Vari pensatori, a cominciare da Nietzsche, hanno cercato di separare Paolo da Gesù. Nell'apostolo delle genti, infatti, vedono "l'inventore" dell'universalismo cristiano, il predicatore globale di un Vangelo fondato sulla forza dei deboli e sulla speranza della resurrezione...
del 17 settembre 2008
Paolo è l’apostolo di Gesù: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione» – si legge nell’incipit della Lettera ai romani. Paolo grida: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse, la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?». Invece una lunga storia ha insistito per separare Paolo da Gesù, facendo di questi una nobile figura eterea. L’apostolo sarebbe l’abile manipolatore del messaggio del rabbi galileo, fondando una religione universale. Separare Paolo da Gesù è sembrato a taluni la via per andare all’autentica figura del Maestro, liberarlo dall’impalcatura di grande religione. Ma la Chiesa ha sempre reagito, fin dal canone delle Scritture, affermando che la testimonianza dell’apostolo Paolo è parte integrante della rivelazione cristiana. Separare Gesù da Paolo è separarlo, in parte, dalla Parola.
 
Colpire Paolo è un’operazione per svuotare il cristianesimo. Friedrich Nietzsche ha visto nell’apostolo «il tipo antitetico della buona novella, il genio dell’odio», animato da istinto di potenza ebraico: «L’invenzione di Paolo, il suo mezzo per realizzare la tirannide dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell’immortalità...». Con Paolo, il mondo dei deboli ha vinto, distruggendo il paganesimo, il dominio dei forti e dei saggi, le nazioni: «Divenne padrone il gran numero», scrive il filosofo tedesco, «la tendenza democratica degli istinti cristiani ebbe la vittoria... Il cristianesimo non era nazionale, non era condizionato dalla razza – si volgeva a ogni specie di diseredati della vita, trovava ovunque i suoi alleati. Il cristianesimo ha alla sua base la rancune dei malati, l’istinto diretto contro i sani, contro la salute. Tutto quanto è ben fatto, fiero, tracotante, soprattutto la bellezza, offende a esso gli occhi e le orecchie. Ricordo ancora una volta l’inestimabile espressione di Paolo: 'Quel che per il mondo è debole... Dio lo ha eletto'».
 
Questa lunga citazione è un po’ la summa delle ricorrenti critiche a Paolo. Vi si legge l’antipatia per un cristianesimo di deboli, che varca i confini della nazione e della razza. L’universalismo cristiano, fondato sulla forza dei deboli, sulla 'bugia' della resurrezione di Gesù e sulla vita eterna, secondo Nietzsche, è la sciagura dell’umanità, in cui Paolo ha un ruolo decisivo. Per questo Paolo va colpito, perfino epurato dal cristianesimo. Alfred Rosenberg, ideologo nazista, si muoveva nello stesso senso: «Paolo ha raccolto in modo del tutto intenzionale i lebbrosi di tutte le nazioni e le culture in tutti i Paesi dell’orbe, per scatenare un’insurrezione dell’inferiore». Il nazismo si fece patrocinatore di un cristianesimo positivo, emancipato dall’ortodossia ecclesiastica e imbevuto della volontà di dominio razziale tedesco. Il 'Gesù ariano', tipico della confusa mistica nazista, andava separato da Paolo, l’ebreo che aveva giudaizzato il cristianesimo.
 
La tragica vicenda del nazismo, sino all’epurazione dell’ebraismo dal cristianesimo e di Paolo l’ebreo, mostra come la grande battaglia per la difesa dell’ortodossia cristiana e per l’integrità delle Scritture abbia un valore che talvolta sfugge nelle polemiche quotidiane. Colpire Paolo è amputare il cristianesimo o per un vago culto di Gesù o per farne una religione della nazione o di una civiltà. Ma ben altro è stato ed è il cristianesimo, come si vede dall’avventura cristiana di Paolo, parte integrante delle Scritture cristiane.
 
La debolezza. Paolo, di fronte al mondo strutturato della sapienza greca, al messianismo ebraico così appassionante, innanzi al potere dominante di Roma, ha messo al centro la debolezza. Nietzsche aveva colto nel segno. Il suo non è un progetto di regno o di impero. Con pochi fratelli e sorelle, deboli e periferici, riceve la rivelazione di un Dio debole, il cui volto è Cristo crocifisso. Annuncia: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti». I deboli, costruendo una realtà debole come le comunità cristiane, predicando un crocifisso, hanno la missione di confondere i forti: le culture e le mentalità consolidate, le idolatrie, il potere in tutte le sue forme. Il primo capitolo della Prima lettera ai Corinti è chiaro: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini». La sfida cristiana fa emergere un’altra forza nella stoltezza e nella debolezza.
 
