«Il mio dialogo con Dio è (ri)partito ormai da tanto tempo, perché tutti abbiamo bisogno di una presenza stimolatrice. Provo un gran senso di pace nel sapere che, come dice Papa Francesco».
Al centro del ring, senza più bisogno di incrociare i guantoni con i propri fantasmi, Roberto Vecchioni prova a circoscrivere gli ampi orizzonti del nuovo album Io non appartengo più, sul mercato da martedì prossimo, ricorrendo ad una professione «di pessimismo sociale e di ottimismo individuale» sulla grandezza dello spirito umano. Un disco esistenziale, lo definisce, scritto «come antidoto agli egoismi di un mondo in cui giustizia e umanità sono ridotte sempre più a utopie».
Classe ’43, Vecchioni dice di volersi godere questi «penultimi anni di vita» fuori dai giochi, per presentarsi «davanti a Dio sorridendo, con due bimbe per mano». Il senso di questa nuova raccolta, riflessiva ma non malinconica, sta tutto qui, nel sorriso delle gemelle avute dalla primogenita Francesca, a cui tra i solchi della nuova fatica dedica un brano. Mentre in molte delle canzoni echeggiano le riflessioni di un settantenne nei confronti della morte, del destino, dell’amore e di quello che resterà di noi nel ricordo degli altri. Lontani, invece, i tempi dell’impegno battagliero, «perché in questa politichetta non mi ritrovo», spiega. «L’idealismo è morto e oggi non si va più per sentimenti ma per interessi personali rasentando limiti di indecenza insopportabili; la gente pensa "voto chi mi toglie le tasse" e amen se poi chiudono le fabbriche».
E non solo in Italia, ma nel mondo «come tanti apprendisti stregoni che non riescono più ad arrestare la moltiplicazione delle scope a cui hanno dato vita per pulire il pavimento senza fatica». «Ecco perché non mi riconosco nella globalizzazione, nei mass media, nell’ovvio» prosegue. «Non sopporto questo tipo di democrazia che ora è una demotrofia ed ora una demomania. Quindi non è vero che sarei pronto a difendere il tuo pensiero, che non condivido, fino alla morte come dice Voltaire. Prima, infatti, devi dire cose sensate. E non ce la faccio più a sentire ragazzi che salgono sui palcoscenici dei un talent a dire ’la musica è tutta la mia vita, senza morirei" – si scalda Vecchioni –. Questo perché se la musica è importante, la nostra esistenza deve essere piena anche altre cose. Figli e famiglia, innanzitutto. Oltre a cantare, infatti, bisogna anche capire quel che si sta cantando. E la morte sul palco meglio lasciarla a Moliére».
C’è poi il trascendente. «Il mio dialogo con Dio è (ri)partito ormai da tanto tempo, perché tutto abbiamo bisogno di una presenza stimolatrice. Provo un gran senso di pace nel sapere che, come dice Papa Francesco, Dio sa tutto quel che mi accade. Anche quando mi hanno tolto mezzo polmone e sradicato un cancro dal rene, la coscienza che c’è una sentinella a vigilare sulla mia vita mi ha aiutato – confida il cantautore –. Non credo, infatti, che il nodo alla gola e la lacrima che ti scende davanti alla bellezza di una sinfonia o di una poesia siano frutto solo dell’esperienza. Papa Francesco è partito spedito per la sua strada come Vettel al volante della sua Ferrari in Formula Uno. E ha dimostrato subito di essere uno che fa quel che dice». Si è parlato molto della candidatura del cantautore di Carate Brianza al Nobel e lui ci scherza sopra.
«Paradossalmente penso che a Stoccolma mi conoscano meglio che in Italia; qui infatti sono noto per tre, quattro, dieci canzoni, mentre lì si sono ascoltati tutte e trecento quelle che ho scritto e così hanno fatto con i miei sette romanzi. So benissimo di non essere né Luzi né Montale, ma la segnalazione è arrivata lo stesso e questo, in quanto italiani, dovrebbe renderci tutti felici. Invece quando s’è sparsa la notizia, l’ottanta per cento dei messaggi che ho ricevuto erano improperi. Pace. Questa nomination rimane comunque il punto più alto della mia carriera». «Sono orgoglioso – aggiunge – non per me, ma per la canzone d’autore italiana, fossero stati Guccini o De Gregori sarebbe stato uguale» e un collega come De André «meritava il Nobel, ma non si era ancora arrivati alla concezione che la canzone d’autore potesse essere meritevole».
Massimo Gatto
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