VENERD√å SANTO. La speranza di una redenzione che spezza l'abisso della disperazione ancor oggi, dopo duemila anni: uno scrittore, un monaco e una poetessa spiegano perché.
del 14 aprile 2006
Erri De Luca
QUEL GALILEO INERME E LE GERARCHIE DEL MONDO
Commuoveva le folle attraverso la misericordia e non con l’insurrezione
L'occupazione militare romana aveva esportato il patibolo della croce. Sopra quei legni la resistenza ebraica pagava con migliaia di patrioti il prezzo dell’invasione. I conquistatori venuti da Occidente mai avevano trovato una così ostinata opposizione. La specialità consisteva nella religione, che non ammetteva alcun’altra divinità accanto alla loro. I romani abituati al politeismo del Mediterraneo si urtavano in Israele contro la completa negazione delle divinità altrui. Per gli ebrei era bestemmia venerare un imperatore, vedere l’immagine di Giove sul santuario di Gerusalemme.
La specialità di quel venerdì era che i romani giustiziavano uno che non era un rivoltoso, un insorto in armi contro di loro. Mettevano invece a morte un uomo di pace, salito a fare Pasqua in Gerusalemme con seguaci disarmati e predicatori di fraternità. «Date a Cesare quello che è di Cesare»: quell’uomo raccomandava di pagare i tributi all’invasore, di lasciargli il disbrigo delle faccende terrene. Ma l’inermità di quell’uomo conteneva un pericolo nuovo, che si poteva solo intuire, non misurare. Predicava: «Lieti gli ultimi», «lieti gli oppressi», «lieti gli assetati di giustizia». Rovesciava tavole di mercanti e gerarchie del mondo. Metteva in alto quelli che dovevano stare in basso e restarci. Commuoveva le folle con la misericordia e non con l’insurrezione. Entusiasmava in nome del cielo.
Non una minaccia politica, ma qualcosa di più profondo rimestava i cuori. L’invasore romano lo mise ugualmente a morte, anche se i Vangeli riferiscono qualche scrupolo di Pilato. Ma nella sua coscienza militare quella singola vita in più o meno faceva la differenza di un acino d’uva. Si sbrigò a ordinare l’esecuzione. Era un venerdì e quell’uomo doveva morire prima del tramonto. Il sabato festivo degli ebrei inizia la sera del venerdì. Non andava p rofanato con cadaveri esposti. Pilato aveva imparato a non irritare la suscettibilità religiosa di quel popolo che pretendeva diritti di esclusiva con la divinità.
Fu così che quell’uomo nel pieno degli anni e delle forze morì sopra i pali del supplizio romano contro il sole calante su una spellata altura di Gerusalemme. Galileo, ma nato in Giudea, morì di venerdì prima di Pasqua per mano di stranieri venuti dalla stessa direzione del tramonto.
 
Enzo Bianchi
CONTRO LA BARBARIE RIDARE UN VOLTO ALL’UMANO
La vita è più forte della morte solo grazie a un’esistenza attenta e solidale con l’altro
«Come molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo - così si meraviglieranno di lui molte genti... Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 52,14 - 53,5). E’ questo il mistero sconvolgente che la chiesa ci invita a meditare ogni Venerdì santo: il mistero di un uomo sfigurato, disumanizzato dalla sofferenza, un giusto condannato come maledetto da Dio e dagli uomini, un servo che si carica del peso delle iniquità umane.