La debolezza pervade la stessa figura di Paolo, come scrive ai Corinti ricordando come si presentò: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione...». «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze», dice Paolo, «perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte».
 
 
Paolo non fugge la debolezza o la nasconde. Ma, nel suo stesso porgersi, esprime la 'forza debole' del cristianesimo, che non si fa arrogante per non essere povero e non si vergogna dei panni umili della debolezza comune a quasi tutti gli uomini. La coppia 'debole forte', nel corpus paulinum, ha un rilievo decisivo nel mostrare la forza dei deboli e la debolezza dei potenti: il debole, il disprezzato dal mondo culturale e politico imperante, partecipano alla debolezza di Gesù, alla sua croce, rivestendosi della forza della sua resurrezione. L’apostolo, con il Vangelo, propone di fare un salto ancora più grande che far divenire ricco il povero o potente il debole. I deboli, forti della potenza di Gesù, sono già 'beati': «Beati i miti, perché erediteranno la terra». Sì, questi deboli, in un modo particolare, diverso dagli imperi, possederanno la terra. Non è necessario omologarsi alle potenze del mondo, per comunicare il Vangelo. Non è necessario conquistare una terra, ma, pur nelle persecuzioni, nella debolezza, il Vangelo parla ai cuori. Attraverso discepoli deboli, si può comunicare Gesù agli uomini e, così, cambiare il mondo. Ha scritto giustamente il grande teologo ortodosso francese Olivier Clément: «Le sole rivoluzioni creatrici della storia sono nate dalla trasformazione dei cuori».
 
Paolo ha scelto di passare attraverso i cuori con la debolezza della parola: «È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione». Il cristianesimo nascente, preso dalla passione di dire il nome di Gesù al mondo intero, sceglie la parola, l’incontro, il viaggio, la lettera, lo scritto, la liturgia, l’amore. Così Paolo e i suoi discepoli incontrano uomo dopo uomo, gruppo dopo gruppo, città dopo città, per comunicare Gesù risorto. Questa non è solo una stagione iniziale di storia cristiana, ma è nei cromosomi dei cristiani di tutti i tempi. C’è una diversità con l’origine dell’islam e la vita di Muhammad. Quest’ultimo ha scelto di estendere l’islam al resto del mondo con un’avanzata di fede e di potere politico e militare. Non così si estende il regno del Kyrios crocifisso. Paolo, discepolo di Gesù, ha scelto di andare per il mondo senza cercare potere politico. Così è stato per vari secoli della storia cristiana e questa scelta fa parte dei cromosomi del cristianesimo.
 
Un uomo come noi. Molti studiosi hanno insistito sul livello culturale di Paolo. Tante indagini sulla sua cultura sembrano quasi innalzarlo dagli uomini del suo tempo. Paolo è uomo di più mondi: ebraico della diaspora con studi e legami a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano. Ma stiamo attenti a non fare di Paolo il prodotto della sua cultura particolare, quasi fosse naturale gettarsi nella missione: si deconsidera così l’immenso salto della sua esistenza.
 
Bisogna parlare della debolezza di Paolo, ma cogliere la forza che gli fa compiere un salto nel mondo per comunicare il Vangelo. Paolo, nonostante la grazia particolare dell’incontro con Gesù, non è staccato dalle comunità cristiane. Una comunità lo accoglie, lo libera, lo accompagna, lo conferma. È gente che sente la passione di comunicare il Vangelo all’altro, anche se non sa bene come. Prima c’è la comunità damascena: Anania sa che Paolo è un persecutore, ma docilmente va ad accoglierlo, percorrendo la Via Recta di Damasco. Penso sempre ai suoi sentimenti, mentre faceva quei metri per andare a visitare quel 'nemico'. Barnaba, il cipriota, lo va a cercare mentre vive anni oscuri a Tarso. Paolo non si separa da Pietro, dagli apostoli e dalla comunità di Gerusalemme.
 
Il grande Giovanni Crisostomo, comunicatore appassionato della Parola di Dio ad Antiochia e a Costantinopoli, aveva colto il rischio di una mitizzazione di Paolo. Affermava invece che per tutti è possibile imitarlo: «...Sforziamoci di divenire come lui e non pensiamo che ciò sia impossibile... egli aveva un corpo come il nostro, si nutriva come noi, aveva la stessa anima, ma grande era la sua volontà, magnifico il suo impegno; è stato questo a renderlo così. Nessuno disperi, nessuno si tiri indietro...». Di stagione in stagione della storia, i cristiani si debbono misurare con la passione e la fede di Paolo: sono interpellati dal suo radicale «guai a me se non evangelizzo!». Lo si può completare con un macarismo, una beatitudine, dicendo che la felicità di Paolo è comunicare il Vangelo: beato chi comunica il Vangelo!
 
