Una buona notizia

L'editoriale intende mettere in risalto la nascita di Cristina Nicole, venuta al mondo lo scorso 10 giugno a Milano alla ventinovesima settimana di gestazione, dopo tre mesi di sopravvivenza della mamma, ricoverata tre mesi prima in stato di «morte cerebrale» e mantenuta in vita in vista della nascita della figlia. «Salvare la bambina è stato un atto non solo eticamente lecito, ma doveroso ‚Äî ha dichiarato mons. Sgreccia ‚Äî. Non si poteva fare altrimenti né da un punto di vista scientifico né da quello morale». Eppure c'è stato chi si è lamentato perché Nicole «si è sviluppata da feto in bambina nella solitudine di un corpo senza più intenzionalità e sentimenti». Noi invece riteniamo che la nascita di Nicole sia una buona notizia in un mondo troppo spesso pieno di brutte notizie.

Una buona notizia

da Quaderni Cannibali

del 08 luglio 2006

In un panorama quotidiano segnato soprattutto da brutte notizie — e non ci sembra necessario farne un elenco, perché si accavallano le une alle altre con lo scorrere del tempo — abbiamo deciso di andare controcorrente e di mettere in evidenza una buona notizia. Infatti, oltre alla Buona Notizia per eccellenza che è il Vangelo di Gesù, il quale ci permette di cogliere il senso della vita e di cercare la felicità, nella cronaca e nella vita è possibile scoprire anche il bene. Vogliamo in particolare che non passi inosservata la nascita di Cristina Nicole, avvenuta lo scorso 10 giugno all’Ospedale Niguarda di Milano alle 5,20 del mattino, alla ventinovesima settimana di gestazione.

 

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La mamma di Nicole, una donna di 38 anni che lavorava come estetista, verso la fine dello scorso marzo una mattina si è alzata, ha preso un caffè e, all’improvviso, è caduta a terra e non ha più ripreso conoscenza. Purtroppo si era rotto un aneurisma cerebrale, cioè una dilatazione di un’arteria cerebrale, mentre era alla diciassettesima settimana di gestazione. Quando la donna è giunta all’unità di neurorianimazione dell’ospedale Niguarda, le sue condizioni sono apparse subito molto gravi, tanto che i medici hanno diagnosticato uno stato di «morte cerebrale».

 

La morte cerebrale è la cessazione di ogni attività della corteccia cerebrale. È dichiarata quando per un periodo di almeno sei ore consecutive è constatata l’assenza contemporanea di reazione agli stimoli dolorifici, di respiro spontaneo, di stato di coscienza, di qualsiasi attività elettrica del cervello. La morte cerebrale è provocata da un mancato afflusso di sangue al cervello (almeno per venti minuti) o da una gravissima lesione al cervello. Gli accertamenti sono effettuati da tre medici: un medico legale, un rianimatore e un neurologo. Vengono registrati e ripetuti almeno tre volte nelle sei ore di osservazione.

 

A questo punto, il padre della bambina ha chiesto ai medici di fare il possibile per salvare almeno la figlia: con tale richiesta, ha interpretato anche la volontà della madre, perché siamo certi che una donna giunta al quarto mese di gravidanza e, a detta di chi le era vicino, molto contenta per quella gravidanza, non avrebbe deciso diversamente, se fosse stata in grado di manifestare direttamente la propria volontà.

 

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In tal modo i medici da marzo hanno mantenuto in vita la madre, cercando di rendere minimo qualsiasi rischio di sofferenza per la piccola Nicole. Giorno per giorno l’équipe medica ha seguito le condizioni di salute della bambina e, d’accordo con la famiglia, ha prestato tutta l’assistenza necessaria con l’obiettivo di superare la soglia della ventinovesima settimana di gravidanza, oltre la quale le speranze di vita di un neonato aumentano sensibilmente. Poi la mattina del 10 giugno scorso si è deciso di eseguire un taglio cesareo «in emergenza per ipotensione materna e bradicardia fetale da madre ricoverata in stato di morte cerebrale»; in altri termini è stato il calo di  pressione nella mamma e la sofferenza della neonata a far decidere i medici. È nata così Nicole, «settimina», dopo 78 giorni dalla «morte cerebrale» della madre. Subito dopo, con il consenso dei familiari, sono stati prelevati dalla mamma fegato, reni e cornee, rendendoli disponibili per il trapianto in altrettanti pazienti in lista di attesa.

 

Nicole è la prima bambina in Italia, e l’undicesima in assoluto, che viene al mondo da una madre colpita da emorragia cerebrale e in stato di morte cerebrale. Fino a 20 anni fa la sopravvivenza dei neonati che pesavano meno di 1.500 grammi non superava il 20%; oggi si è arrivati all’80%. Nicole pesava 713 grammi nel momento in cui è stata posta in una culla termica. Certo avrà bisogno di cure intensive per parecchio tempo, ma l’auspicio di tutti è che ce la faccia e non subisca gravi conseguenze fisiche a causa della nascita anticipata. «Può farcela, dobbiamo essere ottimisti — commenta Giorgio Rondini, presidente della Società italiana di neonatologia, del Policlinico San Matteo di Pavia —. Le complicazioni sono dietro l’angolo, ma non bisogna demordere perché questo caso è stato un successo della vita, una vittoria contro la morte. Per almeno tre-quattro settimane i medici dovranno mantenere una estrema cautela, ma se nella vita fetale la piccola non ha sofferto, la speranza che possa crescere come ogni altra creatura prematura nata di 700 grammi è buona».

