dubbio» il giudice della Florida George W. Greer conferma che Terri è «in persistente stato vegetativo». Per la prima volta nel 2003 viene staccato il tubo di alimentazione che però viene reinserito sei giorni dopo grazie all’approvazione da parte del governo della Florida della legge che passerà col nome di «Terri’s Law» e sarà poi cassata dalla Corte di giustizia della Florida. Nel marzo 2005 viene di nuovo staccato il tubo. Si mobilita l’opinione pubblica, viene convocato in sessione di emergenza il Congresso Usa per chiedere alla Corte Suprema di rivedere il caso. Lo stesso presidente George Bush interviene per chiedere che la richiesta sia subito convertita in legge. Ma la Corte si rifiuta di intevenire. Pochi giorni dopo la Schiavo muore per disidratazione, il 31 marzo 2005, dopo due settimane di atroce agonia.

 

È passato quasi un anno, ma è come se fosse successo ieri. La morte di Terri Schiavo, 14 giorni dopo che un tribunale aveva dato ordine di rimuovere il tubo che le forniva nutrimento e acqua, ancora divide l’America. Le emozioni che la lunga vicenda legale e la sua dolorosa conclusione hanno provocato sono ancora vive e inaspettatamente intense. Parlare di Terri Schiavo con esperti legali o medici, opinionisti o taluni leader religiosi significa dover prendere posizione: pro o contro il suo diritto di essere alimentata, con i genitori o con il marito, convinti o meno che la sua vita avesse ancora valore. Il tempo della riflessione serena su quello che Terri Schiavo ha lasciato con la sua silenziosa esistenza negli Stati Uniti non è ancora arrivato.

Basta dare un’occhiata ai titoli dei libri che la vicenda di Terri ha ispirato – almeno una quindicina. Da Lottare per la vita a Il diritto di morire, da Una vita che conta a La cospirazione religiosa per privarci dei nostri diritti.

 

Forse proprio perché i toni del dibattito sono così accesi, l’anniversario della morte – il 31 marzo – rischia di passare del tutto inosservato. Sette anni di accese battaglie legali culminate in interventi eccezionali del Congresso americano e in un pronunciamento del presidente degli Stati Uniti in persona hanno lasciato un senso di rigetto nell’opinione pubblica statunitense, un’assuefazione da polemica che le rende faticoso (o forse solo doloroso) ricordare e commemorare.

 

Infatti nessun articolo, reportage televisivo o servizio radiofonico ha segnato il giorno in cui, un anno fa, il tubo che alimentava Terri venne rimosso. E nessuno “speciale” è stato annunciato per la prossima settimana per ricordare la sua morte.

Dove l’anniversario non è stato dimenticato è su Internet, nelle decine di siti sorti spontaneamente per scambiare opinioni sul caso Schiavo e tenere acceso il dibattito o, meglio, la polemica. Non a caso anche qui parole come “lascito”, “eredità” e “riflessione” non compaiono ancora. I temi più discussi sono il tempestivo matrimonio del marito d Terri, Michael, dipinto come una vittima o come un assassino a seconda dei gruppi, e il dolore dei genitori della donna. L’unico punto su cui la maggior parte degli esponenti dei due fronti concordano è che il governo e i tribunali non dovrebbero avere diritto di vita o di morte sui cittadini americani, e che la decisione finale spetta al singolo essere umano coinvolto. Ecco, allora, la lezione che gli americani sembrano aver tratto fin qui dal caso Schiavo: una rivendicazione della loro libertà personale, forse proprio per reazione al dilaniamento del Paese un anno fa. La vita e la morte della giovane donna sono stati ridotti a un manifesto dell’individualismo Usa: lo prova il considerevole aumento, documentato in molti Stati americani negli ultimi dodici mesi, delle richieste di stendere un “testamento di fine vita” (o biologico) nel quale manifestare esplicitamente la propria volontà di essere o meno alimentati o idratati artificialmente qualora non si fosse più in grado di farlo da soli.

 

Migliaia di avvocati si sono dunque trovati a dover dare valore legale a definizioni soggettive e più o meno scientifiche della soglia oltre la quale la vita non sarebbe più degna di essere vissuta. E si può immaginare che presto altrettanti medici e ospedali si troveranno a dover interpretare quelle definizioni o a scoprirle in contraddizione con quanto la loro formazione ed esperienza professionale consiglierebbe di fare.

Una tendenza inedita che la Chiesa cattolica americana non condanna, ma che nelle sue forme più estreme stride con la posizione dei vescovi Usa secondo la quale «espressioni generali di volontà circa il mantenimento in vita non hanno lo stesso peso delle decisioni che verrebbero prese una volta che le effettive circostanze si dovessero verificare, ma possono fare da guida». La Conferenza episcopale americana ricorda anche che la volontà di un paziente è comunque sempre vincolata «dal divieto di provocare direttamente la morte tramite atti od omissioni».

 

A un anno dal decesso di Terri Schiavo in America dunque manca ancora quello che era impossibile trovare durante l’estenuante braccio di ferro all’interno della sua famiglia: un dibattito sereno sul significato della sua vita. Come ha scritto qualche mese fa il Comitato della Casa Bianca per la bioetica, la società americana non si è ancora posta alcune domande fondamentali: qual è il significato di una condizione di estrema disabilità come quella in cui si trovava Terri Schiavo? Come devono essere considerate tali persone? E in quali modi possono la medicina e la morale collaborare per definire dove finisce la vita e quando si parla di accanimento terapeutico? Ci sono molte persone negli Stati Uniti che potrebbero contribuire con cognizione di causa a una simile riflessione. Ma non sono ancora state interpellate, o preferiscono non pronunciarsi, nel timore di essere trascinate in una diatriba che sa ancora troppo di tifoseria da stadio.

 

Un anno dopo la sua morte, la memoria di Terri Schiavo resta dunque appesa alla loro volontà di farsi avanti e di cambiare il registro del dibattito nel Paese.

Elena Molinari

http://www.impegnoreferendum.it

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