Muri e multiculturalità. Grandi sono gli abissi tra una cultura e un’altra. I mondi che Paolo affronta sono consolidati, forti e orgogliosi della loro tradizione, anche se vivono gli uni accanto agli altri. La storia dei viaggi di Paolo è rivelatrice della sua ambizione: vuole toccare la gente delle civiltà multiculturali del suo tempo, che convivono, più o meno in pace, sotto il potere di Roma. Egli mira alle grandi città e, finalmente, alla capitale, Roma. Pier Paolo Pasolini aveva colto l’enorme salto umano e culturale di Paolo, che lo porta tanto oltre il suo mondo. Lo si vede nella sceneggiatura del film su Paolo, mai realizzato, su cui lavorò tra gli anni Sessanta e Settanta. Colloca l’apostolo tra Parigi, Roma e New York. Questa metropoli, cuore dell’Occidente, è la Roma di Paolo, dove – secondo Pasolini – viene ucciso sul ballatoio di un alberghetto, con due colpi di fucile.
 
Paolo va lontano, in mondi diversi, perché sente di avere un tesoro da comunicare. L’espressione «gentili» poco rappresenta il complesso pluralismo mediterraneo, che aveva vissuto la globalizzazione di Roma. Globalizzazione è espressione usata per il mondo dopo il crollo dell’impero sovietico, l’apertura dei mercati. Ma non è la prima globalizzazione. Ogni impero è, a suo modo, una globalizzazione. Lo è stato quello romano, caratterizzato da un processo di unificazione politica ed economica, che lasciava in vita le diversità etniche, culturali, religiose. Era un mondo che tanto investiva sulle comunicazioni, soprattutto sulle strade. Roma non omogeneizzava al suo modello, lasciava vivere altre culture, anche se faceva sentire la sua presenza dominatrice. In quel tempo il Mediterraneo era abitato da tanti dei e dai loro luoghi sacri. L’autorità politica aveva una politica inclusivista verso i culti. Il ritualismo dei tanti culti fondava la pax deorum su una specie di patto un po’ impersonale e legale con gli dei. L’ebraismo, un monoteismo esclusivista, era però riconosciuto come religio licita.
 
Il pluralismo religioso sembra parlare di tolleranza. Si è molto insistito sulla carica di intolleranza portata dall’esclusivismo del monoteismo. Con quelle proiezioni tipiche sul passato, si è guardato con nostalgia al fenomeno del 'paganesimo': espressione di tolleranza e liberalismo a fronte delle rivendicazioni intolleranti dei monoteismi. Alain de Benoist, in un libro di qualche anno fa, Come si può essere pagani?, affermava che «il paganesimo, a dire il vero, non è mai morto», ma vive nel rifiuto della pretesa dell’unico Dio, nella possibilità di unirsi al divino, nel rigetto del peccato originale. Questa sarebbe la condizione ideale dell’uomo, forzato dall’esclusivismo giudeo-cristiano.
 
Il pluralismo tra tolleranza e radicalismo. Nelle città mediterranee di allora, come nelle nostre, non esistono più spazi omogenei: gente diversa vive l’una accanto all’altra. L’immigrazione ha portato genti diverse. Non ci sono più ambienti omogenei da un punto di vista etnico e religioso. La globalizzazione tutto avvicina, ma anche, avvicinando tutti, fa sentire minacciati nella propria identità. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita di tante identità etniche, religiose, culturali, talvolta assumendo atteggiamenti aggressivi e conflittuali.
 
I diversi mondi si ritrovano non solo nell’ambiente di Paolo, ma in lui stesso. Paolo aveva un’«anima di frontiera», venendo da Tarso, dove cultura semitica e cultura ellenistica si incontravano. Era un uomo della diaspora. La sua lingua materna era l’aramaico, ma aveva appreso a conoscere la Bibbia dei Settanta in greco. Il greco era la sua lingua, parlato come la koiné. Aveva vissuto a Tarso accanto a un centro di filosofia stoica e a un culto misterico fiorente e sensuale. Aveva ascoltato i predicatori ambulanti cinici. Paolo, romano nel nome, aveva frequentato tre mondi e tre culture: ebraica, greca e romana. Come tanti nell’élite ebraica, Paolo è poliglotta. Sono dati tante volte ricordati.
 