Ed è un mistero che non riguarda solo i cristiani: nell’uomo Gesù è l’umanità intera a essere sfigurata, e ciascuno di fronte a quel volto sofferente può e deve chiedersi che ne ha fatto della propria e dell’altrui umanità. Che ne abbiamo fatto del volto del fratello, come abbiamo ridotto e sfigura to quell’immagine divina deposta in ogni essere umano, fino a che punto ci siamo imbarbariti nel nostro pensare e nel nostro agire? Sì, perché l’antica e forse semplicistica spiegazione che ci veniva dal catechismo - «Gesù ha sofferto perché noi abbiamo peccato» - contiene una verità profonda: è l’Uomo, l’essere umano a patire e soffrire il male che gli umani compiono; è la nostra barbarie a vituperare, denigrare, sfigurare la dignità dell’Uomo - «Ecce homo», ha esclamato Pilato prima di consegnare Gesù alla folla - a rendere insopportabile il volto dell’altro. Quando ci rifiutiamo di vedere l’altro che soffre, quando misuriamo il nostro agire sul tornaconto personale, quando neghiamo al nostro simile la sua qualità di essere umano, quando calpestiamo la sua dignità, quando lo irridiamo con il nostro comportamento sprezzante, noi ci collochiamo tra quanti hanno crocifisso quel rabbi di Nazareth che era passato in mezzo agli umani compiendo il bene.
Meditare sul mistero del Venerdì santo significa allora ripensare alla verità che in un mondo ingiusto il giusto può solo finire messo a morte, significa ricomprendere come l’affermazione quotidiana della vita più forte della morte passa attraverso un’intera esistenza attenta, responsabile, solidale con la vita dell’altro. Il dono più grande che il Figlio dell’Uomo, Figlio del Dio 'filantropo', amante degli uomini, fa ai suoi amici è proprio il dono della vita fino all’ultimo respiro, fino a quel soffio vitale che esce dalla bocca del Crocifisso per salire al Padre nel pieno abbandono e per discendere sui discepoli rimasti accanto al loro Maestro che muore segnato dalla maledizione. Ma, come promette il Signore al suo servo ancora per bocca del profeta Isaia: «Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti».
 
Rosita Copioli
L’ARMONIA TRA GESÙ E IL SILENZIO DEL PADRE
Come scrisse Goethe, dopo il mistero della Croce l’umanità non può tornare indietro
Quando il dolore e la sventura sono stati profondamente abbracciati, e si è sulla soglia di una desolazione assoluta, si possono pronunciare le parole che Simone Weil scrisse mentre leggeva i Vangeli di Marco e di Matteo sulla Passione e Crocifissione di Gesù. La Weil trovava «un’armonia tra il perché del Cristo (ripetuto incessantemente da ogni anima nella sventura) e il silenzio del Padre. L’universo (noi compresi) è la vibrazione di questa armonia».
Ma chi di noi accetta la sventura attraverso il male puro, la ferocia che calpesta il bel fiore spargendo la sua traccia purpurea sulla terra? È accaduto da sempre. Accadrà sempre. Il male ha milioni di nomi, milioni di forme. Questi ultimi secoli li hanno moltiplicati.
Gesù che muore sulla croce e risorge è la risposta più alta all’abisso della disperazione che tocca chi è colpito ed è impotente. I Vangeli di Marco e Matteo mostrano il mistero tremendo, incomprensibile dello sdoppiamento tra Gesù e il Padre, la solitudine nel Getsemani, la separazione dal Padre sulla croce, dove per l’unica volta Gesù non lo chiama Padre, ma Dio. Accade come se colui che aveva detto 'Io e il Padre siamo una cosa sola', e conosce perfettamente i piani del Padre, la propria natura, fosse stato abbandonato solo alla nostra natura umana, carne che trema, grumo di sangue, ferita, morte. Occorreva dunque la morte di Dio figlio, perché l’uomo diventasse come il Padre, definitivamente una cosa sola con lui, portando al compimento l’irradiazione dell’unità divina con tutti coloro che l’amore di Cristo abbraccia, come scrive Giovanni.
Dopo la croce, «l’umanità non può tornare indietro», scrisse Goethe. Cristo croce risorto fa del sangue luce.
Agli uomini tanto ci volle per «riconoscere l’abiezione e la povertà, il dileggio e il disprezzo, la vergogna e la miseria, il dolore e la morte come divini, anzi per considerare il peccato stesso e il delitto non come impedimenti, ma onorarli e amarli come stimolo alla santità».
Erri De Luca, Enzo Bianchi, Rosita Copioli
Versione app: 3.26.4 (097816f)