È tempo di attività estive negli oratori ed è bello ogni anno vedere volti nuovi di ragazzi e ragazze che scelgono di intraprendere il cammino dell'animazione. Alcuni seguono l'esempio di chi li ha animati da piccoli...
del 21 giugno 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Tra le frasi più belle che un animatore possa sentirsi dire dai ragazzi che gli sono stati affidati c’è questa: «Un giorno vorrei essere come te». Tu getti un seme, altri raccoglieranno, normalmente è così. Accade anche che diversi anni dopo si presenti in oratorio qualcuno che ti saluta, ma non lo riconosci sul momento; ti sorride, ti ricorda che frequentava da piccolo e tu eri il suo animatore. Adesso vorrebbe impegnarsi per i più piccoli, essere come te allora, come te ancora oggi e non puoi non commuoverti, perché questa volta il frutto è nelle tue mani.
          A 14 e 15 anni ci sono cuori che battono già per il bene degli altri, c’è ottima stoffa e tu sei di nuovo chiamato ad essere il sarto, non per vanagloria, ma per farne un abito per Dio. Qualcuno dice che sono piccoli ancora per delle responsabilità, spesso dimenticandosi che la propria storia di animatore è nata proprio a quell’età grazie a qualcuno che ha visto oltre e ha dato fiducia.
          E poi quanti anni avevano San Domenico Savio, la Beata Laura Vicuña e altri ancora quando hanno scoperto la bellezza di donarsi agli altri? Sì, gettiamo un seme da animatori, ma il padrone del campo è un Altro che conosce bene il cuore di ciascuno.
          All’animatore adulto tocca accompagnare, sostenere, indicare, richiamare, formare, pregare, testimoniare e pian piano mettersi da parte, lasciare spazio, dare fiducia. Poi verrà il tempo di dire al nuovo animatore: «Adesso tocca a te; non devi essere come me, bensì migliore, non dimenticarlo mai!». 
Marco Pappalardo
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