“Vado a scuola” racconta come 4 ragazzi, tra gli 11 e i 13 anni, in 4 angoli sperduti della terra affrontino ogni giorno ore di cammino, a rischio della loro stessa vita, pur di arrivare a scuola...
Non pensate alla solita storia caramellosa e strappalacrime, studiata a tavolino per colpire al cuore gli occidentali ricchi (forse). “Vado a scuola” è un film bello, dove i bambini sono i protagonisti assoluti, con le loro voci e le loro storie, senza inutili commenti fuori campo. Commuove, certo, come è giusto che sia, ma senza facili scorciatoie. Al festival di Locarno, dov’è stato presentato l’ultima sera, ha avuto gran successo. Da noi arriva nei cinema il 26, chissà. Io spero che lo vedano in tanti, adulti e bambini, con e senza gli insegnanti.
“Vado a scuola” racconta come 4 ragazzi, tra gli 11 e i 13 anni, in 4 angoli sperduti della terra affrontino ogni giorno ore di cammino, a rischio della loro stessa vita, pur di arrivare a scuola. E come lo facciano sempre con il sorriso sulle labbra, consapevoli di quanto l’istruzione sia la loro grande, irripetibile possibilità. Le storie si intrecciano, i bambini non sono mai in posa, ma ripresi “al naturale” nei loro dialoghi con i familiari. Nessuno di loro aveva mai visto una troupe, naturalmente, e per essere ripresi hanno chiesto solo di non essere disturbati e non perdere neanche un’ora di lezione.
Si parte con Jackson, Kenya: è il bambino più a rischio perché ogni mattina fa 15 chilometri di corsa, in mezzo alla savana, trascinandosi dietro la sorellina. Per arrivare a scuola deve superare una zona piena di animali selvaggi, soprattutto i temibili elefanti. Il pericolo è noto; ogni anno 4-5 bambini della sua scuola vengono uccisi lungo il percorso mattutino, e appena si entra in classe il maestro fa l’appello per essere sicuro che tutti gli alunni siano arrivati sani e salvi. Nella scuola non c’è l’acqua potabile, e tutti devono portarsi dietro una tanichetta. Ma le difficoltà non scoraggiano Jackson che corre per arrivare puntuale: nel giorno in cui lo segue il documentario, spetta a lui l’alzabandiera del mattino. E ci tiene tantissimo a fare bella figura. Così come ci tiene a presentarsi in ordine; nella prima scena del documentario, si vede proprio Jackson che lava la sua divisa in una buca nel terreno.
Poi c’è Carlito, in Patagonia, che ogni mattina si fa 25 km a cavallo con la sorellina e supera le montagne (i paesaggi sono straordinari). Nella prima parte è solo; poi si incontra con altri ragazzi, anche loro a cavallo. Quando arrivano a scuola, ciascuno parcheggia il suo, come se fosse un motorino. Da grande, dice Carlito, vorrà restare nella sua terra e fare il veterinario, mentre la sorella sogna di diventare maestra.
La storia forse più commuovente è quella di Samuel, 11 anni, che vive con i fratelli più piccoli in un villaggio sul golfo del Bengala. Samuel è disabile e per portarlo a scuola i fratellini devono spingerlo per un’ora e mezza su una carrozzina sgangherata che rischia di perdere i pezzi (e infatti una ruota si sgonfia). Ma il momento più bello è quando i due più piccoli lasciano Samuel davanti alla scuola media, dove lo pettinano e lo accarezzano con un affetto che fa stringere il cuore. E dopo un ultimo bacio lo lasciano ad altri ragazzini, che lo accolgono con un entusiasmo che dovrebbe essere di lezione a tanti. Proprio Samuel, il diverso, è il compagno più amato e la sua presenza in classe arricchisce gli altri
Ma a me ha colpito di più una ragazzina, Zahira, che vive in una comunità berbera tra le montagne dell’Atlante, in Marocco. Zahira è in gamba; mentre le sue sorelle a 13 anni sono già sposate e i fratelli si occupano del bestiame, lei è l’unica che ha il grande privilegio di poter studiare. Glielo spiega la nonna, analfabeta, e la ragazzina annuisce, orgogliosa e consapevole. Ogni lunedì Zahira con due amiche si fa 4 ore a piedi, lungo sentieri impervi, per arrivare nella città dove c’è il collegio che le ospita fino al venerdì. Lungo la strada qualche volta riescono ad avere un passaggio, altre no: un anziano per esempio si rifiuta di dare uno strappo alle bambine che vanno a scuola. Loro però non si scoraggiano, anche quando una si fa male alla caviglia e non può proseguire. Sono forti, entusiaste, allegre e se ne infischiano dei pregiudizi, grazie anche alle famiglie che le appoggiano.
E questo vale anche per gli altri: i quattro ragazzi non affronterebbero quei sacrifici, quei pericoli, se i genitori, pur poverissimi e ignoranti, non li aiutassero. Sono sorridenti e fiduciosi perché pensano – e a ragione – di avere in mano le redini del proprio futuro.
Il regista, il francese Pascal Plisson, esperto in documentari sull’Africa, ha avuto l’idea mentre lavorava a un progetto sui Masai. Ha visto dei bambini che affrontavano i pericoli della savana per andare a scuola, e da lì è partito. Grazie all’Unesco e all’organizzazione internazionale Aide et Action ha avuto i contatti con le scuole, che gli hanno segnalato gli studenti. Ora promette di continuare a seguire i “suoi” magnifici quattro, e di aiutarli. Speriamo.
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