Gli adulti non sanno -e non vogliono- più dirigere i figli, anche su cose apparentemente minime come l'ora del ritorno a casa. Problema grande, invece, secondo la professoressa e scrittrice Paola Mastrocola... «Vediamo più da vicino cosa vuol dire che un ragazzo di quindici anni torni a casa alle cinque del mattino...».
del 01 luglio 2006
A me sembra che noi adulti oggi non siamo più in grado di educare i nostri figli. Abbiamo una sorta di blocco educativo molto grave, che ha portato a una vera e propria emergenza nazionale, come denuncia l’appello per l’educazione nato sull’onda del meeting di Cl a Rimini nel settembre scorso.
 
Credo che sia in crisi l’idea stessa di educare, intesa nel senso di «dirigere» una persona più giovane a trovare la sua strada. Quel che vedo intorno a me è una massa di giovani non educati, nel senso di «non diretti»; da nessuno, e in nessuna direzione. L’immagine che ho davanti non è un viaggio, ma un pascolo: mi sembra di vedere giovani che pascolano in un prato, e non giovani con la valigia che prendono treni, navi e aerei o che montano a cavallo «diretti» da qualche parte. Un pascolo: qualcuno bruca, qualcuno dorme, qualcuno passeggia in tondo.
 
Non so se sia davvero una incapacità di educare la nostra, o non, piuttosto, una precisa volontà di non educare. Forse propenderei per questa seconda ipotesi: non ci piace dirigere nessuno da nessuna parte. […] Più o meno velatamente pensiamo che educare-dirigere sia un male.
 
Vorrei partire da un esempio, un solo esempio di questa nostra tendenza malata al non educare-dirigere, un esempio piccolo che però mi tormenta da alcuni anni: l’ora di rientro serale. Dare o non dare un’ora di rientro serale a figli adolescenti, e quale ora? È un esempio davvero molto piccolo, direi microscopica e soprattutto assolutamente neutro: volutamente non parlo di droga, sesso e rock and roll… Mi sembra che gli esempi piccoli e neutri ci offrano sempre una migliore serenità.
 
Da anni vedo intorno a me che ad alcuni ragazzi, anche di quattordici o quindici anni, è permesso tornare alle cinque del mattino, o non tornare affatto, dormendo da amici. Perché?
 
Intanto credo che a nessuno di noi genitori piaccia davvero che il figlio torni così tardi. Perché allora lo concediamo? Non penso sia per convinzione e nemmeno per viltà. Penso si tratti di un misto di acquiescenza, complicità e mal inteso amore: vogliamo che i nostri figli siano felici, che non patiscano intoppi, che si divertano, che non abbiano attriti con noi genitori e soprattutto che siano uguali agli altri. E gli altri, almeno così pare, tornano tutti alle cinque! […] Di qui approdiamo a una sorta di sentimento dell’ineluttabile, che a me sembra l’aspetto più deleterio e ignobile dei nostri tempi. È ineluttabile che i figli tornino tardi. Così come sono ineluttabili lo spinello, il naso inanellato, i capelli viola, i pantaloni larghi, le scarpe da 300 euro, il fatto che a scuola non si studi. Riassunto: è ineluttabile avere dei figli così. Quando mio figlio era ancora piccolo e io cercavo di oppormi teoricamente a tutto ciò, mi sentivo dire: vedrai quando cresce, farai anche tu così… […] Ma perché questa rassegnazione a priori, questa preventiva resa, questo abdicare al regno e lasciare il campo prima ancora che arrivi il nemico? E se il nemico non arrivasse mai? Se ce lo fossimo, per paura, inventato noi? E se anche esistesse, siamo sicuri di non saperlo combattere e vincere? Perché crediamo così poco nel nostro ruolo, nella nostra voce autorevole? Perché crediamo così poco in noi e in quello in cui crediamo?
 
Teniamo in sospeso queste domande e facciamo entrare nel discorso don Giussani e il suo libro. Ho incontrato solo ora nella mia vita Il rischio educativo  e mi ha colpito molto. Mi hanno colpito soprattutto due idee; molto forti, molto sconvolgenti per i tempi in cui viviamo, molto universali; idee, voglio dire, che possono e devono riguardare tutti, cattolici e non, laici e non, direi la comunità degli esseri umani in quanto tali.
 