Uomo cosmopolita, figlio del mondo dell’ulivo, tipico prodotto della globalizzazione greco-romana, opera una scelta: è ebreo fervente. Il mondo plurale non crea solo relativismo, ma anche scelte che definiscono la propria identità. Paolo approfondisce ai piedi del grande Gamaliele la tradizione farisaica della sua famiglia, fondando una forte identità ebraica. Si può ipotizzare una reazione al cosmopolitismo e alla divaricazione delle interpretazioni dell’ebraismo. Nonostante gli studi presso Gamaliele, l’identità di Paolo, come si vede dalla lotta violenta anticristiana, approda al fanatismo. L’uomo è «fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore», come un fanatico integrista. La globalizzazione produce oggi non tanto il cosmopolitismo, ma spesso identità forti e talvolta aggressive; infatti, in un mondo esposto a tutti i venti, non si vive nudi e senza identità. Nella multiculturalità mediterranea, la conversione porta Paolo non a rinunciare al monoteismo, bensì ad approfondirlo in una fede fondata sull’unico salvatore, Gesù. Il cittadino romano crede che il Vangelo possa diventare la speranza dell’umanità.
 
Il Vangelo in un mondo al plurale. Ma non si affermava, con i cristiani, un gruppo in più in quel mondo di Roma dove, come scriveva Giovenale, «già da tempo l’Oronte si era riversato nel Tevere»? Era il mondo di Antiochia sull’Oronte, dove le barriere etniche venivano superate in una logica cosmopolita. Oggi, di fronte a un mondo al plurale, dopo tanto combatterci, sappiamo che la pace richiede il rispetto per la sua identità. La pace però non è l’ibernazione delle identità l’una accanto all’altra, come se il mondo fosse un grande Libano. Il messaggio, di cui Paolo è testimone, ci dice che la pace si fa dell’amore per l’altro, della comunicazione della fede, della presenza di una piccola comunità cristiana, anche minoritaria. È la pace che si fonda su quella fede di Paolo: «Egli infatti è la nostra pace». In un mondo pluralista, Paolo crede che Gesù è il Kyrios di ogni uomo e donna, destino di popoli diversi, seme di un regno di pace. Ha scritto giustamente Barbaglio: Paolo «si sente impegnato a superare le più profonde fratture che allora dividevano l’umanità, scissa nei campi contrapposti di greci e barbari, pagani e giudei. Secondo la sua convinzione, il Vangelo di Cristo costituiva il fattore decisivo dei popoli chiamati a formare una nuova comunità umana universale...».
 
Grundmann ricostruisce l’atteggiamento di Paolo: «Quando Paolo proclama in una città il nome del Signore Gesù, facendolo conoscere mediante la predicazione e l’annuncio del suo messaggio, egli prende possesso di questa città per il suo Kyrios, e se si tratta del capoluogo di una provincia prende possesso della provincia... È secondario che i diversi cittadini lo sappiano e lo riconoscano». In quella città, attraverso la predicazione del Vangelo e una comunità cristiana c’è il seme della pace. Non si tratta di migliaia di cristiani, ma probabilmente di centinaia di membri. Eppure sono comunità che Paolo prende sul serio, tanto da rivolgere loro testi tanto elaborati teologicamente e sofferti umanamente. Paolo non dimentica quelle piccole comunità, talvolta rissose e infedeli. Freme di affetto per esse.
 
Ma che può cambiare in una città con l’esistenza di un piccolo gruppo di cristiani? La missione porta i discepoli a un nuovo interesse per gli altri, a non fermarsi di fronte alla loro diversità, a non arrestarsi di fronte all’abisso profondo che divide. In questo senso Giovanni Paolo II ha insegnato che dialogo e missione appartengono allo stesso orizzonte di amore per l’altro. Paolo non si ferma davanti ai muri e agli abissi che dividono le culture. Bisognava passare a un’altra cultura. Questo non vuol dire appiattirsi sulla nuova cultura. Non è acquiescenza: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo...», scrive. La debolezza del predicatore chiede una grande fedeltà al Vangelo e una grande sensibilità alla cultura e alla mentalità della gente che incontra.
 
Paolo ha un solo strumento: la parola, facile da sopraffare, eppure rivelatrice di un’inaspettata energia. Ricordate l’episodio dei due apostoli, Pietro e Giovanni, di fronte all’uomo paralizzato, forse significativo di un’umanità paralizzata e mendicante: «Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina». E lo sollevò per la mano destra. È la forza della Parola. Forza debole di fronte alle potenze di controllo politico, economico, mercantile del mondo. Ma forza di Dio, capace di fare miracoli.
 
Andrea Riccardi
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