 

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«Salvare la bambina è stato un atto non solo eticamente lecito, ma doveroso — ha dichiarato l’arcivescovo Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita —. Non si poteva fare altrimenti né da un punto di vista scientifico né da quello morale». Secondo mons. Sgreccia, si tratta di un caso limite che nella letteratura medica è documentato in un numero molto ridotto di casi. «Senza ombra di dubbio le conclusioni di scienziati ed esperti di morale — ha proseguito — coincidono. La possibilità di salvare la bambina imponeva che si continuasse l’assistenza meccanica della donna». A giustificare una pratica medica, che «se non fosse stato possibile salvare il bambino sarebbe accanimento terapeutico, è stata proprio l’età gestazionale. Tra la madre e il bambino esiste un’unità simbiotica che rende indispensabile la prosecuzione dei trattamenti medici. Fermare le macchine equivaleva a condannare a morte la bambina, quindi ha fatto bene l’équipe sanitaria a procedere in questa maniera fino al taglio cesareo».

 

La prof. Chiara Saraceno (cfr La Stampa, 12 giugno 2006), in un intervento titolato dalla redazione del quotidiano «Quel corpo senza amore ridotto a utero», con il sottotitolo «Una forma di riduzionismo che vede alleate la scienza e la Chiesa», ci tiene a sottolineare che la nascita di una bambina «non è solo un dato biologico, bensì, nel bene e nel male, soprattutto un prodotto delle intenzionalità e delle relazioni». Una bambina «che si è sviluppata — scrive — da feto in bambina nella solitudine di un corpo senza più intenzionalità e sentimenti, tenuta in vita da macchine, ma non capace di mediare e trasmettere voci e emozioni. […] Proprio mentre rappresenta il trionfo sulla natura, nelle giustificazioni tecniche come in quelle etico-religiose, appare piuttosto un caso esemplare di riduzionismo biologico, in cui si conferma una strana alleanza tra Chiesa cattolica e tecnica. Quando monsignor Sgreccia dichiara che l’organismo materno e il feto sono un’unica entità, e perciò è giusto tenere artificialmente in vita il primo per dare una chance al secondo, sottolinea solo una ovvietà biologica, trascurando la dimensione di relazionalità e intenzionalità che sottende quella “unità” e identifica l’essere umano. Inizia a formarsi proprio nella gravidanza, nella relazione che la donna incinta intrattiene con l’essere che porta con sé, nei desideri o rifiuti — propri e altrui — di cui la fa oggetto e che gli comunica. In altri termini, la donna incinta non è solo un utero. Non tenere conto di questo getta nella pura biologia madri e figli. E le madri, tutte, sono ridotte a corpi gravidi, puro supporto fisiologico del feto».

 

E conclude: «Forse quella madre avrebbe scelto di essere trattata così. E comunque così hanno deciso coloro che la amavano – gli unici, forse, titolati a farlo. Quella bambina, se sopravviverà come le auguriamo, sarà molto amata. Ma tutto ciò è avvenuto e avverrà proprio perché la vita umana non è solo un dato biologico, bensì nel bene e nel male, soprattutto un prodotto delle intenzionalità e delle relazioni».

 

Confessiamo di non aver compreso bene se la prof. Saraceno approvi la decisione dei medici del Niguarda. La vita non è soltanto un dato biologico, ma è anche un dato biologico che costituisce un dato imprescindibile. In ogni caso la relazione, e quindi l’atteggiamento di accoglienza della madre nei confronti della figlia inizia, senza poterne prescindere, dal dato biologico della vita della bambina presente in lei e che da lei dipende, il quale, come tale, contiene in sé, e non solo in potenza, anche l’avvio della relazionalità costituita dall’accoglienza — e non dal rifiuto — della bambina. Ridurre tale realtà complessa soltanto all’«utero» a noi sembra una posizione ideologicamente preconcetta, che tende a prescindere dall’obiettivo dato biologico e che invece sembra avere nel retrofondo una concezione dell’essere umano adulto e perfetto, sempre in grado di gestire i propri rapporti, pena la perdita della propria «umanità» in tal modo concepita e la perdita dei propri diritti.

 

A ciò va poi aggiunto, nel caso di Nicole, il fatto incontrovertibile che la madre della bambina — come abbiamo detto — era giunta al quarto mese di gravidanza ed era contenta di tale situazione, quindi avrebbe condiviso la decisione dei suoi parenti di salvare Nicole: ma una tale decisione significa ridurre una donna al solo «utero»? In questo dissentiamo dalla prof. Saraceno e riteniamo che la nascita di Nicole sia una buona notizia.

 

La Civiltà Cattolica

 

© La Civiltà Cattolica 2006 III 3-6      quaderno 3745

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