La prima idea è la centralità che don Giussani attribuisce alla persona: l’educatore è innanzi tutto una persona, ed educare è comunicare se stessi, proporre sé come persona in modo totale, chiaro, leale, coraggioso. Questo significa prima di tutto che per educare bisogna essere una persona: bisogna esserlo diventati pienamente. […] Educare è convincere, e fin qui siamo tutti d’accordo, lo abbiamo sempre pensato. Quel che abbiamo pensato un po’ meno, secondo me, è che per convincere bisogna essere prima di tutto noi stessi convinti: cioè avere una nostra visione della vita. È questa l’illuminazione che mi ha dato il libro di don Giussani: per educare, bisogna avere un’idea molto precisa della vita, una vera e propria visione del mondo! Solo allora ci si potrà propone (pur nella consapevolezza dei propri limiti e dei propri errori) come modelli da seguire, come maestri, e si potrà... insegnare! Cioè indicare una via: consegnare al ragazzo un sacco pieno e non vuoto. […]
 
Invece noi oggi pensiamo che propone il nostro personale modello, un sacco pieno delle nostre convinzioni, non sia corretto: riteniamo che sia presuntuoso e illiberale, e che significhi limitare le scelte e reprimere la sconfinata libertà del ragazzo. Sconfinata, già... noi pensiamo che i confini siano un male; i confini, i paletti, i contorni: tutte parole che limitano e dunque imprigionano. Quale errore! […] A noi oggi piace pensare che la libertà equivalga a non pone limiti. E così preferiamo passare al giovane un sacco vuoto, che egli possa riempire come gli piace, senza nessuna indicazione che anche solo minimamente lo costringa: per questo siamo per un’educazione per così dire formale, non sostanziale. Passiamo metodi, non contenuti: basti pensare al pedagogismo che ha ispirato le recenti riforme scolastiche.
 
Avere una visione del mondo vuoi dire avere trovato un senso alla vita. Certo, per don Giussani vuoi dire avere trovato Cristo. Ma il suo discorso è infinitamente più ampio, può essere applicato anche a una visione laica della vita, ed è questa la lettura che ho provato a farne io.
 
Io non credo che cattolici e laici abbiano le stesse difficoltà a educare. Forse oggi anche il mondo cattolico ha qualche problemino, visto che in generale l’attuale società ha frantumato ogni principio in nome della tolleranza, del relativismo, dell’apertura mentale e cosmica, della mancanza di limiti, dell’individualità sfrenata. Ma chi non ha raccolto la proposta di Cristo, chi è ateo o laico o, come si dice oggi con ridicola espressione, «diversamente credente», ha una difficoltà in più. Anzi, ha due difficoltà in più, secondo me. La prima è implicita nella concezione stessa della vita: il laico crede nella vita come sperimentazione continua, apertura al possibile illimitato e incontro con il Caso, di modo che vince la contingenza, non la necessità. Seconda difficoltà: manca una proposta di senso che sia totale com’è quella di Cristo. Nessun messaggio laico sembra oggi possedere i requisiti per proporsi come principio educativo unitario e totale: il concetto di onore è morto nel Seicento (il Don Chisciotte è il suo elogio funebre); l’ideale di patria, trionfante fino all’Ottocento, è sopravvissuto nella prima guerra mondiale e ancora un po’ nella seconda, ma poi si è ribaltato nel suo esatto contrario e oggi guai a chi ha un figlio che vuoi fare il soldato; l’arte come alternativa al potere, il modello di una vita improntata a valori estetici muore con il Decadentismo; infine la cultura è un valore ancora nella scuola gentiliana, ma non certo nella nostra attuale scuola di massa postsessantottina.
 
I laici sono dunque spacciati? Solo i cattolici sono in grado di educare?
 
Spero proprio di no. Ed è qui che farei intervenire la seconda idea forte che personalmente ho incontrato nel libro di don Giussani: l’idea di destino. È l’idea che il giovane che noi ci proponiamo di educare abbia un destino, e che in fondo questa sia la ragione stessa per cui lo educhiamo.
 
L’idea di destino forse ci può aiutare tutti. Questo dobbiamo passare ai nostri figli e studenti, l’idea che abbiano un destino. Certo, è già una visione religiosa della vita. Ma è sicuramente più universale. E poi, forse può esistere una visione religiosa anche nel mondo laico, perché no? Forse la faccenda non è così contraddittoria... Pensiamo a Ulisse, l’uomo che vaga per il mondo; ci mette vent’anni a tornare a casa, ma ha sempre in mente Itaca, lì vuole tornare; ha un’idea di destino, cioè di ritorno. E Itaca è sicuramente un valore neutro (laico?), cioè non segnato religiosamente in alcun modo. […] C’è un elemento bellissimo nella parola destino: l’idea di viaggio. Destino viene dal verbo destinare: mandare a un indirizzo preciso, indirizzare, fàr arrivare a una meta. Il giovane ha un destino nel senso che deve ritornare al luogo che è il suo: deve diventare se stesso, ri-conoscersi. Trovare la strada, rivedere la sua isola, riprendere il suo regno.
 
Allora educare può avere un senso!  Allora educare, dirigere e destinare sono tre verbi che vogliono dire la stessa cosa! Meraviglia: tu adulto educhi il giovane perché vuoi dirigerlo a trovare la strada, la sua natura, sé, il suo ruolo, ciò per cui è destinato! Educare-dirigere-destinare. La vita diventa, per il giovane, immediatamente dotata di senso: ha una meta. La vita è un viaggio, è un ritorno, e lui è di nuovo l’homo viator.
 
