Il distacco e la morte sono temi che non vengono affrontati quasi mai nei cammini spirituali giovanili. Eppure la morte è un’esperienza che fa parte della vita di ciascun essere umano e, se ci fermiamo un attimo a pensare, ci accorgeremo che almeno una volta nella vita anche noi abbiamo sperimentato il dolore della separazione da qualcuno a cui volevamo bene, che fosse per sempre o per un’ora.
Il distacco e la morte sono temi che non vengono affrontati quasi mai nei cammini spirituali giovanili. Eppure la morte è un’esperienza che fa parte della vita di ciascun essere umano e, se ci fermiamo un attimo a pensare, ci accorgeremo che almeno una volta nella vita anche noi abbiamo sperimentato il dolore della separazione da qualcuno a cui volevamo bene, che fosse per sempre o per un’ora.
In questa rubrica dedicata al racconto di un gruppo di adolescenti di un oratorio salesiano, vorrei affrontare un tema di cui noi animatori non parliamo tanto spesso: la morte.
Da sempre ho una passione per i funerali e i cimiteri. Niente di macabro, eh, sia chiaro! Però credo di aver capito perché sento così tanto il bisogno di essere presente al funerale di una persona, anche se l’ho conosciuta per poco e perché provo così tanta pace quando attraverso il cimitero di una città. È perché tutte queste esperienze mi aiutano a familiarizzare con la mia morte e con quella degli altri e in qualche modo, aiutandomi a conoscerla meglio, riesco ad affrontare le mie paure. La morte infatti non è spaventosa in sé, è il pensiero di essere soli e di lasciare le persone a cui vogliamo bene a farci così paura.
La morte, questa sconosciuta. Chi ce ne parla oggi? Dove sentiamo affrontare il tema del morire, della malattia o del dolore? Sembra quasi che non ci riguardi, soprattutto finché siamo giovani e in forma. Eppure ad un certo punto tutti ci dobbiamo fare i conti.
Le sensazioni che accompagnano la morte di una persona cara le conosciamo, anche se non ne abbiamo mai fatto esperienza diretta. Ad esempio se penso a quando ero piccola e la mamma o il papà mi accompagnavano a scuola e mi facevano “ciao ciao” con la manina mentre si allontanavano per andare al lavoro, quante volte ho pianto! Ma chi di noi non ha mai pianto? Chi non si è sentito abbandonato? Chi non ha avvertito almeno una volta nella vita un vuoto in quel distacco?
Oppure a qualcuno sarà capitato di doversi separare per un periodo più o meno lungo da una persona importante, come il proprio ragazzo o la propria ragazza, magari per motivi di studio o di lavoro. In quei momenti ti senti come se un pezzo di te fosse stato portato via e avverti una certa nostalgia per l’altro, ti viene da dirgli ogni giorno quanto ti manca e quanto vorresti essere insieme. Diciamo che l’altro “ci manca” come se, in contemporanea con la sua dipartita, anche un pezzettino del nostro cuore fosse stato prelevato da noi e trasportato lontano.
Quando la separazione è definitiva – come nella morte – queste emozioni è come se si amplificassero e il dolore a volte diventa inconsolabile. C’è chi prova rabbia, chi scoraggiamento, chi si dispera, chi si spaventa e vive uno stato di angoscia, chi addirittura si ammala perché il fisico non regge più il turbinio di sensazioni emotive. Nella mia esperienza, ciò che più mi fa più paura della morte è il fatto di non poter più toccare, abbracciare, sentire la voce dell’altro. Così come da piccola all’asilo o nelle relazioni a distanza provavo quei sentimenti, così la morte di qualcuno risveglia quella sensazione di perdita.
La teoria psicologica dell’attaccamento (Bowlby, 1989) spiega che in questo genere di esperienze, come la morte di una persona a cui siamo legati, l’essere umano funziona sulla base di un sistema di comportamento che ci porta ad attaccarci, appunto, a ricercare una sicurezza in qualcuno o in qualcosa. E cosa accade quando questo qualcuno se ne va per sempre? Succede che ricerchiamo in qualcun altro o in noi stessi le risorse per stare in piedi e ricominciare. Ovviamente il dolore del distacco è direttamente proporzionale al livello di attaccamento che abbiamo sviluppato con quella determinata persona. Ed è per questo che soffriamo molto di più quando a morire sono persone che si sono prese cura di noi – come i genitori – o di cui noi ci siamo presi cura a nostra volta.
La domanda che mi sono fatta è: c’è un modo per prepararsi alla morte di qualcuno a cui siamo legati, come la morte di un amico? Si può dare un senso alla morte di qualcuno a cui vogliamo bene? Ci si può allenare a guardare in faccia la morte di qualcuno?
La risposta nel prossimo articolo! #staytuned
[1] Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento, traduzione di M. Magnino, Collana Psicologia clinica e psicoterapia n.26, Milano, Raffaello Cortina, 1989Illustrazioni di Susy Lee
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