Vale la pena castigare?

È un fatto che i genitori sono frequentemente soli nell'affrontare le problematiche dei figli, senza trovare il tempo giusto per ascoltarli, consigliarli, dare loro delle norme e, quando occorre, dei castighi, se non le osservano. Ma ha ancora valore il castigare? Non è forse mancanza d'amore punire il figlio per sbagli, che gli stessi genitori hanno commesso quando avevano la stessa età?

Vale la pena castigare?

da L'autore

del 10 gennaio 2008

In questi mesi ho incontrato molti genitori preoccupati per i loro figli, presi dalla paura di non essere all’altezza del loro compito educativo e di commettere errori irrecuperabili. Li ho rassicurati! I ragazzi non vogliono genitori perfetti ma genitori passabili, aggiungendo, in base all’esperienza personale, che non esiste nulla di irrecuperabile: sarebbe un limitare la fantasia di Dio, che ha mille modi per ricondurre a casa chi se n’è andato.

È un fatto che i genitori sono frequentemente soli nell’affrontare le problematiche dei figli, senza trovare il tempo giusto per ascoltarli, consigliarli, dare loro delle norme e, quando occorre, dei castighi, se non le osservano.

Ma ha ancora valore il castigare? Non è forse mancanza d’amore punire il figlio per sbagli, che gli stessi genitori hanno commesso quando avevano la stessa età?

Intanto incominciamo a dire che la parola «castighi» è superata: ci riporta ai tempi in cui il maestro usava la bacchetta per richiamare il distratto o il ragazzino troppo vivace, che si guardava bene dal dirlo a casa, per evitare altre punizioni. Suggerisco quindi di sostituire la parola «castighi» con quella di «interventi autorevoli», che contemplino «la pena» ragionevole, quando i ragazzi, non per dimenticanza o fragilità, ma volutamente, trasgrediscono la norma.

Educare significa anche assumersi questo compito, che può essere antipatico, scomodo, ma è importantissimo per formare la coscienza e dare criteri formativi a chi sta crescendo e si trova disorientato di fronte ai mille percorsi che gli vengono messi dinanzi.

È pure importante motivare il «perché» e il «per chi» prendiamo oggi certe decisioni importanti, non accettando i ragazzi i ragionamenti di quel padre, che, intervenendo a un dibattito, ha detto: «Io, se è per me, a mio figlio dico le cose! È che lui mi domanda perché le deve fare. Io non sto a perdere tempo: le fai perché io sono tuo padre!».

Oggi non basta più il principio di autorità! Se non ci sono rapporti sereni di dialogo, di confidenza, diventa difficile ai giovani l’obbedire e accettare la pena per la «disobbedienza». È decisamente più facile obbedire e accettare le norme, se chi comanda, ha l’autorevolezza del testimone, dell’educatore, che sa attendere i risultati, che tenta di capire e di farsi capire, che ridà fiducia a chi ha sbagliato e incoraggia chi sta operando bene e castiga chi fa male.

A propositi di castighi, don Bosco scriveva che uno dei mezzi di correzione può essere «lo sguardo malcontento» dell’adulto, che dimostra a chi ha sbagliato, «per poco cuore che abbia, di essere in disgrazia e lo provoca al pentimento e all’ammenda».

Correzione privata e paterna. Non troppi rimproveri, e fargli sentire il dispiacere dei parenti e la speranza della ricompensa». Castighi, sì, ma non umilianti o violenti! Più di ogni altra cosa, don Bosco suggeriva di «farsi amare», ricordando che «l’educazione è cosa del cuore e che Dio solo ne è il padrone e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi».

Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano

don Vittorio Chiari

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