Questa, secondo me, è una proposta che tutti possiamo accettare. Non è solo cristiana, è umana nel senso più alto del termine. Se hai l’idea di destino, hai l’idea che tu come individuo sei inserito in un disegno più grande che coinvolge anche gli altri.
 
È questa forse l’idea che abbiamo perduto. Noi oggi ci preoccupiamo solo dei diritti individuali, dello sviluppo della personalità del nostro bambino: l’individuo è sovrano e non ha nulla sopra di sé, non esiste l’idea di società. […] La punizione era l’ultima difesa della società contro l’arbitrio individuale, era l’ultimo baluardo autodifensivo. Non siamo più in grado di punire, e nemmeno di pensare la parola punire, perché non abbiamo più un’idea di società.
 
Ora torniamo al piccolo, microscopico problema dell’orario di rientro serale e proviamo a rispondere alle domande sull’ineluttabile: perché riteniamo ineluttabile che un figlio quindicenne torni alle cinque del mattino?
 
A questo punto secondo me, grazie al libro di don Giussani, possiamo rispondere. Se noi non siamo in grado di proporre-imporre con convinzione un orario di rientro, è per due ragioni: a) non crediamo tanto a noi come persone e alla nostra visione del mondo; b) non crediamo al destino di nostro figlio. […] Vediamo più da vicino cosa vuol dire che un ragazzo di quindici anni torni a casa alle cinque del mattino. Se pensiamo che sia innocuo e irrilevante, secondo me siamo in mala fede. Riusciamo benissimo a immaginare e possibili notti di sballo di un adolescente, tra musiche assordanti da discoteca, bevande più o meno alcoliche, fumo più o meno dannoso: trattasi pur sempre di mandare allo sfascio il cervello. Ma lasciamo perdere come il ragazzo usa la notte, anzi, immaginiamo pure che la usi in modo innocente; è come userà il giorno che ci preoccupa! Come o quanto sarà in grado di usare la mente. Tornare tardi vuoi dire non dormire o quindi, il giorno dopo, non essere in grado di vivere una giornata normalmente desta e produttiva. È un fatto fisico e meccanico: nessuno è Superman. Dunque, c’è un lato implicito molto importante nella nostra scelta: permettendo a nostro figlio di tornare così tardi, noi di fatto permettiamo che lui il giorno dopo, sia che dorma tutto il tempo sia che sonnecchi sui libri o al lavoro, non usi al meglio la sua mente. Noi permettiamo che il giorno dopo per lui sia una giornata persa.
 
Oppure non la riteniamo persa? Qui sta il punto, secondo me. Credo che ognuno di noi dovrebbe chiedersi quale giornata ritiene persa e quale no, e persa in relazione a che cosa. Ecco dunque, che, dietro l’innocuo esempio dell’ora di rientro, sta il senso della nostra vita, ovvero la domanda per eccellenza: quale senso ha per noi la vita, c’è un destino o vaghiamo a caso nel buio?
 
Se noi non abbiamo una visione religiosa della vita, dormire tutto il giorno non ci sembrerà tempo perso. Se noi abbiamo una visione religiosa, invece sì. Se noi crediamo che ci sia un’Itaca da raggiungere, allora ci deve importare moltissimo rimanere al meglio dello nostre facoltà, fisiche, mentali e morali.
 
Quindi, ogni volta che nostro figlio ci chiede a che ora rientrare, noi ci giochiamo il senso della vita. E lui lo sa.
 
Ora un dubbio strisciante: e se nostro figlio avesse come destino quello di dormire e basta? Già, non possiamo escluderlo. Il destino di nostro figlio ci è completamente oscuro. Nostro figlio stesso è un mistero per noi.
 
Ma noi siamo la persona che siamo, le cose in cui abbiamo creduto e noi stessi saremo la nostra proposta, che ci detterà gli eventuali divieti o le parziali restrizioni. Ci verrà naturale dirigere i figli secondo la nostra idea e quindi verso un certo luogo preciso, che ci è molto chiaro: il luogo che piace a noi, e che ci piace non per capriccio, ma perché è fatto della nostra stessa sostanza, che direi contiene il perché della nostra vita. E se il perché della nostra vita non prevede che si torni alle cinque del mattino e si dorma tutto il giorno, allora dovremo vietare questo a nostro figlio. In nome della persona che siamo.
 
Tutto qui, credo che non dovremmo fare altro. Solo accettare che nostro figlio, nonostante tutto quello in cui crediamo noi e che con forza gli abbiamo proposto, è davvero un mistero. E tocca a lui scoprirlo. Noi, semplicemente, crediamo che lo scoprirà meglio se gli avremo dato qualche indicazione precisa.
 
Ad esempio un orario di rientro…
 
 
FONTE: Corriere della Sera - Magazine – 30 marzo 2006
Paola Mastrocola
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