Passare attraverso una malattia grave può aprire una prospettiva spirituale nuova. Tutte le volte che vi ritorno sopra, la ferita si riapre. Anche solo un po'. Eppure non riesco a non pensare che anche questo è un modo di fare pastorale.
del 02 aprile 2012(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
 
          Tutte le volte che vi ritorno sopra, la ferita si riapre. Anche solo un po'. Eppure non riesco a non pensare che anche questo è un modo di fare pastorale. Lo so che può sembrare una sorta di autocompiacimento e non escludo possa esserlo, in qualche misura. Però percepisco che c'è una necessità che mi eccede ogni volta che ascolto le parole impaurite o commosse o rassegnate di chi per la prima volta varca la soglia di una malattia che mette di fronte alla possibilità concreta della propria morte.  
            Sono ormai passati alcuni anni da quando ho sperimentato sulla mia pelle l'effettiva tenuta di tanti pii discorsi. E se l'impianto ha per il momento resistito lo devo non solo al fatto che mi è stato concesso un supplemento di tempo ma anche al fatto che si è costituita attorno a me una rete abbastanza fitta da non dover avere costantemente paura di precipitare in una delle maglie improvvisamente fattesi un po' più larga delle altre.   
          Per questo mi dispiacerebbe disperdere questo piccolo patrimonio e tutte le volte che posso tento d'accompagnare chi sta facendo il mio stesso percorso, lasciando innanzitutto che sappia il come e il quando di quello che mi è successo perché paura e solitudine sono sempre pessime compagne.  
          Alla base di tutto vi è l'ascolto. Ma, poiché la malattia si diverte e scompigliare le carte, potrebbe darsi che esso debba realizzarsi secondo modalità inaspettate e con interlocutori nuovi: c'è anche chi si dilegua; altri, inaspettati, invece, si fanno avanti. Una telefonata, un invito, l'aiuto nella gestione della famiglia; aspettare senza fretta che il fiume di lacrime si sfoghi per provare a vedere nuovamente un po' di futuro: sono alcuni gesti minimi ma necessari.
          La corporeità s'impone prepotentemente. È proprio il corpo fatto a immagine del Creatore che la malattia mette alla prova e che vaglia come una crogiolo la veridicità di tanti discorsi. È il luogo da cui il male parla, nel quale la malattia prende dimora; ma è anche il luogo dove s'esprime la nostra effettiva capacità di bene(essere) che va oltre il dato fisico. Non per una malintesa idea di materialismo, tutt'altro. Ma proprio per il motivo contrario: quanto il corpo fa trasparire l'essere spirituale? E viceversa: come l'essere spirituale parla attraverso il corpo che pure è mortale?
          Prendersi cura dei corpi feriti nel loro essere - in questo caso - femminili significa riconoscere l'enorme groviglio di simboli che lì vi sono rappresentati: emblematica è l'involontaria tonsura chiesta in pegno dalle terapie mediche. È possibile accompagnare le donne a comprenderla non tanto come un'umiliazione da nascondere con cura ma come una scommessa da vincere con il proprio limite. Con creatività e con una sonora risata.
          Qui si apre una prospettiva spirituale che forse è più intuibile che comunicabile: la malattia come un'opportunità (né voluta né cercata) per ridare le giuste priorità alle proprie giornate; alla vita di coppia, alla famiglia, al lavoro e a tutto il resto. In quest'ottica combattere per non soccombere alla malattia può diventare uno stile di vita realmente alternativo rispetto al lasciare che il male più generale s'aggiri cercando sempre nuove prede in come gestiamo il tempo, i soldi; in come ci dimentichiamo presto degli amici; in come abbiamo talora una vita spirituale sciatta. Uno stile di vita che sappia convivere con l'interrogativo irrisolto sul perché.
          Non si tratta di aprire l'ennesimo gruppo di auto-aiuto, azione utile ma insufficiente. È testimoniare nel piccolo e da buoni ultimi che la malattia è terreno fertile da frequentare nell'oggi e non solo pastorale di settore per specialisti da ghettizzare nei luoghi di cura.
          È testimoniare che anche questa è evangelizzazione. E quella 'nuova' potrebbe, volendo, approdare anche qui.
Maria Elisabetta Gandolfi
Versione app: 3.26.4 (097816f)